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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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*Per citare questo articolo:

De Mari M., (2024) “Introduzione. Chiedimi chi sono i Rolling Stones”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 7-22″, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 7-21

Introduzione.
Chiedimi chi sono i Rolling Stones

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

di Massimo De Mari

(Padova), Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.

“Vado a vedere i Rolling Stones!” gridai eccitato appena ebbi la conferma dei biglietti. Mi sentivo come uno speaker politico su un palco, in una piazza affollata di gente, che aveva appena annunciato di aver vinto le elezioni e mi aspettavo un boato di entusiasmo e felicitazioni.

In realtà, dal divano ormai inguardabile del salotto, ridotto in uno stato pietoso da un cucciolo di cane bisognoso di affilarsi i denti, dove giacevano stravaccati due giovani adulti, abbarbicati ad una mai dimenticata adolescenza, risposero due grugniti (uno del cane) e una domanda annoiata “vai a vedere chi…?”.

Era una domanda semplice, a cui si poteva fornire una risposta intellettualoide sulla storia della musica rock-blues, oppure rinunciare a rispondere, prendendo atto che un ventenne poco può sapere di un gruppo musicale che in questi anni festeggia i 60 anni di storia con tre front-men ormai ottuagenari, alfieri di una musica da cui i loro idoli musicali attuali sono lontani anni luce.

Ma il preconscio si era già messo in moto, rilanciando la domanda a quel me stesso quattordicenne che cominciava a strimpellare la chitarra e si sintonizzava sulla radio a transistor degli anni ’70 alla ricerca di una musica che potesse evocare emozioni: chi sono i Rolling Stones e che significato hanno avuto nella mia vita?

 

La musica come ideale dell’Io

Gli anni ’70 erano i tempi delle ideologie e delle contrapposizioni politiche e sociali.

In piazza si fronteggiavano quasi quotidianamente esponenti degli ideali di sinistra e destra, i “rossi” caratterizzati da eskimo, spinelli e catene, i “neri” da abiti firmati, cocaina e manganelli.

A scuola non si andava più in giacca e cravatta come i nostri fratelli maggiori ma il liceo era ancora un’icona dei borghesi abbienti e snob mentre il popolo frequentava le scuole professionali o lasciava la scuola dopo le medie per iniziare a lavorare.

Al centro, “contro gli opposti estremismi”, c’era il ceto medio, bisognoso di certezze economiche e lavorative, tenuto al caldo nel ventre della “balena bianca” democristiana, che ha dominato la scena politica italiana per almeno quarant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, supportata all’estero dalle grandi potenze occidentali e all’interno della Chiesa Cattolica imperante.

In questo quadro politico e sociale l’adolescente viveva dunque all’interno di regole ben precise e ideali di riferimento (oggi diremmo “l’ideale dell’Io”) ben definiti, giusti o sbagliati che fossero, che avevano il doppio effetto di fornire una cornice chiara e sicura all’interno della quale elaborare il proprio progetto di vita e di costituire un altrettanto solida gabbia dalla quale era pressoché impossibile fuggire senza dover operare una vera e propria rivoluzione culturale.

Io ero un adolescente brufoloso e sovrappeso, con fantasie sessuali pre-edipiche talmente naïve che il suffisso “pre” potrebbe oggi stare per “preistoriche” considerando il contributo iper-realistico che gli attuali siti pornografici danno al concetto di “fantasia” sessuale per l’adolescente odierno.

Vivevamo forse felici anche nella preistoria tecnologica, in cui si usciva di casa dopo aver fatto i compiti, annunciando “esco” e si tornava per l’ora di cena, sudati e con le ginocchia sbucciate, senza che alcuna madre fosse andata particolarmente in ansia, beccandoci uno scapaccione solo perché i padri erano già a tavola a guardare il telegiornale e bisognava essere tutti presenti per cominciare.

Non so come e quando la musica ha cominciato a far da colonna sonora ai miei pensieri quotidiani.

Forse, come tutti ipotizziamo, tutto nasce dal ritmo del cuore materno, dal suono del respiro e della voce che percepiamo attraverso il filtro del liquido amniotico.

“La materia sonora vocale – scrive Laura Pigozzi – è percepita prima della parola, già prima della nascita, insieme al rumore del battito del cuore materno, al movimento del liquido amniotico e al ritmo del respiro” (2008, 61).

Il mio primo ricordo è legato ad un senso di nostalgia ed è un ricordo confuso nel tempo, il ritorno a casa dopo una gita, la separazione temporanea da un familiare, qualcosa del genere, ma due canzoni di quel tempo, “Una lacrima sul viso” di Bobby Solo[1] e “Se mi vuoi lasciare” di Michele[2], commossero fino alle lacrime il bambino che ero e quella sensazione mi è rimasta in mente come se fosse ieri.

“Sul versante della relazione – scrive Moroni – il processo di crescita psichica richiede un inevitabile lutto per la perdita delle cure materne collegate alle conseguenti trasformazioni del corpo infantile. L’adolescenza introduce pertanto, all’interno del gruppo familiare un elemento perturbante in senso evolutivo, un elemento estraneo: la sessualità nascente, come trauma in sé, e come cifra distintiva ed inequivocabile del processo di separazione-individuazione” (2022, 1 – 2).

Oggi, ripensandoci, non mi è difficile collegare quei sentimenti con il passaggio doloroso dal tempo felice dell’infanzia alle nubi tempestose dell’adolescenza in arrivo.

In campo musicale era un tempo in cui qualcosa di rivoluzionario c’era davvero e stava accadendo: la musica leggera del dopoguerra, figlia di emozioni semplici, fatta di melodie romantiche e testi pieni di rime baciate sul tema cuore/amore, fu letteralmente e completamente stravolta dall’avvento di due gruppi di musicisti inglesi, diversi come genere e ugualmente inconsapevoli del loro genio, i Beatles e i Rolling Stones.

In tempi di contrapposizione ideologica i due gruppi finirono per rispecchiare le divisioni politiche e sociali dell’epoca.

Nel resto d’Europa non c’era niente del genere, l’Inghilterra e, un po’ a scoppio ritardato, gli USA, rappresentarono i due poli musicali principali, con una nutrita serie di gruppi musicali e song-writers che furono i precursori di un filone di epigoni che non potevano che scimmiottare o cercare di riprodurre in “versione italiana” quelle idee così originali e rivoluzionarie.

In Italia, solo l’avvento dei cantautori, a partire da Lucio Battisti, arrivò a scuotere dalla melassa dei cantanti melodici del dopoguerra il mondo musicale nostrano.

 

Buoni e cattivi

I Beatles si proponevano con un aspetto ammiccante e perbene, erano quattro ragazzi bellocci e sorridenti, la loro trasgressione era nei capelli lunghi e in una certa originalità nell’abbigliamento ma niente di più.

Erano apparentemente innocui anche nel loro stile musicale, un rock erede della tradizione del rock&roll statunitense e del folk tradizionale britannico, ma con un taglio personale del tutto originale che emergeva soprattutto nelle ballate e nei testi che fecero immediatamente presa nelle fasce di adolescenti più integrati e borghesi.

I Rolling Stones erano l’esatto contrario, brutti e sguaiati, ispiravano sensualità e inquietudine sia per il loro stile di vita, esagerato e trasgressivo, che nel genere musicale, un rock-blues sanguigno, nel solco di una lunga e consolidata tradizione ma carico di un’energia e di un’originalità che non aveva paragoni con tutti i più acclamati musicisti di quel genere.

La loro musica era dunque una musica di periferia, ispirava un concetto della vita “contro” il sistema e il perbenismo. Per dare un’immagine grezza ma simbolica della differenza, mentre Paul McCartney cantava “Yesterday[3] e faceva piangere la studentessa delle scuole superiori, Mick Jagger urlava “Sympathy for the devil[4] e faceva strappare il reggiseno alla ragazza che contestava il sistema al grido di “sex and drugs and rock’n’roll”.

Se rileggo quel periodo storico dal punto di vista personale, parlando di questi stereotipi, devo confessare che l’emozione che provavo allora ascoltando i Beatles era di gran lunga maggiore e fui trascinato dalla loro breve storia musicale e soprattutto da tutti i musicisti e i gruppi musicali che, a partire da quella svolta epocale, trassero ispirazione per dare vita ad altri generi musicali, dal pop al rock progressive al punk e che risultarono fondamentali nel costituire la colonna sonora dei miei anni a seguire.

I Rolling Stones, dunque non sono mai entrati in modo significativo nel mio orizzonte musicale, se non in poche ma significative occasioni.

La prima fu quando facevo parte del mio primo gruppo musicale e bisognava decidere chi dovesse cantare; avevo 14 anni, suonavo la chitarra e il basso ed ero armato di una timidezza patologica che mi impediva anche solo di pensare a questa possibilità a cui però anelavo disperatamente.

Ciascuno provò a cantare un pezzo e quando toccò a me scelsi proprio una canzone dei Rolling Stones, “Angie[5], una ballatona romantica abbastanza anomala per loro, forse per questo mi piaceva, che era la loro hit del momento.

Evidentemente fui più convincente degli altri e quindi grazie ai Rolling Stones ho iniziato la mia pluridecennale carriera di cantante.

Da allora, per più di 30 anni ho cantato tutt’altro, provando per i Rolling Stones un interesse un po’ lontano, misto a fastidio per quel genere che non mi emozionava allo stesso modo del rock progressive, che invece traeva dalla musica classica e dalla rivoluzione dei Beatles la sua linfa vitale.

Passavo interi pomeriggi a guardare il soffitto ascoltando la musica di gruppi dai nomi evocativi come i Genesis, i King Crimson, i Gentle Giant, gli Emerson, Lake and Palmer, i Jethro Tull, i Van der Graaf Generator, i Pink Floyd.

La loro musica aveva un’impostazione classica, gli album erano spesso costituiti da lunghe suite, i testi spaziavano su temi mitologici, a volte onirici o comunque volutamente dissociati dalla realtà quotidiana e affrontavano questioni esistenziali attraverso un massiccio uso dei simboli e delle metafore.

In questo i Genesis, in particolare durante il periodo in cui l’anima creativa principale è stata il cantante Peter Gabriel, sono stati dei maestri indiscussi.

Nell’album “Selling England by the pound” (1973) forse il più intenso della loro prima produzione è contenuto il brano Firth of Fifth[6], il cui testo necessita non solo di una traduzione dall’inglese ma di un’interpretazione accurata dei neologismi e dei significati simbolici scritti da Peter Gabriel.

C’erano addirittura dei gruppi, come gli Ekseption, un gruppo di musicisti olandese che vidi in uno dei primi concerti live a cui ho partecipato, che eseguiva un repertorio di musica classica originale (ricordo una loro versione della Quinta Sinfonia di L.W. Beethoven[7]) con strumenti elettrici.

In Italia i maggiori esponenti di questo genere sono stati la Premiata Forneria Marconi, gli Acqua Fragile, il Banco del Mutuo Soccorso e i New Trolls, capaci di imporsi anche in campo internazionale con grande originalità.

I dischi erano long playing[8] in vinile con copertine firmate dai più grandi grafici del momento e contenevano una fucina di informazioni, spiegazioni dell’idea (il concept) del disco, a cui erano collegati i testi che cercavo di tradurre dall’inglese distruggendo il vocabolario che usavo poco e male a scuola.

In quel periodo ero attratto dalla musica classica che ho studiato privatamente e in conservatorio, l’istituzione aveva su di me un effetto ambivalente, per certi versi rassicurante, per altri inibitorio e castrante, come l’ambito familiare in cui vivevo, da cui avrei voluto uscire non avendone però le forze.

Solo crescendo, superata l’orgia del rock progressive ho riavvicinato i Rolling Stones attraverso una breve ma intensa esperienza con un gruppo di rock-blues.

In questo gruppo la musica era tornata a essere scarna, pochi strumenti, quasi nessun effetto elettronico, chitarre, voci e organo per eseguire un repertorio di canzoni di autori storici del genere, da Eric Clapton ai Traffic a Patti Smith, passando per Crosby, Stills, Nash & Young, Sheryl Crow e, naturalmente, i Rolling Stones.

Era l’essenza della musica rock, che sta in piedi solo se c’è energia.

Suonando e cantando quei pezzi ho scoperto che alchimia c’era in una scrittura apparentemente semplice, fatta di pochi accordi, unita a testi semplici, privi di simboli ma dal messaggio immediato e potente.

E poi finalmente si usciva dalla gabbia dello spartito da eseguire nota per nota sempre uguale a sé stesso, per aprire la mente e il cuore all’improvvisazione.

Parallelamente, vivevo una grande fascinazione per un altro genere musicale in cui la componente teatrale era fondamentale, il musical.

In questo caso avevo la possibilità di mettere insieme la passione della musica con quella del teatro, ambito in cui ho lavorato per qualche anno professionalmente, dopo aver frequentato una scuola, contemporaneamente al conservatorio.

Il lavoro in teatro, introspettivo e disinibente al tempo stesso, è stato per me come una prima analisi e ha costituito quel ponte creativo che mi avrebbe, in età adulta, portato al jazz, uno stile che mi affascinava ma che sentivo inarrivabile, troppo difficile da capire, per certi versi astruso e poco melodico.

Il jazz ha costituito un traguardo sorprendente perché studiandolo e frequentando musicisti jazz, mi sono reso conto che, contrariamente a quello che era il mio timore, nel jazz potevo ritrovare tutti gli elementi del percorso musicale che avevo fatto.

Non c’era contraddizione con i miei primi strimpellamenti di chitarra, né con la musica classica, né addirittura con l’opera lirica a cui sono stato indirettamente legato per questioni affettive, per non parlare del rock, del blues o della forma canzone in generale, tutti spunti da cui il jazz trae linfa vitale per le sue composizioni.

Un po’ come, quando mi sono avvicinato alla psicoanalisi, ho capito che tutto quello che era stato il mio percorso personale e professionale precedente, ne poteva far parte a pieno titolo, niente era escluso e ogni “passaggio segreto”[9] acquistava un suo significato e un suo valore alla luce di una disciplina che non poneva vincoli alle dinamiche di pensiero e forniva gli strumenti per poterli interpretare.

Insomma, se guardo al percorso musicale fatto a partire dalla mia adolescenza mi rendo conto che i generi musicali che di volta in volta mi hanno appassionato, sono stati aderenti alla mia crescita personale e hanno contribuito significativamente a formare quel contenitore psichico, nel senso bioniano del termine, capace di dare migliore forma ai miei pensieri.

 

L’idea per un KnotGarden

L’idea originale di questo lavoro nasce, dunque, da una domanda apparentemente semplice, nata dall’esperienza personale che ho cercato di descrivere, che ho proposto ai colleghi che intervengono in questo lavoro di gruppo: com’è cambiato il rapporto tra adolescenti e musica nel corso di questi ultimi 50 anni?

E poi: se la musica è cambiata, come il mondo in cui vivono, quali emozioni sperimentano gli adolescenti di oggi rispetto alla musica che ascoltano?

E ancora…se la musica è il prodotto della cultura dominante, che tipo di cultura corrisponde alla musica di oggi, che emozioni evoca e che tipo di aspirazioni e di progetti di vita incarna?

Uno dei miei principali punti di riferimento in campo psicoanalitico, Giovanna Giaconia[10], scriveva: “Ogni epoca ha linguaggi musicali suoi propri. Il rock’n’roll è un genere che nella forma di rock ‘duro’ ha un indice di ascolto così elevato e diffuso da configurarsi come elemento di riconoscimento tra gli adolescenti mentre, per contro, agli adulti risulta prevalentemente sgradito; esso è dunque un elemento importante, in quanto rappresenta una barriera difensiva dall’intrusione o dal fantasma proiettato dell’intrusione. È una musica ripetitiva in cui esiste soltanto una trama melodica a larghe maglie entro le quali entrano suoni inusitati, aggressivamente dirompenti, che si trasmettono al corpo e stimolano il movimento, preferibilmente collettivo. Tuttavia nella ripetitività si esprime un sentimento nostalgico oscuro e irrapresentabile. Sono dell’avviso che in esso sia riconoscibile una traccia della sfera sonora allucinata del bambino, mentre i suoni dirompenti urlati e gli assolo di batteria appartengono all’ordine del grido che, nato dal dolore, esprime rabbia e richiama imperiosamente la madre. Il grido pensabile nella scrittura musicale come segno non aleatorio cerca un’integrazione semantica nel testo verbale. Il testo offre una rappresentazione che il grido carica di affetti, portando all’estremo limite lo sviluppo metaforico della parola. Si apre, a questo punto, una doppia possibilità: l’una costituita da una ripresa della struttura musicale, sia pur pensata nell’improvvisazione, l’altra caratterizzata dall’abbandono inebriante alla potenza della voce e all’incontrollata e travolgente velocità del ritmo. Nell’un caso è presente lo sforzo di mantenere pensabile il rapporto con l’oggetto interno ancor prima che esterno, nell’altro l’eccitamento mentale e corporeo travolge la relazione d’oggetto in un’aggressione confusiva” (1997, 877 – 878).

Sono passati molti anni da queste parole che però continuano a colpirmi per la loro attualità.

Quando ho chiesto ai due adolescenti dell’inizio quale fosse il genere musicale che oggi li appassiona e che significati vi attribuissero mi hanno dato una risposta che riassumerei così: “Le nuove generazioni vivono in uno stato di ansia costante legata al futuro incerto e la pandemia ha reso il tutto ancora più difficile da sopportare. Motivo per cui sta tornando di moda il pop-punk, un genere molto nostalgico ma che è stato contaminato dalla trap e dalle influenze emo. Di conseguenza i testi sono spesso e volentieri incentrati su cose tristi o sofferte mentre le sonorità sono sì nostalgiche ma anche moderne con contaminazioni di basi elettroniche. Oggi i social come Tik-Tok e Instagram danno la possibilità di scoprire continuamente nuovi artisti e nuovi generi. In alternativa ci sono diversi canali di divulgazione musicale su You Tube o spulciando le classifiche di Spotify dove si trova tutta la musica commerciale sparata quotidianamente in radio e Tv”.

Ma questi sono solo alcune possibili intersezioni tra i generi musicali e l’adolescenza visti da una possibile ottica psicoanalitica che, a mio avviso, non può avere a che fare solo con questioni strettamente metapsicologiche ma anche, come sempre sostenuto da Freud, con quanto di neurologico e neurocognitivo riguarda la struttura cerebrale e la funzione dei due emisferi.

Schön, Akiva-Kabiri e Vecchi sottolineano come “non è possibile associare chiaramente i processi cognitivi implicati nell’elaborazione musicale a uno dei due emisferi del cervello umano. In particolare sembra che l’emisfero sinistro sia maggiormente implicato nei musicisti esperti mentre l’emisfero destro rivela un ruolo maggiore nell’ascolto musicale fatto da non musicisti” (2007, 111).

 

Ieri e oggi

È evidente come l’adolescente del secondo millennio, rispetto a quello della generazione che rappresento, abbia a disposizione un’offerta musicale esponenzialmente maggiore. Una differenza, a mio parere non secondaria, sta inoltre nel fatto che la percezione acustica non sia prevalente, come poteva essere quando i social e persino i video musicali non esistevano. Negli anni ’60 e ’70 la musica si poteva ascoltare da poche fonti, il giradischi di casa e la radio. I concerti dal vivo erano eventi eccezionali e il canale visivo doveva accontentarsi delle immagini e delle note di copertina dei dischi o delle riviste specializzate.

Lo scopo che ci siamo proposti in questo KnotGarden è dunque quello di capire cosa è cambiato nel mondo interno dell’adolescente del terzo millennio rispetto a quello delle epoche immediatamente precedenti di cui siamo stati testimoni diretti o che abbiamo ereditato dalle generazioni precedenti alla nostra.

Naturalmente per fare questo abbiamo utilizzato il punto di vista della musica, intesa come contenitore ideale del mondo delle emozioni quindi quello più vicino all’inconscio. In questo ci siamo sentiti supportati da alcuni autori, psicoanalisti appassionati di musica o in possesso, in alcuni casi, di ambedue le competenze, che in alcune pubblicazioni molto approfondite (anche se poche, in verità) hanno già sottolineato i tanti punti di contatto tra i due ambiti.

Oltre alla già citata Giaconia, Antonio Di Benedetto, Francesco Barale, Alberto Schön, Fausto Petrella, Francis Grier, Alexander Stein, Julie Jaffee Nagel sono alcuni degli autori che ci hanno preceduto in questa riflessione da cui abbiamo preso spunto per cercare di rendere il pensiero in questo campo più attuale e aderente ai giorni nostri.

In questi ultimi vent’anni, a cavallo del nuovo millennio, abbiamo assistito a grandi cambiamenti e anche i generi musicali si sono evoluti in modo molto veloce.

Ma anche il mondo è cambiato, basterebbe pensare a come la rapida affermazione dell’elettronica e dell’informatica negli ultimi vent’anni abbia profondamente se non del tutto condizionato il nostro rapporto con il mondo e le relazioni con gli altri.

Quindi la domanda che ci siamo posti è come lo snodo cruciale della vita psichica che l’adolescenza continua a rappresentare abbia a sua volta subito l’impatto di questi cambiamenti epocali.

Per cercare di capirlo abbiamo utilizzato l’ottica musicale attraverso i contributi di colleghi che hanno seguito strade diverse, tratte dall’esperienza clinica e dai loro personali vissuti collegati con la musica.

Siamo arrivati alla composizione del knot attraverso un lavoro di gruppo durato più di un anno, con incontri a cadenza mensile, caratterizzati da un entusiasmo contagioso per cui sono grato a tutti, che ha reso questo percorso intenso e divertente e ci spinge oggi a pensare di poterlo continuare in qualche altro modo in futuro; credo che anche questa sia la potenza creativa e terapeutica della musica.

Questo KnotGarden si divide in due parti che ho intitolato, come per la copertina di un ideale long playing “LATO A – La musica dell’adolescenza” e “LATO B – L’adolescenza attraverso la musica”.

Nella prima parte vengono delineati da Cinzia Carnevali, Caterina Olivotto, Rosa Spagnolo, Cristiano Lombardo, Paola Ferri e il sottoscritto alcuni dei punti di contatto tra la musica e le diverse caratteristiche del mondo adolescenziale.

Nella seconda Vittorio Gonella, Francesco Onofri, Guido Buffoli, Monica Bomba e Silvia Mondini descrivono le molteplici possibilità di identificazione delle dinamiche intrapsichiche adolescenziali nei generi musicali, in particolare in quelli che maggiormente rappresentano la realtà dei nostri giorni. Per molti autori, compreso il sottoscritto, la ricerca di un’identificazione negli adolescenti di oggi non poteva prescindere da una riflessione sulla propria storia personale che ha dato modo di scoprire non solo differenze ma anche sorprendenti affinità. Infine Anna Cordioli, in un modo particolarmente originale, propone un contributo che, attraverso una cavalcata lunga secoli, decostruisce il preconcetto comune  che lega la musica queer alla fase adolescenziale.

Questa introduzione iniziale e il cosiddetto “ghost track” (il pezzo inserito nell’album ma non citato nei titoli), cioè l’intervista finale a Daniele Biondo, curata da Anna Cordioli, costituiscono idealmente la prima e la quarta di copertina di un libro che ci siamo divertiti molto a scrivere e che speriamo sia altrettanto piacevole e interessante leggere.

Note

[1] Bobby Solo, “Una lacrima sul viso” (1964).

[2] Michele, “Se mi vuoi lasciare” (1963).

[3] The Beatles, “Yesterday” (1965): 

[4]  The Rolling Stones, “Sympathy for the devil” (1968):

[5] The Rolling Stones, “Angie” (1963): 

[6] In Firth of Fifth (gioco di parole con Firth of Forth, fiordo creato dall’estuario del fiume Forth, nei pressi di Edimburgo in Scozia) il testo racconta una storia di ninfe e sirene, con riferimenti alle leggende della storia della letteratura inglese.

“Canzoni di ninfe.  Urgono i navigator

Finché vengono adescati dal grido delle sirene.

Ora mentre il fiume si dissolve in mare,

Così Nettuno ha rivendicato unaltra anima.

E così con dei e uomini, le pecore rimangono dentro il loro recinto,

finché il pastore guiderà il suo gregge lontano.

Le sabbie del tempo sono state erose dal fiume di costante cambiamento”.

Genesis, “Firth of Fifth” (1973): 

[7] Ekseption, “The 5th” (1969): 

[8] Il long playing venne introdotto nel 1948 dalla Columbia Records e soppiantò progressivamente il disco in gommalacca che veniva riprodotto a 78 giri, grazie alla migliore qualità e durata del vinile. A partire dalla fine degli anni ottanta, l’avvento del compact disc (CD) ridusse l’interesse per i dischi in vinile, che vennero gradualmente soppiantati, diventando un prodotto di nicchia per collezionisti e appassionati, a volte stampato in edizione limitata. Oggi tutti questi supporti sono per lo più stati soppiantati dalle piattaforme online.

[9] Mi piace richiamare qui il titolo di un bellissimo libro del 2008 di Stefano Bolognini che si intitola appunto “Passaggi segreti” (Boringhieri)

[10] Giovanna Giaconia, scomparsa nel 2015, è stata un’analista con funzione di training del Centro Milanese di Psicoanalisi con cui ho svolto i primi colloqui per associarmi alla SPI. In seguito, per qualche tempo, sono andato in supervisione da lei per alcuni casi clinici di personalità devianti su cui aveva una grande esperienza clinica. Tra i suoi molteplici interessi c’era anche la musica.

Bibliografia

De Mari M., Carnevali C., Saponi S. (a cura di) (2015). Tra psicoanalisi e musica. Roma, Alpes.

Giaconia G. (1989). L’adolescenza. In Semi A. A. (a cura di), Trattato di psicoanalisi. Milano, Raffaello Cortina.

Grassi L. (2022). L’inconscio sonoro. Psicoanalisi in musica. Milano, Franco Angeli.

Moroni A. (2022). Il male in adolescenza. Roma, Alpes.

Pigozzi L. (2008). A nuda voce. Torino, Antigone Edizioni.

Schön D., Akiva-Kabiri L., Vecchi T. (2007). Psicologia della musica. Roma, Carocci.

Massimo De Mari, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

massimodemari@gmail.com

*Per citare questo articolo:

De Mari M., (2024) “Introduzione. Chiedimi chi sono i Rolling Stones”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 7-22″, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p.7-21

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

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