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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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Riflessioni Conclusive al convegno

di Vlasta Polojaz

(Trieste), Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi, Presidente della Fondazione Polojaz.

Mentre mi accingevo a preparare le mie riflessioni conclusive mi sono sentita investita-spazzata via da queste terribili minacce del governo russo di usare armi nucleari contro le popolazioni. Ero raggelata, incapace di pensare, impotente, inutile e soprattutto mi sentivo esposta ad una furia devastatrice. Mi sono chiesta a che cosa poteva servire ciò che noi progettavamo o pensavamo di fronte ad una tale distruzione? L’esistenza di tutto il pianeta sarebbe stata cancellata e non solo l’umanità, giacché veniva azzerato proprio il progetto riguardante la vita. L’uso di queste armi richiede infatti degli uomini sempre più robotizzati, obbedienti, privi di sentimenti di colpa o di vergogna (ne scriveva S. Amati oltre 40 anni fa, nel 1980). Perché quindi scrivere? mi sono chiesta. Perché organizzare un convegno? Che senso ha?

Ho pensato di mollare tutto, volevo solo fuggire. Poi ho avuto la fortuna di parlarne con una collega, ho ripreso a pensare, ho ricuperato quella “modesta onnipotenza” della quale parla S. Amati (1996) riferendosi ad un aspetto terapeutico importante che riguarda l’atteggiamento dell’analista. Questa onnipotenza è fragile, vulnerabile, per attivarsi ha bisogno di attingere la forza da un sostegno che può essere anche l’appartenenza ad un gruppo. Insomma, il terapeuta riconosce che può aiutare per quanto riesce, quindi nel mio caso mi sono detta “concludo per quanto mi è possibile”.

Incomincio dal quesito che forse qualcuno dei presenti si è posto e cioè quale è il rapporto tra la Fondazione Libero e Zora Polojaz e la psicoanalisi? Devo quindi presentare sinteticamente l’attività della Fondazione che è un’istituzione non profit (in Italia fa parte degli Enti Terzo Settore). Tra i molti scopi che l’ente promuove vi è la convivenza tra le diverse etnie presenti nel Nord-Est italiano e in parte nella penisola balcanica. Valuta così, attraverso progetti di ricerca, lo stato di benessere o malessere psichico degli appartenenti ai singoli gruppi e cerca di favorire i buoni rapporti tra i gruppi dell’area balcanica e quella italiana.

Come sappiamo, la psicoanalisi è uno strumento principe per studiare e aiutare il genere umano: allevia il disagio mentale e stimola nel tessuto sociale la consapevolezza di quanto sta accadendo. Una società consapevole può farsi garante delle misure necessarie per affrontare il problema e promuovere una convivenza fruttuosa.

Tre psicoanalisti fanno parte del Comitato Scientifico della Fondazione: Andrea Braun, Paolo Fonda ed io. Con Andrea siamo anche socie costituenti.

Nulla di eccezionale quindi se sin dai suoi inizi la fondazione abbia promosso di concerto con i colleghi croati una serie di seminari che sono stati tenuti per anni a Zagabria dagli psicoanalisti della Società Italiana. Questi incontri teorico-clinici, frequentati anche dagli psicoterapeuti ad indirizzo psicoanalitico, hanno promosso nel tessuto culturale e scientifico croato, già aperto all’esperienza della psicoanalisi di gruppo, un ulteriore interesse verso la psicoanalisi.

Un paio di anni più tardi, seguendo lo stesso modello ma più limitato nel tempo, sono partiti dei seminari analoghi in Ucraina. Di quest’esperienza Aira Laine, direttrice per il training del PIEE scrisse nel 2008 alla Fondazione: “Su incarico dell’Esecutivo e di tutto l’Istituto Psicoanalitico per l’Est Europa esprimo la nostra gratitudine e il nostro grande apprezzamento per il sostegno che la vostra Fondazione sta dando al programma di insegnamento in psicoanalisi che si sta avviando a Kiev. È nostra convinzione che sia di importanza fondamentale creare un ambiente informato e attento all’approccio terapeutico psicoanalitico, sul quale possa crescere una motivazione appropriata per il training psicoanalitico. Speriamo caldamente che il vostro sostegno possa continuare, permettendo così la realizzazione dei progetti che i nostri colleghi locali stanno tentando di realizzare.”

Sottolineo il generoso apporto degli psicoanalisti italiani, i quali svolgevano i seminari ed i gruppi clinici gratuitamente sia in Croazia che in Ucraina (la Fondazione copriva le spese di viaggio e di soggiorno). Il ricordo è d’altronde fondamentale affinché una nazione possa ricostruire la storia della “propria” psicoanalisi. Ciò sarebbe tanto più auspicabile in Ucraina, dove l’oblio ha completamente cancellato il contributo dato dagli psicoanalisti italiani: la loro presenza, anche se temporanea, è scomparsa, coperta dall’oblio.

Il convegno odierno è stato il quarto che la Fondazione ha realizzato, sempre di concerto con altri enti, soprattutto con la Società Croata di Psicoanalisi, e sempre con il patrocinio della Società Psicoanalitica Italiana. Questa volta abbiamo avuto il piacere e l’onore di organizzarlo assieme al Centro Veneto di Psicoanalisi e nella sede dove noi tre psicoanalisti siamo di casa.

Desidero ora presentarvi succintamente i tre convegni precedenti, ai quali avevano aderito, oltre agli psicoanalisti e psicoterapeuti italiani, colleghi provenienti da undici paesi europei, soprattutto dai paesi balcanici. 

Il primo convegno è stato fatto assieme al museo civico Revoltella di Trieste in occasione del centenario dello scoppio della prima guerra mondiale. Quella guerra aveva provocato a Trieste come nei Balcani e altrove un vero terremoto determinando la caduta di alcuni imperi e la nascita di nuove nazioni. Il titolo del convegno, Integrazione e scissione-Integration and Splitting, serviva da spunto per riflettere sulle spinte integrative e disintegrative, su frammentazioni e scissioni provocate da eventi esterni che si manifestano nella vita dei popoli e delle nazioni. D’altronde proprio la distruttività della guerra aveva stimolato la nascita di alcuni concetti freudiani di grande rilevanza, quali le pulsioni di vita e di morte e gli studi sui gruppi.

Nel corso del meeting ci soffermammo soprattutto su come questi due processi psichici si declinano nella vita al di là degli eventi bellici. In effetti nel 2014 la guerra sembrava lontana dalla nostra quotidianità, sebbene sordamente presente attraverso elementi traumatici in una parte della popolazione bosniaca. Ma questi punti critici di grande fragilità con la loro presenza in quelle terre balcaniche comunque garantivano che altrove la “normalità” continuasse.

Fonda delineò allora un’interessante lettura psicoanalitica dei cambiamenti patologici innestati dalla guerra nella psiche umana, aspetto che egli ha ulteriormente sviluppato oggi. Egli ricordò anche l’iniziale entusiasmo di Freud per la dichiarazione di guerra, sottolineato dalla decisione dei due suoi figli di partire volontari di guerra.

Come è noto, Freud ritrovò il suo pensiero critico già a distanza di qualche mese. Nella lettera a Jones del 22 ottobre 1914 scrisse: <<Non dimentichi che ora le menzogne sono tante!>> ( Jones, 1953, pg 220) intendendo così che <<la verità è la prima vittima della guerra, cosa che oggi il mondo sa fin troppo bene>>, specifica  Jones riferendosi alla propaganda che tutte le parti in guerra utilizzano.

Nel 2016 abbiamo organizzato a Sarajevo il convegno su Psicoanalisi e psicoterapia. Vi hanno partecipato candidati e analisti sloveni, croati e di alcuni altri paesi e molti psicoterapeuti bosniaci. Questi ultimi hanno portato nelle discussioni molti contributi clinici evidenziando il quasi impossibile compito di occuparsi di pazienti altamente traumatizzati. Da questo “compito quasi impossibile” è sorto il progetto di realizzare a Sarajevo quanto era stato fatto precedentemente a Zagabria. Abbiamo quindi organizzato dei seminari teorico-clinici, tenuti dai colleghi croati. Con i giovani terapeuti bosniaci essi potevano usare quanto avevano vissuto e appreso nella loro esperienza acquisita professionalmente e/o personalmente nella guerra in Croazia e nell’elaborazione degli anni successivi. Non mi posso ora dilungare sulla complessa metodologia di questo progetto. Abbiamo avuto occasione oggi di apprezzare diversi pregevoli contributi per i quali possiamo essere molto grati ai nostri relatori.

Nel convegno svoltosi a Trieste nel 2018 per il centenario della fine della Grande Guerra avevamo proposto come tema due aspetti psicoanalitici cardinali e cioè Encounter and Listening/Incontro e Ascolto. Sono anche due momenti che caratterizzano la vita umana, sottolineano l’accettazione di sé stesso e dell’altro, ognuno nella propria alterità, differenza e identità. Ciò comporta il riconoscimento dell’originalità di ogni individuo come pure di ogni gruppo al quale il singolo appartiene e il superamento della rigidità di confini e barriere che naturalmente esistono ma che non devono imprigionare. Proponendo questi temi ci trovavamo quindi nella normalità della vita quotidiana, la quale presuppone anche l’eventuale presenza di una patologia.

Ciò che intendo dire è che la possibilità dello scoppio di una guerra europea non veniva presa in considerazione, almeno non da me. Questa è stata una scoperta recente, molto dolorosa, accompagnata tuttora da incredulità. Semmai a Trieste si guardava con timore alla Bosnia-Erzegovina, che, si sa, è una polveriera. Arrivavano poche notizie dall’Ucraina, ma ormai c’eravamo assuefatti al fatto che la Crimea era ritornata ai vecchi padroni, per cui ci sembrava che potevano esserci – come nei terremoti – delle scosse di assestamento. Rimasi quindi stupefatta e disorientata quando mi trovai nell’estate 2018 a Kijev davanti al monumento-memoriale con l’interminabile elenco dei caduti ucraini nella guerra (e scoprii che proprio di questa si trattava) contro la Russia. Era comunque una guerra che sembrava territorialmente molto localizzata. Ne parlai con una collega ucraina: probabilmente ambedue facemmo attenzione a muoverci con grande circospezione, del genere “non disturbare il can che dorme”, così potei continuare con la mia sonnolenta indifferenza, che con l’aumento del pericolo divenne sempre più radicata, finché non c’è stato il brusco risveglio: l’aggressione e l’invasione di una nazione da parte di un’altra la quale sta tentando di distruggere tutto e tutti.

Ma ho un sogno, io pure, che desidero confidare prima di concludere. È un desiderio, forse una fantasia che potrebbe anche concretizzarsi in un progetto. Ve lo presento.

Immagino che si costituiscano uno o due gruppi clinico-teorici composti da colleghi residenti in Italia principalmente nel Nord-Est, in Slovenia, Croazia e Bosnia-Erzegovina. Questi gruppi si incontrerebbero periodicamente via zoom, ma anche di persona (qui la Fondazione potrebbe dare un concreto contributo organizzativo) e queste occasioni potrebbero facilitare la partecipazione di altri colleghi provenienti da paesi diversi, i quali funzionerebbero da “terzi”, sempre necessari e utili. Questi incontri faciliterebbero una maggiore reciproca conoscenza, che è importante. Permetterebbero inoltre un diverso investimento nel lavoro, che diventerebbe più variegato e sfaccettato visto che si comporrebbe di differenti esperienze di vita e professionali, da scoprire e da arricchirsene di volta in volta.

 

Bibliografia

Amati Sas S. (1985). Megamorti, unità di misura o metafora? (Perché accettiamo l’inaccettabile). In Amati Sas S. Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale. Milano, FrancoAngeli, 2020.

 Amati Sas S. (1996). La modesta onnipotenza. In Amati Sas S. Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale. Milano, FrancoAngeli, 2020.

Jones E. (1953). Vita e opere di Freud. 2. volume. Gli anni della maturità (1901-1919). Milano, Garzanti, 1977.

 

 

Vlasta Polojaz, Trieste

Centro Veneto di Psicoanalisi

vlastapolojaz@libero.it

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