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Perché combattere?

Commento a "Discussione sugli scopi della guerra”

di Raoul Pupo

(Trieste), Storico. Già docente di Storia contemporanea presso il Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Trieste.

Il densissimo testo di Winnicott offre allo storico davvero una bella quantità di spunti, se non addirittura di provocazioni. Fondamentale, per evitare una lettura ingenua, è la sua collocazione temporale. Il saggio è datato al 1940, ma meglio sarebbe poter specificare il mese, perché nel corso dell’estate di quell’anno la prospettiva con cui classe politica e società inglese guardavano al conflitto con la Germania cambiò in maniera significativa. Fino al mese di maggio, in cui Churchill divenne primo ministro, le voci a favore dell’appeasement, cioè dell’accordo con il Terzo Reich, erano state fortissime tra la leadership conservatrice ed anche il ministro degli esteri del primo gabinetto Churchill, Halifax, ne era convinto sostenitore, dal momento che nelle sue proposte di pace Hitler garantiva la conservazione dell’Impero britannico anche a danno dei propri alleati, cioè l’Italia e soprattutto il Giappone.

La situazione mutò sia per l’ostinazione di Churchill a continuare la guerra anche dopo la capitolazione della Francia, sia per l’impatto psicologico della “battaglia d’Inghilterra”, vale a dire la campagna di bombardamenti mediante la quale i tedeschi cercarono di piegare la pubblica opinione britannica. Invece, l’unico risultato fu quello di motivare gli inglesi a resistere ad oltranza contro un nemico divenuto oggetto di un odio di massa, tale poi da alimentare le spaventose ritorsioni dei bombardamenti alleati che avrebbero spianato la Germania. E dunque, quando Winnicott si pose il problema di giustificare eticamente il conflitto? A freddo o sotto le bombe? Nel secondo caso, si tratterebbe di uno sforzo veramente notevole di prendere le distanze dalle passioni del presente, per trovare giustificazioni alla guerra che andassero oltre quella volontà di sopravvivenza ad ogni costo, che nell’estate del 1940 sembrava quasi disperata.

In ogni caso, balza subito agli occhi che i tedeschi cui sia Churchill che Winnicott fanno riferimento non sono affatto quelli che noi oggi ci figuriamo non appena andiamo con il pensiero al tempo di guerra. Tanto per capirsi, non sono le SS scatenate ad uccidere e razziare per tutto il continente, non sono la Gestapo che ordina la deportazione di una quantità enorme di prigionieri politici da tutti i paesi occupati, non sono i fucilatori di partigiani ed ostaggi, non sono i ladri seriali di opere d’arte, non sono, soprattutto, i responsabili della Shoah. E ciò, semplicemente, perché tutto questo nel 1940 non è ancora avvenuto e nessuno riesce nemmeno ad immaginarlo. I nazisti non sono ancora “il male assoluto”, sono – a parere di Winnicott – poco diversi dai britannici, che a loro volta faticano a giustificare la loro permanenza in guerra con motivazioni più elevate della mera autodifesa, non solo personale ma in quanto grande potenza.

Solo tenendo presente tale scansione temporale è possibile non rimanere stupefatti di fronte allo scrupolo dell’autore, nonché ad affermazioni come “Vorrei che si accettasse come assioma il fatto che, se siamo migliori dei nostri nemici, siamo solo leggermente migliori. Qualche anno dopo la guerra, anche questa cauta affermazione sembrerà presuntuosa”. Riecheggia qui chiarissima la lezione del primo dopoguerra, quando i vincitori si affrettarono ad addossare alla sola Germania la responsabilità della Grande guerra, per distruggerne il ruolo di potenza mondiale. Non era vero e Winnicott lo sapeva benissimo. Nel 1945 invece nessuno si sarebbe posto problemi del genere ed alla profezia dell’autore si sarebbe sostituito il processo di Norimberga.

Fatta questa premessa, che peraltro credo sia il contributo più importante che io possa offrire in questa sede, fermiamoci assieme soltanto su alcuni punti che suscitano la voglia di riflettere.

La prima osservazione riguarda naturalmente la natura ideologica della guerra. Il secondo conflitto mondiale, infatti, a differenza del primo, si presentò come un urto non solo fra stati che competono per il primato, ma fra visioni alternative dell’economia e della politica: ad ovest, fascismo/nazismo contro liberaldemocrazia, ad est nazismo contro comunismo. È questo scontro all’ultimo sangue fra religioni laiche che generò livelli di violenza da secoli sconosciuti in Europa.

Ancora una volta, l’impegno profuso da Winnicott nel verificare con grande distacco se la causa per cui si battono gli inglesi è effettivamente un valore o solo una falsa coscienza, può sembrare eccessivo al lettore di oggi, che difficilmente dubita della superiorità dei sistemi liberal-democratici su quelli autoritari. All’epoca però non era affatto così. Nella seconda metà degli anni ’30 in Europa la causa delle liberal-democrazia sembrava decisamente perdente. Sul continente, sistemi democratico-parlamentari reggevano bene in Belgio, Olanda, Cecoslovacchia e Scandinavia, male in Francia, mentre in tutti gli altri paesi si erano instaurati regimi autoritari o, addirittura, totalitari di destra ed in Russia di sinistra. Diffusissima era la percezione che gli stati liberali fossero solo un residuo del passato, dal momento che si erano dimostrati incapaci di offrire risposte politiche adeguate ai bisogni della nuova società di massa. A tal fine i regimi autoritari e, soprattutto, quelli totalitari, sembravano decisamente meglio attrezzati ed in grado di interpretare la modernità. A loro sembrava appartenere il futuro.

Non dimentichiamo che anche in Inghilterra, dove pure un partito fascista era rimasto ai margini dell’agone politico, le simpatie nei confronti di Mussolini e del fascismo erano diffuse e ciò che gli si rimproverava – Churchill in testa – era solo la sfida geopolitica portata all’impero britannico. Quanto al nazismo, l’ex re Edoardo VIII – che nel 1936 abdicò per ragioni sentimentali – non faceva mistero della sua ammirazione per Hitler. Si potrebbe anche continuare parlando della diffusione dell’antisemitismo nella sua versione non omicida (ma negli anni ’30 neanche quella nazista lo era) in buona parte dell’Occidente, Stati Uniti compresi, come pure del grande favore mostrato verso l’eugenetica radicale, cioè fino alla sterilizzazione obbligatoria, nella socialdemocratica Svezia, quale complemento indispensabile dei primi esperimenti di welfare state.

Dal punto di vista storico quindi, le considerazioni svolte in tempo reale da Winnicott risultano utilissime proprio per l’effetto di straniamento che producono nel lettore attuale: nel suo farsi, la storia è imprevedibile e diversa da come noi ce la rappresentiamo a posteriori, quando sappiamo come è andata a finire e magari non ci rendiamo conto di quanto quell’esito condizioni anche la nostra visione del “prima”.

Anche il discorso sui valori ci porterebbe lontano, ma quel che mi colpisce – come spunto di attualizzazione – è come tale dimensione di scontro valoriale, ben presente sia durante il secondo conflitto mondiale che la guerra fredda, sia talvolta tenuta in sordina in alcuni commenti sull’attuale conflitto in Ucraina. Ad un approccio realistico, infatti, tale dimensione appare assolutamente evidente, in quanto esplicitamente proclamata da parte russa in termini piuttosto radicali. Invece, è abbastanza diffusa in alcuni ambienti meritoriamente – a mio avviso, si capisce – anti guerrafondai, un’interpretazione della crisi tutta giocata soltanto sullo scontro di interessi strategici ed economici in fondo equivalentisi. Purtroppo, ogni lettura semplificatoria di realtà complessa rischia di produrre giudizi inaffidabili e quindi capaci di disorientare, piuttosto che orientare scelte e comportamenti.

Su di alcuni altri temi presenti nel saggio posso qui soffermarmi solo in maniera cursoria. Assai interessante, ad esempio, è l’affermazione secondo la quale “La pace è un fenomeno molto difficile da mantenere in modo naturale per più di un certo numero di anni”. La ciclicità dei conflitti può essere spiegata in molti modi, facendo riferimento ai fondamenti della natura umana ed all’evoluzione della società. In sede storica, io mi limito ad alcune considerazioni sulle eccezioni alla guerra, vale a dire ai periodi prolungati di pace che l’Europa ha vissuto nella contemporaneità, vale a dire dal 1870 al 1914 e dal 1945 fino a ieri. In entrambi i casi, assieme a molti altri, uno dei fattori fondamentali sembra essere stata la deterrenza, vale a dire la capacità delle principali potenze di infliggere tali danni ad un ipotetico aggressore da scoraggiarlo a priori a scendere in guerra.

Tale deterrenza è stata forte a cavaliere fra ‘800 e ‘900, ma non perfetta e quindi è fallita. È importante notare che tale esito catastrofico non era stato previsto da buona parte dei commentatori, in quanto ritenuto fortemente irrazionale: il livello di integrazione infatti già raggiunto dalle principali economie mondiali era tale da sconsigliare fermamente avventure belliche. I parallelismi con il presente sono del tutto palesi. Ciò nonostante la Grande guerra scoppiò per ragioni principalmente politiche e la deterrenza venne sfidata nella presunzione – dimostratasi fallace – che un conflitto militare potesse essere vinto in tempi brevi.

La seconda guerra mondiale fu in realtà solo una prosecuzione della prima dopo un breve intervallo, ma ci offre il destro per toccare un altro dei punti presenti nel saggio di Winnicott e cioè quello della “pace giusta”. Scrive l’autore: “se viene raggiunta una pace artificiosa prima che la supremazia delle armi sia stabilita al di là di ogni dubbio, allora il vecchio problema della colpa insito nella guerra si ripresenterà e la pace che tutti speriamo di conoscere sarà di nuovo guastata”. Non è il ragionamento di un guerrafondaio incallito, ma la riflessione di chi ha alle spalle l’esperienza del primo dopoguerra. La Germania si arrese a seguito del crollo del fronte interno prima di venir sconfitta sul campo in maniera inequivocabile. Ciò alimentò in buona parte della pubblica opinione il complesso del “tradimento” nei confronti della patria da parte dei socialisti, accusati di aver indotto le forze armate a gettare le armi “troppo presto”; tale mito del tradimento avrebbe giocato un ruolo importante nell’avvento di Hitler.

A questo si sommò la “Schuldfrage”, cioè la questione della colpa nello scoppio della guerra che i vincitori attribuirono totalmente alla Germania, punendola di conseguenza in misura eccessiva senza peraltro distruggerla.  È opinione consolidata fra gli storici che la “cattiva pace” del 1919 costituì la premessa della seconda guerra mondiale, in cui i tedeschi cercarono una rivincita rispetto all’ingiustizia patita. Poterono farlo perché sia per ragioni economiche – gli effetti della crisi del 1929 – che politiche, vale a dire la consapevolezza diffusa che la Germania tutti i torti non aveva, che psicologiche, cioè il desiderio diffuso di pace dopo gli orrori di quella che era stata presentata come “l’ultima delle guerre”, Francia ed Inghilterra adottarono a lungo una politica di appeasement nei confronti del Terzo Reich, culminata nel 1938 negli accordi di Monaco in cui, pur di salvare quella che il primo ministro britannico Chamberlain chiamò “la pace del nostro tempo”, le potenze occidentali sacrificarono la Cecoslovacchia. Chiunque sappia un po’ di storia contemporanea non dubita che il “complesso di Monaco”, vale a dire il grave errore compiuto nel non fermare Hitler quando forse era ancora possibile, abbia giocato un ruolo chiave nella decisione assunta dalle cancellerie occidentali di fermare Putin in Ucraina.

La lezione chiaramente enunciata da Winnicott venne appresa ed applicata nel 1945. La Germania venne dapprima distrutta dai bombardamenti aerei, poi integralmente occupata, smembrata ed infine ricostruita sotto lo stretto controllo dei vincitori. Infine, la scoperta degli orrori nazisti cancellò ogni possibile riproposizione della Schuldfrage.

Durante la guerra fredda, la pace in Europa venne garantita essenzialmente dalla deterrenza nucleare. Infatti, dopo aver compreso nel 1947 la natura strutturalmente aggressiva del sistema sovietico e dopo aver osservato nei primi anni ’50 l’evoluzione della “minaccia sovietica” da politica a militare, la Nato decise che l’unico modo per fronteggiarla sarebbe stata la deterrenza nucleare; e ciò in quanto il tentativo di controbilanciare la nettissima superiorità convenzionale sovietica in Europa avrebbe richiesto spese militari così ingenti da risultare incompatibili con lo sviluppo economico dei paesi europei. Il sistema ha funzionato e l’Urss – guidata da una leadership fortemente realista – non ha mai rischiato l’olocausto nucleare, fino ad accettare la sconfitta finale senza far parlare le armi.

Ciò che rende invece la situazione attuale decisamente più preoccupante è proprio il venir meno dei pilastri strategici della guerra fredda: la Russia si ripresenta come potenza aggressiva, ma sembra questa volta disponibile a sfidare la deterrenza nucleare, mentre i paesi europei dopo il 1990 hanno smantellato e/o riconvertito il loro apparato militare, annullando quasi la deterrenza convenzionale. Tale situazione, unita alla politica di appeasement e dipendenza energetica mantenuta fino al 2022 di fronte all’aperto revisionismo russo, per molti aspetti simile e non meno motivato di quello tedesco negli anni ’30 del ‘900, ha costituito una sorta di “invito” strategico rivolto alla Russia ad osare la scelta militare nelle condizioni di minor rischio possibile.

 

Raoul Pupo, Trieste

Storico. Già Università di Trieste.

RAOUL.PUPO@dispes.units.it

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