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Amor

Commento di Paola Golinelli e Elisabetta Marchiori

Titolo: “Amor”

Dati sul film: regia di Virginia Eleuteri Serpieri, Italia, Lituania, 101′

Genere: documentario

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=V4odx1KC3R0

 

“Amor” è un interessante film documentario di Virginia Eleuteri Serpieri, distribuito da Stefilm, presentato fuori concorso alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2023; ha ricevuto una Menzione Speciale al Rome International Documentary Festival.

Si iscrive nella categoria delle opere prodotte da figlie e figli che hanno perduto drammaticamente un genitore che si è tolto la vita. Fa subito venire alla mente “Un’ora sola ti vorrei” (2002) di Alina Marazzi, esempio commovente e suggestivo di lavoro della memoria per costruire e ricostruire a ritroso un percorso affettivo, alla ricerca del recupero del legame con la madre suicida, perduta all’età di sette anni. La voce fuori campo della regista accompagna sequenze tratte dai filmini in super8 girati dal nonno, l’editore Ulrico Hoepli, durante le feste e le vacanze di famiglia. Legge frammenti di diari, lettere e cartelle cliniche, in una narrazione sintetica — meno di un’ora — densa di nostalgia profondamente condivisibile e necessaria al superamento della perdita.

Anche nel film “Amor”, anagramma di Roma, è la voce fuori campo della regista, figlia del famoso fumettista Paolo Eleuteri Serpieri, ad accompagnare le immagini.

L’incipit è forte. Due mani mostrano il ritratto di una donna molto bella mentre la voce racconta: “È il 12 luglio 1998. Roma è deserta. Si giocano i mondiali di calcio, Francia contro Brasile. Appena è buio mia madre Teresa esce di casa per non tornare mai più”.

In questa prima frase si presentano le due protagoniste del film, l’amata città di Roma e l’amata madre scomparsa proprio nel fiume Tevere che questa città attraversa.

È una lunga storia intrecciata, annodata, a tratti contorta, che ora si disperde in rivoli narrativi, ora si riavvolge in sè stessa, spingendo lo spettatore a ricercare con la regista un senso al dramma vissuto e a condividere tanta sofferenza che chiede consolazione.

Roma si trasforma infatti in “Amor”, “il pianeta della cura”, un luogo immaginario speculare, pieno d’acqua che scorre, allaga, toglie e dà la vita. Perchè Teresa nell’acqua di quel Tevere si è annegata — disperata Ofelia — dopo avere ingerito farmaci, e là Virginia Eleuteri Serpieri la cerca e fantastica di riportarla in vita.

L’acqua, simbolo della maternità, liquido amniotico, qui è anche rappresentazione dell’inconscio dove cercare la soluzione dell’enigma, acqua fonte di vita e acqua torbida di morte. Assistiamo nel corso del film al tentativo di trasformare quell’acqua che ha ucciso la madre in uno spettacolo di rinascita, acqua che lava le colpe, la vergogna, acqua che si disperde, che scorre via in tombini luridi.

I tanti richiami simbolici delle immagini sembrano quasi ostacoli a raggiungere l’autenticità del dolore di cui si coglie siano permeate, lo spettatore ne viene avvolto ma toccato quasi di traverso, come se un’onda lo respingesse.

Il lutto legato al suicidio della propria madre impone, forse più di qualunque altra perdita, lo sforzo di affrontare l’enigma dell’abbandono da parte di chi ti ha generato, che ti ha dato la vita e ha posto fine alla propria così drammaticamente, anche se non del tutto inaspettatamente, per accedere al percorso di elaborazione del lutto.

È un percorso che può essere impervio e diventare un labirinto da cui è davvero complicato uscire, come mostra l’andamento ingegnoso e involuto del film, con il suo intreccio di strade e il suo serpeggiamento di corsi d’acqua, in cui risulta difficile orientarsi e trovare la via d’uscita.

Lo sforzo creativo della regista per sfuggire alla depressione incombente è palpabile, così come la ricerca estetica, frutto di un lavoro complesso che si trasforma in una fuga dall’orrore per la sparizione e la morte misteriosa della madre. È un tentativo di digerire e rendere bello da guardare anche ciò che è, in realtà, orrore intollerabile, paura insopportabile, colpa impossibile da espiare.

Le immagini dei frammenti recuperati dai monumenti bombardati di Roma diventano i frammenti della figura della madre, così come lo sono gli oggetti a lei appartenuti, le sue lettere, i libri che amava leggere, le foto che la ritraggono, mescolate alle famose stampe di Piranesi con gli edifici della città. Le parole dolenti del racconto si alternano a una musica roboante, cupa, drammatica, che copre il silenzio della solitudine, del vuoto straziante lasciato da una madre amata e indecifrabile, cui si deve una vita che rimane in bilico e che richiede di trovare una strada, diversa da quella oscura che la regista percorre in auto sperando di impedire ciò che è già avvenuto.

Più che “una discesa vertiginosa nei recessi della psiche“, come viene presentato, “Amor” appare un tentativo di recupero e di ricostruzione di quei frammenti, di una vicenda traumatica e dolorosa ancora non completamente elaborata. 

È un film lungo, impegnativo, così come l’elaborazione della perdita che rappresenta. Aiuta a comprendere quanto il tipo di trauma vissuto dalla regista possa segnare la vita di una persona e quanto il cinema possa risultare una sorta di auto-terapia per elaborare il trauma stesso.

Trasmette la fatica e la pesantezza del lavoro del lutto, dell’accumulare e provare a condividere immagini, simboli, suoni, senza arrivare ad una risoluzione.

C’è tutta la monumentalità dell’amore materno e dell’impossibile compito di liberarsene: è quell'”amor” che dà il titolo al film, quella Roma al contrario, dove tutto sarebbe possibile, “dove tutti si prendono cura l’uno dell’altro, incondizionatamente”, come afferma la regista. Dove risiede l’illusione di capire perché una madre rinunci alla vita, lasci le sue figlie, in nome di una perfezione fatale e funesta. Ma rimane, appunto, un’illusione.

 

Paola Golinelli, Bologna

Centro Bolognese di Psicoanalisi

golinelli.paola@gmail.com

 

Elisabetta Marchiori, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

lisbeth.marchiori@gmail.com

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