È stata superata, da parte degli psicoanalisti, la fase di un approccio difensivo “patografico”, che applicava concetti tratti dalla teoria per “interpretare” le opere o la personalità dei registi e, da parte di questi ultimi, quella di utilizzare didascalicamente gli strumenti psicoanalitici. Oggi, riconosciute le molte analogie tra l’apparato psichico e quello cinematografico, in particolare tra film e sogno, mantenendo definiti i confini tra l’una e l’altro, senza intrusioni e confusioni, quelle iniziali affinità hanno creato uno spazio di pensiero specifico, un territorio comune fecondo, in costante evoluzione.
Tra un film e il suo spettatore, così come tra il sogno e il suo sognatore, s’instaura uno scambio reciproco che diventa una relazione personale e unica, la cui intensità dipende dalle caratteristiche dell’identità, dalla storia, dalle memorie, dalle rappresentazioni mentali, dalle modalità relazionali dello spettatore stesso.
In particolare, uno psicoanalista, in quanto conoscitore delle connessioni complesse che sussistono tra mondo esterno e mondo interno, può essere indotto dalla visione di un film a interrogarsi non solo su temi di specifico interesse che possono emergere dall’opera, ma anche sul significato che l’impatto delle senso-percezioni esperite durante la visione suscita dentro di sé. Ne può quindi suggerire un’ipotesi di lettura che, senza pretese di verità, vuole essere stimolo di riflessione e di affinamento della conoscenza.
Con tale prospettiva si propongono i contributi ospitati in questa Sezione, che considera l’arte cinematografica in grado di consentire alla psicoanalisi, in questo mondo in rapida e caotica trasformazione, di individuare traiettorie di pensiero e di produrre significati condivisibili grazie alla mediazione delle immagini.
Elisabetta Marchiori
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