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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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Quando la guerra ci travolge

di Paolo Fonda

(Trieste) Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi, Fondazione Polojaz

Ritengo che nel considerare la guerra si debba tenere conto della dimensione psicologica gruppale e del fatto che i traumi della guerra si elaborano prevalentemente in una dimensione transgenerazionale. Accennerò dunque ai seguenti temi:

  1. Il rapporto tra psicologia individuale e gruppale.
  2. La guerra come fenomeno gruppale, che coinvolge pesantemente l’attività mentale degli individui.
  3. Il dopo: i traumi della guerra e la loro dimensione transgenerazionale.

 

  1. Il rapporto tra psicologia individuale e gruppale

Freud (1921, p.311) nella Psicologia delle masse constatava che “la psicologia individuale, si è venuta staccando dalla vecchia psicologia collettiva solo in un secondo tempo, gradualmente e in un certo senso in modo tuttora parziale.”  E inoltre: “Ogni singolo è dunque partecipe di molte anime collettive (…) e al di sopra di queste, può sollevarsi fino ad un minimo di autonomia ed originalità.”. Analogamente si esprimeva anche Bion (1961).

La gruppo-analisi è andata descrivendo come gli esseri umani siano inestricabilmente legati l’uno all’altro nei gruppi durante tutta la vita. Kaes (2007) usa la metafora del micelio per rappresentare come gli individui siano – analogamente ai funghi – l’espressione parziale di una parte sotterranea che li collega e li rende parte di un tutto. I gruppi sarebbero dotati, a seconda degli autori, di un loro psichismo o anche di un proprio inconscio.

Psicologicamente saremmo dunque degli anfibi non potendo prescindere dall’essere immersi anche nelle acque dei gruppi e da questi esserne influenzati, così come anche dall’influenzarli, tramite una particolare permeabilità.

I vitali legami con la dimensione gruppale ci forniscono stabilità e sicurezza. Dobbiamo appartenere a un gruppo e identificarcisi, perché ci assicuri la sopravvivenza, un territorio in cui vivere, l’accesso ai codici linguistici e alle acquisizioni culturali accumulate durante la storia umana, e via di questo passo.

Le entità gruppali-statali si costruiscono un’identità che, oltre che elementi psicologici, include anche territori, genti e beni, che ritengono appartenere loro – in parte in modo del tutto soggettivo. Spesso ciò è collegato ai miti fondanti. Per giustificare le pretese di possesso vengono usati i criteri più vari, spesso bizzarri. Così, sullo sfondo identitario-culturale di molte nazioni si è formata un’immagine di sé come impero, con una determinazione a sostenere o incrementare questa ambizione a qualsiasi costo, anche con la guerra, combattendo tutto ciò che vi si oppone.

Quando i popoli, che – non per propria scelta – si trovano a far parte di un impero non loro, si ribellano e si distaccano, i dominanti – gli imperiali – sentono ciò come una mutilazione, una perdita narcisistica irreparabile, che suscita angosce catastrofiche. Gli smembramenti minacciano di sgretolare il gruppo-nazione-impero, la sua identità e i suoi membri rischiano di perdere la nicchia in cui vivono.

La reazione che osserviamo, quando incombono angosce catastrofiche, è l’ipertrofia delle proiezioni e della persecutorietà, e infine la guerra a chi è individuato come nemico. È un attestarsi in una rigida posizione schizo-paranoide SP, che compatta con incredibile forza il gruppo e libera distruttività. Le angosce persecutorie funzionano come estreme difese di fronte alle incombenti angosce catastrofiche.

È però una compattezza a rischio, perché in caso di sconfitta, per continuare ad esistere, è necessario elaborare la perdita per potersi riorganizzare in un’identità più limitata e più adeguata. Basti pensare all’Austria e alla Germania alla fine della prima guerra mondiale e allo stato di confusione e disorientamento che vi regnava. Nel 1945 poi migliaia di tedeschi, come anche giapponesi, si suicidarono perché non poterono sopportare il vissuto catastrofico provato in una Germania, o in un Giappone, sconfitti e polverizzati senza riferimenti e senza prospettive.

Conosciamo poi altre tragiche vicende dovute alla difficoltà di elaborare il lutto delle perdite di territori e di forza.

Così la Francia, pur uscita stremata dalla seconda guerra mondiale, prima di lasciare l’Indocina e l’Algeria, non ha potuto che ingaggiare cruente e feroci, quanto inutili guerre, che costarono centinaia di migliaia di morti. Il Regno Unito, pur essendosi il suo impero oramai dissolto, non ha smesso di combattere neanche con gli Irlandesi.

Contemporaneamente anche altri grandi e piccoli imperi europei, quali l’Olanda, il Belgio, la Spagna e il Portogallo, hanno invano tentato di contrastare la decolonizzazione con sanguinose guerre.

Solo 30 anni fa, la Serbia non ha potuto rinunciare a quelli che fantasticava come propri “possedimenti” nella ex-Jugoslavia, se non a prezzo di una guerra che ha prodotto 140.000 morti.

 Non possiamo che meravigliarci di questa collezione di massacri e di sconfitte, aventi sullo sfondo configurazioni psicologiche analoghe. I gruppi interessati – e così i loro membri – hanno gli spazi mentali ancora oggi in parte ingombrati e condizionati da questi vissuti traumatici.

Ora è il turno dell’impero russo, che sente di rischiare lo sgretolamento, se non dovesse continuare a dominare-possedere l’Ucraina, così come la Georgia, la Bielorussia, la Cecenia ed altre nazioni ancora.

Quanto ho accennato, lo troviamo inevitabilmente ed in modo tutt’altro che marginale, anche nell’attività mentale dei singoli individui, accompagnato spesso da intensa sofferenza. Tutto ciò compare però molto raramente nei resoconti del materiale clinico degli analisti, il che non può che sollevarci degli interrogativi.

  1. La guerra come fenomeno gruppale, che coinvolge pesantemente l’attività mentale degli individui.

La guerra ci accompagna dall’età della pietra e non si intravede ancora come ci si potrà liberare da questa piaga. Da sempre si svolge con un incremento del funzionamento mentale del gruppo in una posizione SP. E questo già da quando lo scontro si prepara o lo si teme, fino a raggiungere il suo apice durante la guerra, per poi persistere per molti decenni dopo il conflitto incrementato dai traumi non elaborati.

La posizione SP sembra pertanto uno schema mentale primordiale, indispensabile a chi si deve difendere, così come a chi aggredisce.

Nel gruppo in posizione SP c’è un imponente aumento di propaggini identificatorio-proiettive e introiettive che penetrano i singoli individui, i quali sono forzati ad assimilarsi al pensare comune. È veramente difficile resistervi e sarà poi necessario un lungo e doloroso lavoro per liberarsene. La propaganda in questa posizione trova pertanto delle vie già predisposte alla sua diffusione. 

Di grande aiuto ci può essere Thomas Ogden (1989), quando considera che le posizioni kleiniane non si alternano, ma sono sempre contemporaneamente presenti, seppure in proporzioni diverse. Una parziale scissione permetterebbe la compresenza e l’interazione dialettica dei vissuti relativi alle posizioni, il che dà senso ad ognuna di esse.

In guerra viene inevitabilmente indebolita la posizione depressiva D. Possiamo soltanto sperare che ciò non avvenga eccessivamente, in quanto solo questa posizione permette un rapporto empatico con i propri simili, è può mitigare la distruttività, che si attiva e si libera invece nella posizione SP.

A questo proposito, riprenderei la toccante dichiarazione di un soldato ucraino, riportata da Igor Romanov (2022): “Capisco che in Russia ci sono molte persone, forse milioni, che vivono questa guerra come un loro dramma personale… Capisco che possano essere tormentati moralmente, che possono perdere il loro lavoro… Ma, ora, io semplicemente non sono pronto… Sapete, non c’è nessuna necessità di assumersi il ruolo di Padreterno. Non c’è nessun bisogno di apparire come uno che ha compassione, simpatia e comprensione per tutti. Non basta. Ogni particella, ogni fotone, ogni atomo della compassione che collocate a qualcuno in Russia, a qualcuno che è tormentato moralmente… lo fate alle spese di coloro che sono in lutto per la perdita dei loro amati, per le loro case distrutte, e di coloro che sono ora nascosti nei sotterranei di Mariupol.”

Questo soldato rivendica per ora il suo diritto-dovere di stare al fronte nella posizione SP, per poter sparare, per non avere le mani e il fucile legati da sentimenti empatici nei confronti di chi in quel momento gli viene addosso con un carro armato.

Ma dice anche “ora… non sono pronto”, il che significa che c’è anche un certo funzionamento in posizione D, che gli fa vedere nel popolo nemico degli aspetti di umanità – che del resto lui stesso elenca – ma questo per ora può solo stare in attesa. Lascia dunque presumere che un giorno potrà essere “pronto”! Credo che siano da temere coloro, di ambedue le parti, che invece di “ora” dicono un “mai”, che tentano di escludere il freno alla distruttività costituito da una posizione D pur minoritaria.

Le stesse considerazioni si possono fare per lo psicoanalista ucraino (citato da Romanov) che, di fronte a un ventilato incontro con i colleghi russi ha detto: “…Dateci il tempo per seppellire i nostri morti e viverne il lutto.” Anche lui dice di non essere pronto ora, ma lascia implicito un possibile futuro diverso.

Del resto, abbiamo l’esperienza dei nostri pazienti che a volte ci fanno intuire, di avere delle potenzialità di amore e di riparatività che al momento non possono usare, ma chiedono a noi di custodirle, fino a quando queste preziose risorse non saranno più minacciate dalle loro rabbie distruttive. Solo allora saranno maturate le circostanze per potersele riprendere e farne un buon uso.

Tutto ciò offre uno spazio per pensare meglio anche la guerra: come facciamo con i nostri pazienti, ora possiamo – o dobbiamo – non chiedere a una nazione in guerra, quello che il timing ci fa capire che è prematuro. Ma dobbiamo conservare con cura e coltivare i semi dell’empatia che al momento opportuno, magari dopo anni, o dopo generazioni, potranno germogliare. Guai a perderli!

 

  1. Il dopo: i traumi della guerra e la loro dimensione transgenerazionale.

Riprendendo la metafora acquatica, potremmo pensare che la guerra faccia riversare nelle acque della psiche gruppale i traumi e altri contenuti – per il momento non elaborabili – che intasano sia lo spazio mentale dei singoli, che quello dei gruppi. Ciò tende a sostenere in loro una posizione SP intensa anche dopo la guerra.

Vista la permeabilità tra la sfera individuale e quella gruppale, i traumi individuali, che colpiscono le aree personali, si ripercuotono anche sul gruppo. Similmente i traumi collettivi evocano intenso dolore e partecipazione negli individui, anche nei membri del gruppo che non ne sono stati colpiti direttamente.

I traumi subiti dagli appartenenti al gruppo dei vincitori sono i primi ad essere riconosciuti e tendono ad essere perpetuati nella memoria dai monumenti e dalle celebrazioni. Possono così trovare un contenimento a livello del gruppo (ma spesso anche una manipolazione, volta a prolungare la posizione SP per usarne la compattezza che questa conferisce al gruppo).

I traumi subiti dagli sconfitti invece, per usare le parole di Hobsbawm (1994, p.16): «non solo sono ridotti al silenzio, ma sono virtualmente espulsi dalla storia scritta e dalla vita intellettuale, se non per essere catalogati nel ruolo di nemico».

Ci sono poi i traumi prodottisi in coloro che in guerra hanno ucciso, poiché la loro immagine di sé ne riporta pesanti danni. Ancora di più, se si tratta di crimini di guerra, che come sappiamo, non avvengono solo da una parte. In questo caso il crimine traumatizza pesantemente, oltre alle vittime, anche i perpetratori e tutto il gruppo cui appartengono. Questo non è facile da elaborare, anche perché non può usufruire del contenimento del gruppo. Nessuno, naturalmente, erige loro monumenti né organizza celebrazioni.

Oltre alle vittime, esce traumatizzata dalla guerra anche quella larga parte della popolazione formata dai delatori, dai torturatori, dagli aguzzini nei campi di prigionia, fino ai membri dei plotoni di esecuzione. Si tratta di traumi che rimangono incapsulati-scissi-rimossi nelle menti dei perpetratori, ma anche nella psiche-cultura del gruppo del quale fanno parte e che in qualche modo lo sa.

Prendere coscienza delle proprie responsabilità e delle proprie colpe da parte dei perpetratori e dai gruppi è uno dei compiti più difficili. Per lungo tempo su ciò domina il diniego.

Anche questi liquami si propagano nelle acque dello psichismo gruppale, dove la loro azione si prolunga nel tempo in una dimensione transgenerazionale.

La lenta e difficile elaborazione–depurazione di quest’acqua gruppale, che contiene naturalmente anche tutti i grandi risultati della civiltà, della scienza e dell’arte, deve però procedere perché sia resa meno infetta, più potabile per le generazioni future.

Dopo la guerra c’è pertanto una grande necessità che si crei una cultura contenente nel proprio gruppo, e parallelamente anche nel gruppo con il quale si è stati in conflitto, per poter iniziare ad elaborare tutti i tipi di traumi che intasano le menti e le relazioni. Però ci vogliono decenni, per cui alcune generazioni possono avere un ruolo di soli trasportatori dei traumi e non di risolutori, ruolo quest’ultimo rimandato alle generazioni successive.

Potremmo individuare tre fasi nell’elaborazione, di fatto transgenerazionale, dei traumi legati alle guerre.

  1. Poter parlare, vivere il dolore, di ciò che si è subito ed ottenere un contenimento da parte del proprio gruppo.
  2. Poter ricordare, pensare, parlare delle sofferenze inflitte, di ciò che si è commesso, ed ottenere il contenimento del proprio gruppo. Si deve andare oltre la “elaborazione paranoide del lutto”.
  3. Dopo essersi chiariti sulle proprie responsabilità, poterne parlare con gli “altri”, con le vittime e i perpetratori, a loro volta pentiti, dell’altro gruppo.

Solo così il gruppo potrà evolvere verso “un assetto di pace” (a prevalenza in posizione D), per poter sostenere e contenere anche i pesanti sentimenti di colpa e non più funzionare solo come “muscolo evacuatore” di proiezioni negli altri.

Ma ciò avviene solo quando l’io – sia individuale o di gruppo – ha raggiunto la forza necessaria per potersi sobbarcare dei pesi che non lo facciano crollare.

Devono crearsi anche adeguate condizioni esterne, come equi trattati di pace, una delimitazione di confini sufficientemente giusti, il riconoscimento e la condanna giudiziaria dei crimini più efferati. È necessario che vengano meno le condizioni geopolitiche ed economiche che sostengono tensioni e manipolazioni intese ad incrementare la posizione SP. È necessario anche un progresso culturale, al quale la psicoanalisi può e deve dare il suo contributo.

Spesso le generazioni successive crescono e si sviluppano in condizioni migliori, usufruiscono di contenitori gruppali meno intossicati e più contenenti, e possono sentirsi sufficientemente distanti da quanto è accaduto e abbastanza forti, da poter aprire anche gli archivi sigillati – gli “armadi della vergogna” – per iniziarne l’elaborazione.

Nel CVP si è recentemente iniziato a discutere sul rimosso, o meglio “scisso” che con il tempo è diventato rimosso, riguardante la storia italiana del secolo scorso. Anche le pagine “sporche” della storia possono ora diventare parte del costrutto culturale identitario del gruppo.

E il sorprendente paradosso è che lo svelarle non solo non danneggia l’immagine del gruppo, ma la rafforza perché rende il gruppo più maturo e funzionante. La riparatività può sostituire l’odio e diventa un poderoso sostegno all’autostima, al narcisismo “sano”. La vera forza si ha quando la posizione D riesce a prevalere, poiché nella posizione SP la forza è apparente, basata sulla distruttività e richiede un costante dispendio di energie per tenere i contenuti scissi e la realtà disconosciuta.

Personalmente sperimento, come questa lenta, quasi secolare depurazione-elaborazione nella traumatizzata terra di confine dove vivo, stia creando condizioni di vita estremamente più fertili, interessanti, belle, man mano che le putride acque del passato diventano più trasparenti e limpide. Sembra il risveglio da un incubo.

Nel 2020 i presidenti delle repubbliche italiana e slovena, tenendosi per mano, hanno reso omaggio agli italiani uccisi dagli sloveni nelle fojbe e agli sloveni fucilati dai fascisti italiani. Ma ci sono voluti 75 anni!

Come analisti ci possiamo chiedere quale ruolo abbiamo o possiamo avere in questo lungo processo di guarigione del gruppo e degli individui. Quanto di tutto ciò entra nelle nostre stanze di analisi? I nostri pazienti e noi stessi ne siamo sicuramente anche portatori, ma come ce ne possiamo rendere più pienamente conto? E cosa possiamo farne?

Bibliografia

Freud S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Opere IX, Torino, Boringhieri, 1977.

Bion, W.R. (1961). Experiences in Groups And Other Papers. London. Tavistock Edition.

Hobsbawm, E.J. (1994). Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991. New York, Random House, Inc.

Ogden, T. H. (1989). The primitive edge of experience. Lanham, Jason Aronson.

Kaes, R. (2007). Un singolare plurale. Borla, Roma, 2007.

Romanov I. (2022). “The war inside: Unconscious Experience of War in a Patient and an Analyst”. Paper presented at the Int. Meeting: Psychoanalytic Thinking and Experience of War, Padova, 2022.

Paolo Fonda, Trieste

Centro Veneto di Psicoanalisi

fondapav@gmail.com

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