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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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Introduzione

di Anna Cordioli

(Padova) Membro Associato della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi

“We’ll meet again

Don’t know where, don’t know when

But I know we’ll meet again some sunny day”

(Vera Lynn, 1939)

Nel 1939, alla radio Britannica viene mandata “We’ll meet again” (ci rincontreremo), cantata con voce soave da Vera Lynn. La canzone, struggente e molto orecchiabile, è una promessa che ci sarà un “dopo” in cui sarà possibile ritrovarsi e ricominciare a vivere una vita felice.

È una canzone di speranza che era entrata nei cuori dei soldati e dei civili di lingua inglese, coinvolti nel conflitto bellico.

We’ll meet again” divenne molto popolare durante la seconda guerra mondiale e veniva trasmessa alla radio dopo i bombardamenti per cercare di risollevare il morale della popolazione. Ci sarebbe stato un dopo guerra, bisognava tenerlo a mente.

Questa stessa canzone la ritroveremo esattamente 40 anni dopo, citata in The Wall dei Pink Floyd.

Roger Waters, cantante del gruppo inglese, aveva perso il padre nell’attacco di Anzio. Lui era uno di quei bambini che non avevano potuto riabbracciare il proprio padre; per lui, dopo la guerra, non c’era stato il grande reincontro ma un vuoto pieno di fantasie terrifiche e il sentimento di essere in qualche modo fuori sincrono rispetto alla gioia della rinascita che sentiva attorno a sé.

 Vera Lynn aveva dunque mentito: non c’è sempre un happy end alla fine delle guerre, anzi: un numero spaventoso di giovani erano morti come “ratti nelle trincee” (Pink Floyd, 1979). Non c’era stato un futuro per loro e anche il futuro dei loro cari era stato storpiato.

Anche chi aveva combattuto ed era tornato portava i segni della guerra: o era menomato nel corpo o comunque portava in sé le ombre lunghe di orrori patiti o agiti.

 

Louis-Ferdinand Céline apre il suo libro ”Guerra” con un ricordo di sé stesso che si risveglia dopo un bombardamento. È l’unico superstite di una carneficina orribile che si può raccontare solo per dettagli. Corpi, sventrati e dissacrati dagli obici, giacciono in una poltiglia che non permette più di distinguere gli umani e i loro cavalli.

Céline ci dice subito che non potrà mai più vivere senza avere dentro l’orrore di quelle battaglie: “Ho sempre dormito così nel rumore atroce dal dicembre ’14. Mi sono beccato la guerra in testa. Ce l’ho chiusa nella testa. […] Ho imparato a distinguere i rumori esterni dai rumori che non mi avrebbero lasciato mai più. […] per pensare, anche un minimo, mi ci dovevo mettere a spizzichi e bocconi come quando due si parlano dal binario di una stazione quando passa un treno. Un pezzetto per volta di pensiero ben fatto, uno via l’altro. È un esercizio che stanca, vi assicuro. Adesso sono allenato. Vent’anni, uno impara. Ho l’anima più dura, come un bicipite. Non ci credo più alle scorciatoie. Ho imparato a fare musica, sonno, perdono e, come vedete, anche bella letteratura, con piccoli tocchi di orrore strappati al rumore che non finirà mai più” (Cèline, 2022, 25-27).

La guerra segna per sempre gli individui, i gruppi, presenti e futuri.

 

Il libro “Niente di nuovo sul fronte occidentale” (Remarque, 1928) inizia con queste frasi: “Questo libro non vuole essere né un atto d’accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raccontare di una generazione la quale anche se sfuggì alle granate venne distrutta dalla guerra”.

Generazioni. La guerra macella le generazioni: sia quelle direttamente coinvolte nelle battaglie, sia quelle che verranno.

In “The Wall” si vede chiaramente come la morte del padre, causerà al bambino dolori profondi al punto che, crescendo, si troverà colmo di angosce e in preda a frammentazioni sempre più radicali.

La guerra colpisce anche a distanza di intere generazioni; gli incubi si fanno sempre meno percepibili alla coscienza eppure non spariscono: semmai si infiltrano nel profondo e diventano portati transgenerazionali.

La guerra lascia un segno così lungo che supera l’arco di vita di coloro che hanno avuto la sfortuna di parteciparvi. Così vediamo che la guerra distrugge le vite e le cose ma distrugge anche la linea del tempo.

Siamo ancora qui a chiederci perché… “Perché la guerra?”  (Freud, 1933), perché un’altra guerra? E amaramente dobbiamo accorgerci che questo dipende dal fatto che la guerra precedente non era ancora finita: le sue propaggini inconsce erano ancora solo in parte elaborabili, avvelenavano le istituzioni e ammalavano i singoli individui.

 

***

 

Nell’estate del 2021 mi ero trovata a scrivere per il web del Centro Veneto di Psicoanalisi un breve ricordo per i 30 anni dallo scoppio della guerra nell’ex-Jugoslavia.

Mi rattristava accorgermi che a ben pochi interessava quella ricorrenza.

In quell’occasione avevo ritrovato un bell’articolo di Paolo Fonda (2004) in cui ricordava di essere stato in Istria proprio nei giorni dello scoppio bellico tra quella che oggi è la Slovenia e il resto della Jugoslavia. Era l’inizio di un conflitto sanguinosissimo che durò, poi, dieci anni.

Mi trovai ben presto a discutere con lui e con Vlasta Polojaz della necessità di parlare di quella guerra.

Paolo e Vlasta, psicoanalisti del nostro centro, sono sloveni-italiani e nella loro esistenza hanno incrociato molto spesso i conflitti bellici e le persecuzioni etniche. Da decenni si occupano di formare gli analisti nell’Europa dell’Est e nessuno quanto loro era capace di leggere i depositi lasciati da quella guerra.

Ci sembrava importante avere memoria dei fatti degli anni ’90, un po’ perché il conflitto Jugoslavo era stato una ferita anche per noi italiani – così vicini e spesso imparentati con quei territori- e un po’ perché mi sembrava che nessuno avesse voglia di ricordare che il 1991 era un passato troppo prossimo per poterci dire liberi.

Mi chiedevo che tipo di rimozione fosse in atto: se avesse l’impasto delle scissioni difensive tipiche del trauma attuale o se invece avesse a che fare con inclaustramenti omertosi di nuclei ambigui (Bleger, 1967).

C’era però anche un altro motivo per cui, nell’estate del 2021, quel tema mi sembrava fondamentale: come ebbi modo di raccontare loro, ero molto impensierita da ciò che potevo vedere da quella finestra che è il web.

C’era una strana aria elettrica.

Eravamo ancora immersi nella seconda ondata del Covid e forse quell’umore pre-apocalittico era giustificato dagli sconvolgimenti causati dalla pandemia.

Eppure non era solo quello: i populismi si stavano facendo sempre più disimpastati, le tifoserie socio-politiche più paranoiche e l’economia sembrava fragilissima. Lo era.

E’ noto che la pandemia di influenza spagnola era scoppiata durante la prima guerra mondiale e anche chi, come me, di guerre non ne aveva vista mai vista nessuna, poteva avere una strana sensazione di deja vu.

Chiedevo a Paolo e Vlasta cosa ricordassero della guerra in ex-Jugoslavia e ancora prima, se ricordassero le persecuzioni sul confine del ‘900.

Tra me e loro c’è di mezzo una generazione e quello che si creava in quella nostra conversazione era una scena che aveva un impasto transgenerazionale potente (Spiller, 2022): avvertivo le risalite di un fiume carsico che si era invaginato molti decenni prima senza mai estinguersi. Loro mi raccontavano ciò che si poteva ricordare sottolineando però anche quanto l’oblio faccia parte dei processi di elaborazione del trauma.

 “Ci vuole tempo per arrivare a pensare il trauma. Decenni. Devono passare le generazioni” diceva Paolo.  

Ci venne il desiderio di allargare il dialogo ai colleghi: erano molti che si erano interessati alla cura dei traumi di guerra. Avremmo potuto fare un gruppo di studio e magari un convegno.

 

La storia però ci precedette e il 24 febbraio 2022 le truppe russe invasero l’Ucraina orientale. La guerra era davvero tornata in Europa.

Tutti ricordiamo l’angoscia che ci prese per i civili attaccati e per gli eccidi che, settimana dopo settimana venivano alla luce. Quasi subito iniziò anche la contro-informazione: gli eccidi non erano mai accaduti, i bambini non erano mai stati rapiti, le bombe erano di liberazione, non di attacco.

Una delle prime epifanie della guerra è il crollo dell’accordo sulla realtà: se fino a prima sembrava possibile stabilire se un fatto si fosse in effetti verificato, poi ogni compagine gridava già la propria verità. In guerra, bugie e verità sono questioni relative: sarà la forza di chi vince a stabilire come leggere gli eventi.

Si resta increduli nel vedere quanto diventi difficile affermare in modo definitivo che un male è stato compiuto. Dentro di sé ciascuno sente con forza le emozioni e cerca chi le prova in modo simile, per rinforzare il proprio senso di realtà.

 

Chi è esterno al conflitto non può fino in fondo capire l’angoscia prodotta da questo relativismo che distrugge i contorni del reale. Chi è esterno, invita le parti ad una mediazione e tenta di ricostruire una cornice per il dialogo. E, come abbiamo potuto scoprire nei fatti, talvolta questo tentativo diventa offensivo per le parti in conflitto, specialmente per chi è stato aggredito.

Chi cerca una mediazione, chi ha la fortuna di non essere coinvolto direttamente nella guerra, deve dunque ricordarsi che la posizione di terzietà e la capacità di avere un pensiero che integra le parti scisse, sono due prodotti altissimi della psiche e che sono un lusso che ci possiamo permettere quando non dobbiamo temere per la nostra sopravvivenza.

Chiedere di avere un pensiero triangolato a chi sta lottando per la propria vita e per la propria realtà, può nascondere una radicale non comprensione del vissuto altrui.

Noi qui, in quella parte di Europa semi-coinvolta, eravamo ancora convinti che si potesse essere moderati, che la guerra non fosse già arrivata a cambiare anche i nostri usuali parametri con cui comprendiamo la realtà. Ma il contagio fu velocissimo.

 

Ricordo che avevo la sensazione di dover imparare in fretta cosa significasse essere in un pensiero di guerra: l’opinione pubblica fu intasata da polarizzazioni sempre più radicali, gli elettori preferivano dei governi di destra e si cominciava già a sentire la nostalgia di un passato che fino a pochi anni fa consideravamo sciagurato.

Dovemmo tutti accorgerci che la guerra ha il potere di influenzare le relazioni tra le persone anche a migliaia di chilometri da dove cadono le bombe.

Serviva fermarsi e pensare.

 

Su iniziativa di Vlasta e Paolo, la Fondazione Polojaz propose al Centro Veneto di Psicoanalisi di creare assieme una giornata internazionale di studi sul tema delle esperienze di guerra.

Sono molto grata all’assemblea e all’esecutivo del CVP di aver accolto con convinzione questa iniziativa, svoltasi poi il 1° ottobre 2022.

Rotante Knot-guerra

La prima parte di questo numero del KnotGarden raccoglie quasi tutti i lavori proposti durante il meeting internazionalePensiero psicoanalitico ed esperienza di guerra, che ottenne anche il patrocinio della Società Psicoanalitica italiana.

Intervennero, oltre a vari analisti del nostro centro, anche colleghi Ucraini, Sloveni e della Bosnia-Erzegovina. In questo numero, manca solo l’intervento del dr. Matačić che aveva portato un intenso e bellissimo lavoro clinico e che non può essere pubblicato per motivi di privacy.

 Sul sito della Società Psicoanalitica Italiana è possibile leggere un resoconto tematico del convegno.

I lavori sono stati aperti da Roberto Musella, che a Nome della SPI ha dato il benvenuto ai molti ospiti nazionali e internazionali.

A seguire Patrizio Campanile, presidente del CVP ha proposto una breve introduzione dal titolo Distruttività: un’intollerabile realtà. Portando subito i lavori nel vivo del tema.

Oleksandra Mirza, presidentessa della Società Psicoanalitica Ucraina, è intervenuta con un lavoro in cui confrontava il pensiero e la propaganda, in tempo di guerra. Mirza ha voluto partecipare di persona al meeting, svoltosi a Padova, per portare direttamente la testimonianza di ciò che stava accadendo proprio in quel momento nella sua nazione. Il collega Igor Romanov, responsabile del training della UPS, era invece dovuto rimanere in Ucraina, in quanto uomo in età di leva e dunque impossibilitato ad uscire dal paese in guerra. Il dr. Romanov si era però collegato via zoom, partecipando al meeting con un lavoro ricchissimo intitolato: “La guerra dentro: L’esperienza inconscia della guerra in un paziente e in un analista”

Per noi, è stata una doppia emozione poter ascoltare le riflessioni cliniche del dr. Romanov, che avevamo sentito nei primissimi, drammatici, giorni dopo l’invasione russa, quando la sua città era stata appena bombardata.

Per il CVP è intervenuto Alberto Luchetti con un corposo intervento dal titolo Perché la guerra? Senza vento nelle vele e con lenti mulini in cui ha approfondito le riflessioni sulla guerra fatte da grandi analisti tra cui, Freud, Money-Kyrle, Fornari e Laplanche. 

Paolo Fonda, che è anche membro della fondazione Polojaz, ha esposto una originale lettura della posizione schizo-paranoide nelle dinamiche di conflitto bellico, ponendo poi l’attenzione sulla questione del tempo necessario perché la guerra venga elaborata.

Maja Dobranić, una collega di Sarajevo aveva già collaborato con il sito del nostro centro con un ricordo dell’inizio dell’assedio della sua città nel 1992; al meeting di Ottobre 2022 ha portato un lavoro molto toccante sulla condizione psichica che si attiva nei pazienti e nell’analista quando si è stati vittime civili di una ideologia del massacro.

Concludono questa prima parte del KnotGarden, un commento al convegno, proposto da Andrea Braun e Maria Ceolin e un toccante discorso di Vlasta Polojaz che ripercorre le attività svolte dalla Fondazione Libero e Zora Polojaz in favore dei giovani analisti dell’est-Europa e per lo sviluppo di una cultura di pace basata sullo scambio autentico e mai retorico tra colleghi di territori diversi. 

Le altre tre parti di cui è composto questo numero del KnotGarden raccolgono articoli che toccano varie questioni relative alla guerra.

La parte seconda è incentrata su questioni storiche della psicoanalisi inglese.

Patrizia Montagner e Raoul Pupo hanno riletto il testo di Winnicott “Discussione sugli scopi della guerra” del 1940, cercando di comprendere, anche attraverso una contestualizzazione storica, come possa essere giunto un analista così mite a vergare delle pagine tanto dure.

Maria Tallandini ha ricordato il grande lavoro compiuto da Anna Freud e Dorothy Burlingham nelle Hampstead Nurseries, asili di guerra dedicati ai bambini traumatizzati e/o orfani.

Nella terza parte della rivista troviamo una serie di articoli che portano l’attenzione su singoli conflitti bellici o su funzionamenti psichici che ritroviamo nei carnefici o nelle vittime.

Wolfgang Lassmann, un collega viennese, ha portato un contributo dal titoloUn legame inestricabile. Tentativi individuali e collettivi di fare pulizia una volta per tutte portando l’attenzione sugli aspetti di crudeltà, tanto eterni quanto quotidiani, che attraversano l’umanità.

Ambra Cusin, ci porta nel martoriato medio-oriente con il suo articoloCronache emotive da un luogo dove oppresso e oppressore condividono la stessa terra.

Ilenia Emma Caldarelli ha, invece, affrontato il tema delle drammatiche trasformazioni del setting psicoanalitico, testimoniate dai colleghi libanesi nei decenni di guerra che ha piagato la loro nazione.

Patrizia Montagner riporta, infine, una vibrante testimonianza del lavoro con un gruppo di adolescenti ucraini, rifugiati in Italia a causa del conflitto, che esprimono coi loro disegni l’orrore che hanno visto e da cui si sentono invasi. Il gruppo di lavoro della dottoressa Montagner ha ottenuto, nel 2023 il premio IPA “In the Community and the world” proprio per il supporto dato ai rifugiati ucraini.  

La quarta e ultima parte di questo KnotGarden raccoglie, con una mia breve introduzione di cornice, due lavori portati al convegno della Federazione Europea di Psicoanalisi del 2022 a Vienna. Massimo De Mari e Carine Minne, ragionano sugli effetti psichici della mafia e sul funzionamento delle gang criminali. Sebbene queste non si possano considerare strettamente delle situazioni di guerra, esse ci mostrano con crudezza molte delle deformazioni che l’Io patisce durante un conflitto bellico, in particolare connesse all’Io ideale.

La guerra, come vedremo, cambia completamente l’esperienza di una persona e chi si prende cura di questi dolori deve davvero comprendere, come scriveva Céline, che non ci sono “scorciatoie” e che non basta una canzone per credere che ci possa essere ancora “un dopo” pieno di sole.

 

Bibliografia

Bléger J. (1967). Simbiosi e ambiguità: uno studio psicoanalitico. Loreto, Laureatana, 1992.

Celine F. (2022). Guerra. Milano, Piccola Biblioteca Adelphi, 2023

Fonda P. (2004). La paura dell’immagine di sé dopo la guerra. in “Verità Storica e Psicoanalisi” a cura del Centro Veneto di Psicoanalisi, Roma, Borla

Freud S. (1933). Perché la guerra?. O.S.F., XI.

Remarque E.M. (1939). Niente di nuovo sul fronte occidentale. Vicenza, Neri Pozza Editore, 2016.

Spiller D. (2023). Il trauma e i suoi segreti nella trasmissione psichica transgenerazionale. Knotgarden 2022/3 “Bambini e adolescenti di fronte al segreto”, Centro Veneto di Psicoanalisi. https://www.centrovenetodipsicoanalisi.it/knot-2022-3-il-trauma-e-i-suoi-segreti-nella-trasmissione-psichica-transgenerazionale/

 

Discografia

Pink Floyd (1979). The Wall. Londra, Harvest EMI.

Lynn V. (1939). We’ll meet again. Londra, Michael Ross Limited.

Anna Cordioli, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

annacordioli@yahoo.it

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