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Il trauma e i suoi segreti nella trasmissione psichica transgenerazionale

di Diego Spiller

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Quando la mente si trova del tutto impreparata ad affrontare una certa situazione, e ne viene per questo travolta, parliamo di trauma psichico. Il carico emotivo del trauma è di tale portata da indurre a mettere in campo tutte le possibili strategie difensive per la sopravvivenza. La sua potenza annichilisce, acceca, inibisce, disorienta e spinge sovente, per contrasto, all’azione immediata, ma non permette la pensabilità, ossia la formazione di un pensiero che possa rappresentare e dare senso a ciò che sta accadendo. Solo il tempo, a volte favorito da qualche situazione contingente esterna, permette al trauma di affacciarsi alla consapevolezza. Ciò è vero sia per i traumi individuali che per quelli collettivi con la differenza che questi ultimi, per il loro carico di angoscia e i conseguenti meccanismi di diniego e scissione, riemergono molto più in là, anche a distanza di diverse generazioni. Ciò significa che il processo traumatico trova il modo di preservarsi rimanendo a lungo inalterato o subendo nel tempo solo parziali e modesti rimaneggiamenti.

Il trauma in sé, come evento fenomenico, nella maggior parte dei casi è noto, evidente, manifesto. Ma il suo impatto emotivo rimane latente e crea effetti patologici collaterali che contribuiscono a mantenere “in vita” il processo traumatico in attesa che esso pervenga, attraverso un’apertura di senso, alla sua elaborazione psichica. A ben vedere, tuttavia, il meccanismo di nascondimento non è altro che la “gestazione” del suo disvelamento. Un po’ come l’oracolo di Delfi che dice e non dice, così il trauma si fa notare proprio per ciò che nasconde. Ed è forse questo specifico meccanismo di azione del trauma a giustificare l’uso di termini come “cripta” e “segreto condiviso” (Abraham e Torok), “storia segreta” (Faimberg), “lutto espulso” (Racamier) da parte di autori che si sono a lungo occupati della trasmissione psichica transgenerazionale.

 

Il fenomeno della trasmissione psichica ha sempre incuriosito, affascinato e appassionato gli psicoanalisti. Già Freud nel 1912-1913, alla vigilia della prima guerra mondiale, nelle ultime pagine di Totem e tabù, definisce la trasmissione psichica come un processo necessario ed inevitabile nel passaggio transgenerazionale e si pone il problema di come esso avvenga, tenuto conto della elaborazione a cui è chiamata la nuova generazione rispetto alla deformazione che i moti psichici hanno subito nel corso della generazione precedente. Nello stesso scritto Freud afferma: “ogni uomo possiede nella sua attività psichica inconscia un apparato che gli consente di interpretare le reazioni di altri uomini, ossia di far recedere le deformazioni che l’altro ha imposto all’espressione dei propri impulsi emotivi” (p. 161). E cita a riguardo le parole di Goethe, nel Faust (1808, 55): “ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero”.

Tuttavia è solo a partire dagli anni ’70, inizialmente con gli studi di Abraham e Torok e successivamente con il contributo di Kaës, Faimberg, Racamier, che il tema della trasmissione psichica transgenerazionale si approfondisce e si aprono nuove prospettive di ricerca. L’accento viene posto sui difetti della trasmissione in cui assumono importanza la cripta, il lutto espulso, la colpa nascosta, la storia segreta, il non rimosso, il non simbolizzato.

 

Faimberg (2005), nell’osservare il sentimento di estraneità di alcuni pazienti in analisi, introduce il concetto di identificazione alienante: “in questo tipo di processo di identificazione è condensata una storia che, almeno in parte, non appartiene alla generazione del paziente […] l’oggetto di identificazione è in sé stesso un oggetto storico. Perciò, e questo è essenziale, l’identificazione include necessariamente nella sua struttura elementi fondamentali della storia di questo oggetto […] questa condensazione di tre generazioni è quello che io chiamo ‘telescoping delle generazioni’” (p. 28). La storia transgenerazionale che inconsciamente il paziente nasconde si rivela tuttavia nel transfert: “le identificazioni diventano udibili per l’analista con la scoperta di una storia segreta” (Faimberg, 2005, 28).

 

Giacomo, un mio paziente giovane adulto, nipote di un reduce di guerra sopravvissuto al secondo conflitto mondiale, mi porta un sogno: “ho visto, disegnate su un foglio, due facce: una più giovane e l’altra corrispondente alla mia età attuale. Una è il passato, l’altra è il presente. Ma le due facce sono slegate, separate, distanti”. Nel corso dell’analisi il paziente racconta di essere stato da bambino completamente assorbito dai racconti della guerra del nonno, che aveva a lungo gelosamente custodito dentro di sé. Via via mi rendo conto che Giacomo non solo ricorda, ma ha la necessità di ricordare: nell’esprimersi è come se si sdoppiasse in un presente, che lo richiama alla realtà attuale, e un passato che non è propriamente il suo. Il mio vissuto controtransferale è di venire catapultato in una temporalità traslata, come se fossi io stesso ad ascoltare i racconti del nonno. Scrive Faimberg (2005): “con il processo di identificazione [alienante] la psiche è fissata in un’‘eternità’ caratteristica dell’inconscio nella sua qualità di atemporalità. Sarebbe più esatto parlare di forme di temporalità diverse” (p. 30-31). Il grande interesse e ricerca del paziente verso varie forme di oggetti  mi richiamano alla mente il film “Ogni cosa è illuminata” del regista Liev Schreiber, tratto dall’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer: il protagonista, un giovane ebreo americano, per “paura di dimenticare” colleziona quanti più oggetti può e compie un vero e proprio “viaggio nella memoria” verso l’Ucraina, terra di origine del nonno, fuggito negli Stati Uniti poco prima del massacro degli abitanti del suo villaggio ad opera dei nazisti. Gli oggetti, rappresentativi di tracce mnestiche depositate nella memoria, riconducono al passato traumatico non elaborato. L’analisi, quale contenitore di oggetti (elementi grezzi, rappresentazioni di cosa), può contribuire a dar loro un senso attraverso il processo di storicizzazione che, attraverso la disidentificazione dalla scissione alienante, consente al paziente la riappropriazione del passato, condizione per la liberazione del desiderio e la costituzione del futuro (Racalbuto, 1994; Costantini, 2009; Faimberg, 2005).

 

Abraham e Torok (1987) ricorrono al concetto di cripta per descrivere il processo di incorporazione derivante dalla negazione di una perdita oggettuale: “nella cripta riposa, vivo, ricostituito a partire da ricordi di parole, di immagini e di affetti, il correlato oggettuale della perdita, in quanto persona completa, con la topica che le è propria, nonché i momenti traumatici – effettivi o supposti – che avevano reso l’introiezione impraticabile” (p. 259). Gli autori riprendendo il concetto di introiezione di Ferenczi (1912), sostengono che l’incorporazione deriva dal fallimento del processo di introiezione: “in compenso del piacere perduto e dell’introiezione mancata, l’oggetto proibito verrà installato all’interno di sé. È questa l’incorporazione propriamente detta” (ibid, 229). Il processo di introiezione, caratterizzato dall’espansione dell’Io attraverso l’inclusione dei suoi oggetti, subirebbe una battuta d’arresto di fronte alla perdita dell’oggetto, in qualunque forma essa sia, dando luogo all’incorporazione. E “mentre l’introiezione […] mette fine alla dipendenza oggettuale, l’incorporazione dell’oggetto crea o rinforza un legame con l’imago” (ibid, 230). Per Abraham e Torock vi è un segreto tenuto celato, a seguito di un’esperienza oggettuale macchiata di vergogna, che coinvolge sia il soggetto che l’oggetto idealizzato: “perché venga costruita una cripta è necessario che il segreto vergognoso sia appartenuto ad un oggetto che svolgeva la funzione di ideale dell’Io. Si tratta dunque di mantenere il suo segreto; di coprire la sua vergogna” (ibid, 260).

 

I racconti del nonno avevano provocato in Giacomo una grande confusione emotiva. Il nonno aveva imbracciato le armi e combattuto contro i soldati nemici ma aveva, al contempo, stretto dei legami affettivi, di fratellanza con la popolazione civile. Da alcune famiglie era stato accolto, protetto, sfamato e curato. Era sopravvissuto anche grazie a loro, tuttavia era chiamato, per il suo ruolo, ad uccidere. Nell’ascoltare questi racconti Giacomo, allora bambino, si trovava esposto alla potenza, alla complessità e all’ambivalenza delle emozioni che il nonno, attraverso di essi, trasmetteva.

Si può supporre, pur nel contesto “guerra”, un forte sentimento di vergogna del nonno e che in questo possa consistere il “segreto vergognoso” condiviso con il nipote, che può aver provocato la perdita dell’oggetto (nonno) come ideale dell’Io: come poter mantenere l’immagine del nonno “eroe” dopo averla confrontata con quella dell’uomo che riceve riparo e protezione proprio da coloro che appartengono allo stesso popolo che combatte?

 

Il decorso del trauma che attraversa più generazioni non sembra essere casuale. Dovremmo cioè cercare di capire, seguendo Kaës (1993, 63): “le concatenazioni psichiche che portano a far sì che un soggetto preciso […] se ne faccia portatore e adatti a tale posizione, con l’accordo inconscio degli altri, il proprio destino e il proprio fine”. Kaës aggiunge: “la traccia segue sempre il proprio cammino attraverso gli altri fino a che un destinatario non si riconosce come tale” (Ibid, 63).

A volte il trauma è troppo ricco di tensioni, conflitti, lutti, dolore e sofferenza per poter essere trasmesso alla generazione successiva e trova invece un passaggio più agevole, grazie al tempo intercorso, con la terza generazione o quelle seguenti. La generazione (o le generazioni) di mezzo fa da viadotto in questo passaggio operando una trasmissione che potremmo chiamare di cosa, affinché qualcuno possa raccoglierne l’eredità ed iniziare la vera e propria trasformazione in rappresentazione di parola. Le relazioni familiari concorrono funzionalmente e sinergicamente all’incistamento del trauma: “il segreto condiviso” (Abraham e Torok) o la “storia segreta” (Faimberg) sembrano annidarsi proprio nel tacito accordo familiare inconscio di cui parla Kaës.

Il trauma trova quindi la possibilità di depositarsi in un soggetto e di subire dei processi trasformativi nella direzione della sua elaborazione. Racamier (1992, 82) chiama, con linguaggio metaforico, “portabagagli” il ricevente del processo espulso. Tale processo per l’autore, è quello del lutto, di un lutto inconfessabile: il “percorso [del lutto attraversa] le frontiere degli individui. Un lutto che in qualcuno non viene fatto, va a trasportarsi laggiù in qualcun altro e si trasforma in una nebbia di affetti, in occlusione di fantasmi, in una paresi del giudizio” (Ibid, 69). L’analogia con l’azione del fantasma (fantôme) descritta da Abraham e Torok (1987, 375) è evidente: “il fantasma che ritorna ad assillare è la testimonianza dell’esistenza di un morto sepolto nell’altro”.

Racamier descrive in modo particolareggiato il percorso del lutto patologico delineandone le caratteristiche: consiste in un’inclusione forzata nella psiche del portabagagli e nella squalifica radicale del suo Io; subisce delle trasformazioni e trasfigurazioni per cui può passare inosservato o con un volto innocente; ha una grande capacità di far agire. Ma con Faimberg (2005, 149), mi chiedo: “si tratta necessariamente di un lutto?”. L’autrice, con il concetto di identificazione inconscia alienante, sembra allargare questa prospettiva forse facendo suo quanto già anticipato da Freud (1912-1913): “anche la repressione più violenta è costretta a lasciare spazio a moti sostitutivi deformati e alle reazioni che ne conseguono. Ma se le cose stanno così, possiamo formulare l’ipotesi che nessuna generazione sia in grado di nascondere alla generazione successiva processi psichici di una certa importanza” (p. 161). Anche Kaës (1993) sembra sostenere questo punto di vista quando scrive: “compare sempre la necessità di transferire-trasmettere in un altro apparato psichico ciò che non può essere mantenuto e ospitato nel soggetto stesso” (p. 24). Si potrebbe trattare, pertanto, nella trasmissione transgenerazionale, di formazioni inconsce e processi psichici non necessariamente riconducibili al lutto, ma comunque di valenza traumatica.

 

L’alone di mistero e segretezza e il senso di estraneità, trasmessi dal paziente, rendono necessario un particolare sguardo analitico ben descritto da Neri (1993) nell’introduzione al suo articolo Campo e fantasie trans-generazionali: l’analista, abitualmente, cerca di individuare le motivazioni personali (consce e inconsce), che stanno all’origine di una data situazione, presentata dal paziente come dovuta al caso o determinata da fattori indipendenti dalla sua volontà e dal suo desiderio; in certi casi, è utile cambiare, temporaneamente, punto di vista ed interrogarsi se il paziente non abbia invece a che fare con ‘qualcosa che non gli appartiene’” (p. 43). Quel qualcosa che il paziente dovrebbe, secondo l’autore “prima di tutto distinguere da sé e poi scegliere ed eventualmente fare proprio oppure accantonare” (Ibid, 43).

È proprio il lungo, tortuoso e faticoso processo di elaborazione del trauma transgenerazionale che consente al paziente, attraverso il lavoro analitico, di liberarsi dei fantasmi del passato e di pervenire alla riappropriazione del Sé. Kaës (1993), nel trattare la violenza della trasmissione psichica, avalla l’idea di una forza che preme per una via d’uscita dei processi non elaborati: “non c’è solo l’urgenza di trasmettere, c’è anche quella di interrompere una trasmissione” (p. 24).

Mi sembrano pertinenti ed appropriate, in questo contesto, le parole di Fausto Petrella (2010) che, in occasione del Giorno della Memoria, auspica: “la necessità di un’elaborazione del lutto che avvenga senza eludere la storia, senza negarla e al tempo stesso facendosene carico senza restarne schiacciati”. E conclude: “tenendo ben presente che abbiamo buone ragioni sia per ricordare, sia per dimenticare”.

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

Abraham N., Torok M. (1987). La scorza e il nocciolo. Roma, Borla, 1993.

Costantini M.V. (2009), “Ogni cosa è illuminata” dalla luce del passato. Note sul film di Liev Schreiber. Riv. Psicoanal., 55, 467-478.

Faimberg H. (1985). Le télescopage des générations, à propos del la généalogie de certaines identifications. Psychanalyse à l’Université, XII, 46, 181-200.

Faimberg H. (2005). Ascoltando tre generazioni, Legami narcisistici e identificazioni alienanti, Milano, Franco Angeli, 2006.

Freud S. (1912-1913). Totem e tabù. O.S.F., 7.

Kaës R., Faimberg H., Enriquez M., Baranes J.-J. (1993). Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Roma, Borla, 2012.

Levine H.B. (1982). Toward a Psychoanalytic Understanding of children of Survivors of the Holocaust. Psychoanal. Quarterly, 51:70-92.

Neri C. (1993). Campo e fantasie trans-generazionali. Riv. Psicoanal., 39, 43-64.

Petrella F. (2010). Intervento nel “giorno della memoria”, organizzato dal CPF.

Racalbuto A. (1994). Tra il fare e il dire. L’esperienza dell’inconscio e del non verbale in psicoanalisi. Milano, Cortina.

Racamier P.-C. (1992). Il genio delle origini. Milano, Cortina, 1993.

Safran Foer J. (2002). Ogni cosa è illuminata. Milano, Guanda.

 

 

Diego Spiller, Vicenza

Centro veneto di Psicoanalisi

diegospiller@gmail.com

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