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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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Commento

al convegno "Pensiero Psicoanalitico ed Esperienza di Guerra"

di Andrea Braun[1] e Maria Ceolin[2]

[1] Andrea Braun (Padova), Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi, Fondazione Polojaz.

[2] Maria Ceolin (Padova), Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Segretario scientifico del Centro Veneto di Psicoanalisi.

Siamo arrivati alla fine del Seminario dedicato all’eterna domanda “Warum Krieg? / Why war?”. Condividiamo quanto affermato da Alberto Luchetti nella densa relazione di apertura:

La risposta a quell’interrogativo, è proprio lo stesso interrogativo

Abbiamo fortemente desiderato quest’incontro per pensare insieme ai colleghi, che hanno fatto l’esperienza della guerra o sono costretti a subirla nell’attualità, su come la guerra influenza noi e il nostro lavoro come psicoanalisti.

Come si sanano i disastri che la guerra produce? Dove trovano, le persone, le energie per superare l’orrore della guerra? si chiede Patrizio Campanile, richiamando l’attenzione su come l’orrore verso la propria distruttività porti a far ricorso a spiegazioni ed ideali che la rendano giustificabile. Gli ideali, necessari a sostenere l’Io, possono aprire la strada della distruttività anche dentro le vittime.

 

Tra poco apriremo la discussione per confrontarci sulle impressioni scaturite dalle relazioni della mattinata e dagli scambi successivi all’interno dei piccoli gruppi.

Dunque, prima di passare la parola a tutti voi, un breve commento.

In occasione della dichiarazione di guerra di Bush all’Irak di Saddam Hussein, Simona Argentieri (2003,27) si chiese quanto possa essere utile lo strumento psicoanalitico in un contesto simile. “A fronte di eventi traumatici collettivi, di minacce di morte e di guerra, anche gli psicoanalisti non possono che provare – come tutti – paura, incertezza del futuro, senso di impotenza…; magari restando – si spera – un po’ più consapevoli, senza dimenticare il loro ruolo precipuo di contenimento delle angosce altrui”. Nelle parole di Argentieri si apprezza il senso del limite anche quando esprime l’invito ad astenersi dall’uso di interpretazioni psicoanalitiche selvagge a mo’ di armi improprie.

La psicoanalisi applicata ha indagato le implicazioni inconsce della guerra. Luchetti nella sua ricostruzione parte dallo scambio epistolare tra Einstein e Freud, per poi considerare numerosi altri apporti tra cui quelli di Fornari, Glover e Money Kyrle. C’è sempre il rischio di sconfinare inopportunamente in territori di pertinenza della politica e della sociologia, allontanandoci dalle nostre competenze specifiche. Insidia questa che ci sembra tutti i relatori oggi siano riusciti a evitare, portandoci sul terreno dell’esperienza clinica.

Abbiamo trovato delle sintonie importanti tra i lavori di Alberto Luchetti e Igor Romanov sull’importanza dei contributi psicoanalitici che riguardano la guerra. Romanov, in particolare, ci ha fatto riflettere sulla guerra in un mondo globalizzato e sugli strumenti tecnologici che possono diffondere notizie in tempo reale e mantenere aperte le comunicazioni tra le persone attraverso la rete.

La consapevolezza del limite la ritroviamo nel dubbio formulato da Igor Romanov. Poco dopo l’inizio dell’invasione delle forze armate russe in Ucraina, egli si chiese:

Quanta negazione c’è nei nostri sforzi per mantenere l’attività psicoanalitica nella situazione attuale?” (Romanov, 2022,2).

Il materiale clinico che Romanov condivide generosamente con noi ci aiuta a cogliere quanto difficile sia lavorare sulla realtà psichica nel contesto di una guerra in corso.

Egli cita chi afferma: “In tempo di pace, e nei paesi democratici, non ci rendiamo conto, perché siamo così fortunati, delle condizioni implicite indispensabili affinché il metodo psicoanalitico possa essere applicato” (Romanov, 2022,2).

Sia Romanov che Oleksandra Mirza si interrogano sui requisiti minimi per poter lavorare in un paese in guerra e li individuano in condizioni in grado di garantire almeno una “relativa sicurezza”. La realtà esterna entra sulla scena con il suo potenziale distruttivo e si sente la voce di Winnicott che invita i colleghi a cercare riparo durante il bombardamento di Londra.

Paolo Fonda stabilisce dei parallelismi significativi tra la guerra in Ucraina e quella nella ex Jugoslavia. Li riconduce alla difficoltà del potere centrale statale di accettare spinte verso l’autonomia, spinte considerate una minaccia per vecchi equilibri e assetti dati per scontato. A questo proposito egli parla di “Narcisimo individuale innestato su quello del gruppo” (Fonda, 2022, 335) e delinea un approccio attento alle dinamiche gruppali da un’angolatura psicoanalitica.

Abbiamo particolarmente apprezzato il suo richiamo alla dimensione temporale per quanto riguarda una possibile elaborazione dei traumi di guerra.

Il plurale fa riferimento ai traumi delle vittime sia fra gli sconfitti che fra i vincitori. Fonda vi include i traumi dei perpetratori di crimini commessi in guerra da ogni parte.

In sintonia col realismo di Fonda sul tempo occorrente, ci è sembrata la parte finale del lavoro di Luchetti e il richiamo poetico al Pantagruel di Rabelais.

Ci vorranno decenni e spesso non sarà sufficiente l’arco di una generazione, per arrivare a quella forma di elaborazione in cui l’assunzione delle proprie responsabilità porta al dialogo con l’altro, appartenente al gruppo opposto, vittima o perpetratore che sia, osservano Maja Dobranić e Paolo Fonda.

Il tema delle conseguenze a lungo termine della guerra e di come affrontarle è ulteriormente sviluppato da Stanislav Matačić nel caso clinico di Ivan. Si tratta di un caso, come ricorderete, presentato a Padova poco dopo la fine della guerra nella ex Jugoslavia.

Durante la guerra, Ivan viene portato dai genitori nell’ambulatorio per un sintomo psicosomatico: un focolaio di alopecia.

Nell’urgenza Stanislav Matačić riesce a fare un intervento focale, sufficiente alla remissione (temporanea) del sintomo. Il vero lavoro terapeutico, invece, si svolgerà in un secondo tempo, svincolato dall’urgenza, a guerra finita, quando sarà possibile pensare ad una rielaborazione dei vissuti traumatici.

Maja Dobranić (2022, 332) afferma: “Avrei preferito non scrivere mai di Sarajevo, dell’assedio di Sarajevo, dell’aggressione alla Bosnia”.

Ma ora c’è un’altra guerra che porta in primo piano i ricordi del passato: “Ventisette anni dopo la fine della guerra, ho rimosso l’esperienza fatta durante la guerra. Sono dissociata perché i ricordi sono numerosi e con l’allentamento della “diga” sono stata travolta dai sentimenti intensi che seguono i ricordi”.

Nel materiale clinico, che Dobranić condivide con noi, riusciamo a cogliere come queste esperienze tornino in trattamento decenni dopo e come diventa possibile affrontarle ora.

Maja Dobranić ci segnala che accanto ai ricordi travolgenti occorre considerare i punti ciechi e la loro funzione protettiva. La storia di sei ciechi e dell’elefante ci ha fatto venire in mente “Cecità”, il romanzo di Saramago, che narra di un’improvvisa diffusione di una forma di cecità contagiosa in città. Mentre l’ordine sociale crolla rapidamente, il governo tenta di contenere il contagio attraverso misure repressive e un lockdown brutale. La violenza cieca minaccia di sopraffare la solidarietà, i rapporti umani e la razionalità…

E l’assenza di ratio è una delle principali questioni sollevate da Maja Dobranić.

 

Per finire ci piace ricordare Alexander Langer che il 22 febbraio 2021, per il Settantacinquesimo anniversario della nascita, ricevette la Cittadinanza Onoraria dal Consiglio Comunale di Sarajevo, per il suo impegno per la promozione della pace e della riconciliazione in Bosnia Erzegovina durante la guerra del 1992-1995.

Negli ultimi anni della sua vita, egli dedicò un particolare impegno alle ragioni della pace nei territori dell’ex Jugoslavia segnati dalla guerra e, nel 1994, introdusse per la prima volta al Parlamento Europeo l’idea di costituire un Corpo Civile di Pace Europeo per gestire, trasformare e prevenire i conflitti senza l’uso della violenza e delle armi

Riferendosi al motto del Barone de Cubertein, fondatore dei moderni giochi olimpici – citius,  altius, fortius, più veloce, più alto, più forte – che  afferma i valori della cultura della competizione della nostra civiltà, egli invita a praticare l’opposto: “Io vi propongo al contrario di capovolgere ognuno di questi termini: lentius, profundius e soavius, più lenti invece che più veloci, più in profondità invece che più in alto e più dolcemente o soavemente invece che con più energia, con più muscoli. Con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale, però forse si ha il fiato più lungo”. 

Bibliografia

Argentieri S. (2003). Freud contro Bush. In MicroMega 2/2003. Roma, Gruppo editoriale l’Espresso spa, Città Nuova.

Dobranić M. (2022). Sarajevo: ora e allora. In Centro Veneto di Psicoanalisi, 5 Aprile 2022, e successivamente In Psyche, 1/2022 vol. IX. Bologna, Il Mulino.

Fonda P. (2022). Guerra. Immagini dal grande fiume della vita. In Psiche, 1/2022. Rivista di cultura psicoanalitica. Bologna, Il Mulino.

Langer A. (1994). Quattro consigli per un futuro amico. Convegno giovanile di Assisi. 

Romanov I. (2022). Equation, moralization and denial: Observation from the war in UKraine Romanov, I. (2022). Comment on the Zoom meeting on Ukraine war organized by the Ukrainian Psychoanalytic Society, 15.5.2022.

Andrea Braun, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

danaernarub@gmail.com

 

Maria Ceolin, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

maria.ceolin@spiweb.it

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