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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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*Per citare questo articolo:

Lombardo C., (2024) “In principio era…la musica”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p.114-134

In principio era… la musica

di Cristiano Lombardo

(Padova, Conegliano) Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

L’adolescente alle porte dell’adultità

Forse le avventure della vita e della musica sono coeve. Guardando allo sviluppo filogenetico dell’uomo è quasi impossibile non figurarsi primitive forme di espressione e comunicazione accomunate da suono e ritmo. Questo in fondo è anche ciò che accade lungo l’arco dello sviluppo ontogenetico di ogni individuo, studi accreditati (Anzieu D. 1979, Brown S. 2000, Imberty M. 2002a, Mithen S. 2005) mostrano come già durante la vita intrauterina il feto impari ad ascoltare e a riconoscere il ritmo del cuore della madre e poi come dopo la nascita egli reagisca alla prosodia e all’intonazione della voce umana, ossia tutte quelle componenti del discorso che potremmo definire a buon titolo musicali.

Successivamente però con lo sviluppo del linguaggio e la “supremazia” del verbale è come se il registro musicale passasse in secondo piano sotto l’egida della parola fino a tutta la fase di latenza, al termine della quale come sappiamo vi è un prepotente ritorno del pulsionale. Al tramonto del “regno” della rimozione durante il periodo di latenza, è come se cominciasse a spirare un vento nuovo, libertino e rivoluzionario, destinato – come ogni rivoluzione che si rispetti – a sovvertire il senso del “familiare” e delle regole sociali, attuando un imponente processo decostruttivo e di de-idealizzazione. Di questo e molto altro consta il tortuoso cammino dell’adolescente verso la soggettivazione, un cammino fatto di conquiste ma anche di dolorose perdite, come ad esempio quella riferibile al proprio sé corporeo improvvisamente deformato e dilaniato da quella che Irene Ruggiero (2009) ha definito “montata pulsionale”.

Adolescenza dunque come luogo di incontro/scontro con il nuovo, ma contemporaneamente, proprio grazie al prepotente ritorno del pulsionale e della sessualità, anche come luogo elettivo dell’après-coup: «Ogni adolescente ha tracce mnestiche che possono venire comprese solo con la comparsa delle proprie emozioni sessuali […] Troviamo sempre che viene rimosso un ricordo il quale è diventato un trauma solamente più tardi» (Freud, 1895, 256). La mia impressione è che il linguaggio musicale, grazie alla sua grammatica non proposizionale si presti ad essere investito in modi molto differenti a seconda delle fasi della vita che accompagna, funzionando come una sorta di fil rouge lungo un arco di tempo che va, per così dire, dal primo al secondo tempo del trauma e ritorno, dall’infanzia, all’adolescenza e poi di nuovo indietro all’infanzia.

Una questione di identità

Giada, giovane universitaria aveva conosciuto un improvviso quanto inaspettato arresto nell’avanzare senza apparenti problemi tra gli esami del suo corso di laurea. Man mano che il nostro lavoro procedeva mi facevo l’idea che forse questo “improvviso” stop venisse da lontano e fosse anche l’espressione, il sintomo, di un disagio sottostante di non immediata lettura. Nell’insieme Giada aveva un look che definirei ordinato, sobrio, senza alcune di quelle caratteristiche accentuazioni o esagerazioni adolescenziali, eccezion fatta per un trucco un po’ pesante e qualche orecchino in più, sembrava proprio tutto “in ordine” e forse era proprio questo di lei a non convincermi fino in fondo.

A sentirla parlare sembrava che non ci fossero grossi problemi nella sua vita, se non che – al momento – dell’università le importava poco. Raccontava di storie con ragazzi che mi sembravano un po’ evanescenti e confuse, ma come per il suo aspetto esteriore anche qui alla fine sembrava tutto abbastanza “in ordine”. Un giorno la intravidi mentre arrivava in studio per la seduta camminando distratta e un po’ insaccata nel suo outfit, alle orecchie un paio di vistose cuffie che sembravano isolarla dal mondo.

Col tempo durante il lavoro emergerà una grande passione per l’hip-hop nata diversi anni prima: finalmente una vergenza, qualcosa che spiccava in quel panorama altrimenti un po’ troppo regolare. Il ritmo quasi ossessivo, tambureggiante e percussivo della musica che ascoltava faceva abbastanza a pugni con l’idea che mi ero fatto e che forse Giada voleva dare di sé, dove tutto appariva fluido, ben adattabile a conformarsi al contenitore nel quale si trova di volta in volta. Quello della musica invece era un universo a parte rispetto a tutto il resto ed era l’unico dove potevano prendere forma le sue pulsioni, in particolare l’aggressività e una rabbia sorda per la precoce separazione dei genitori, che l’avevano privata troppo presto del suo mondo.

I pezzi hip-hop che ascoltava e di cui poi prese a parlarmi di tanto in tanto durante le sedute compendiavano testi feroci e un ritmo quasi tribale che a prima vista poteva suonare un po’ come la sventagliata di un mitra propenso a fare piazza pulita di tutto e di tutti, ma al di là delle evidenti intenzioni rabbiose e distruttive mi dicevo anche che quello era pur sempre un ritmo[1] (e che ritmo!). Forse rappresentava in modo sincopato quel respiro più regolare di derivazione familiare che le era mancato, forse era al contempo, come spesso accade con i sintomi, male e cura insieme, domanda e anche risposta.

«Per una specie particolare di situazioni assai importanti che si verificano in un’epoca assai remota dell’infanzia – che allora vengono vissute senza essere capite, mentre vengono comprese e interpretate a posteriori – non è in genere possibile suscitare il ricordo» (Freud, 1914, 355). Così scrive Freud in Ricordare, ripetere e rielaborare, lavoro breve ma denso di intuizioni in parte sviluppate dallo stesso Freud e destinato poi a stimolare riflessioni teoriche in tutte le generazioni di psicoanalisti a seguire. Giada sembrava essere giunta fino al presente quasi “galleggiando” su tutto ciò che le era successo e di questo non pareva esservi traccia, musica a parte. La musica era la scia, che come Pollicino lei aveva lasciato e che si era lasciata, indicava la strada, era forse l’unico ponte percorribile verso un passato apparentemente dimenticato.

Con l’arrivo di una (tardiva) adolescenza e di storie più o meno “amorose” aveva avuto luogo ciò che Freud aveva chiamato Nachträglichkeit e a cui molti psicoanalisti si sono riferiti con il termine di après-coup, non già il diretto affiorare di ricordi traumatici relativi alla separazione piuttosto cruenta dei suoi genitori, ricordi per il momento ancora assenti in seduta, ma la possibilità di rappresentare anche in analisi attraverso il vettore musicale le emozioni e gli stati d’animo ad essa legata. La musica rap era il sentiero di briciole di sentimenti che Giada aveva lasciato dietro di sé lungo il cammino, ora questo sentiero poteva illuminarsi a mano a mano che lei entrava in contatto diretto con tutte quelle situazioni e quegli affetti che era così meticolosamente riuscita a rimuovere. Il testo delle liriche dei brani rap che ascoltava e che fino ad ora era rimasto, mi si passi il gioco di parole, latente poteva infine apparire per ciò che era: unitamente alla musica con cui costituiva un tutt’uno, aveva il ritmo incalzante di una raffica di parole pesanti come pietre, era l’urlo furente della protesta mai espressa dalla paziente contro i suoi genitori e contro la (loro/sua/di tutti) sessualità, ai suoi occhi causa di incomprensioni e infine tradimenti.

 

[1] Il ritmo è la dimensione fondante di molti canti di dolore e protesta come gli Spirituals e il Blues.

Specchi sonori: imitare per essere

Quello della musica è un vero e proprio richiamo per molti adolescenti, non solo per i motivi sopra descritti ma anche perché ogni preadolescente e ogni adolescente sono un po’ come “personaggi in cerca d’autore”, bisognosi di modelli forti con i quali potersi identificare nel tentativo di esorcizzare le angosce e le insicurezze insite nel processo di crescita.

Forse non tutti lo sanno, ma assai prima che nascessero fenomeni musicali planetari come i Beatles o Michael Jackson, anche Mozart e Paganini erano vere e proprie superstar che godevano di fama e di attenzioni non dissimili. «Nella stanza di Candy ci sono i poster dei suoi eroi alle pareti», perché ogni adolescente che si rispetti non può che contornarsi di immagini dei suoi idoli, che però a ben guardare sono anche specchi. Nelle immagini del proprio cantante preferito, chitarrista o batterista l’adolescente si proietta e insieme si rivede, si rispecchia, nel tentativo di identificarsi, poco importa se spesso questo porta a risultati grotteschi, fa niente! Il gioco vale la candela, impossibile resistere al potere ipnotico di musica e immagine insieme. Una rockstar non è quasi mai semplicemente un musicista con un messaggio da veicolare, ma è anche e soprattutto un’icona, cioè un’immagine a cui assomigliare (dal verbo gr. Εικέναι: “essere come”, “assomigliare”).

Eugenio Gaddini, psicoanalista italiano apprezzato anche all’estero, ha dedicato buona parte della propria ricerca alle modalità in cui si struttura l’attività psichica nei primissimi mesi di vita a partire dall’incontro con l’altro e con la realtà esterna, tra i suoi contributi fondamentali troviamo quelli che riguardano lo studio dei processi imitativi: «Si può definire l’imitazione come quel meccanismo dell’attività psicosensoriale mediante il quale il sé realizza una identità magica con l’oggetto» (Gaddini, 2002, 330). Qui Gaddini si sta riferendo alle primissime fasi dello sviluppo infantile in cui vi è un “imitare per essere” che si instaura non in presenza, ma in assenza dell’oggetto, al fine di colmarla. Per l’autore le immagini allucinatorie o proto-rappresentazioni che si vanno via via formando nella neonata psiche dell’infans e che secondo Freud andranno a costituire i primi mattoni di pensiero, non sarebbero altro che imitazioni, riproduzioni mentali della realtà. Gaddini rivendica in questo modo la centralità e il primato cronologico dell’imitazione sull’introiezione all’interno del più complesso processo di identificazione, tappa fondamentale nella formazione del sé infantile.

Secondo Edith Jacobson (1954) citata da Gaddini «durante il primo anno di vita, alle fantasie di fusione seguirebbero imitazioni “affetto-motorie reciproche” tra madre e bambino e queste sarebbero seguite da imitazioni delle espressioni emozionali genitoriali “indotte” dal bambino» (2002, 165). Ma c’è di più, nel suo “The Self and the Object World”, poche righe sopra quanto riportato da Gaddini, l’autrice scriveva: «Le osservazioni sui neonati lasciano pochi dubbi sul fatto che il bambino comincia molto presto a percepire, a rispondere e ad imitare i gesti, l’inflessione della voce e le altre manifestazioni affettive visibili e udibili della madre» (Jacobson, 1954, 100).

Trovo questo passaggio illuminante e centrale perché, oltre a parlare delle imitazioni affetto-motorie mutuamente intercorrenti nella coppia madre-bambino, introduce una dimensione a mio avviso fondamentale: quella sonora. Le primitive inflessioni della voce materna, che il neonato ha già imparato a riconoscere in utero, non hanno praticamente nulla a che fare con la lingua parlata – caratterizzata primariamente dalla semantica delle parole – ma sono invece vicine al registro musicale al quale afferiscono per melodia, ritmo e prosodia, andando a formare quell’arcaico grammelot a cui gli studiosi si riferiscono con il termine “motherese”: un insieme molto eterogeneo di versi ed espressioni onomatopeiche destinate a diventare il dialetto esclusivo della coppia madre-bambino.

Parte del processo imitativo a cui si riferiva Gaddini passerebbe dunque anche dal suono e dalla musica(lità), che anche in età adulta resteranno depositari della dimensione affettiva nella comunicazione verbale. Un altro aspetto a mio avviso interessante, confermato da Gaddini e Jacobson ma generalmente accettato dalla stragrande maggioranza degli psicoanalisti, è che meccanismi psicosensoriali come quello imitativo, benché poi gradualmente sostituiti nel corso dello sviluppo da un funzionamento più evoluto ed integrato, in realtà non abbandonerebbero mai completamente lo psichismo adulto.

Heroes

Anche solo per un giorno

In quell’enorme e labirintica area di transizione che è l’adolescenza, dentro la quale ogni giovane rischia di perdersi, tutte le precedenti acquisizioni vengono travolte dalla tumultuosa corrente del torrente pulsionale che rimette sistematicamente tutto in discussione. Per area di transizione, in accordo con M. La Scala (2012), intendo qui uno spazio non ancora pienamente transizionale nel senso winnicottiano del termine, ma più che altro «uno spazio di separazione sé/altro da sé, percorribile come luogo di contatto e distacco» (2012, 21).

Io me lo figuro un po’ così l’adolescente tipo: che ostenta sicumera a cavalcioni del suo malfermo gommone giallo mentre fa rafting strattonato di qua e di là da correnti di ogni tipo: sessuali, corporee, relazionali, sociali e chi più ne ha più ne metta. Niente di strano dunque se proprio nel bel mezzo di questa tempesta perfetta, una volta avvistato un appiglio sulla “riva”, il nostro adolescente lo punterà per cercare di raggiungerlo ad ogni costo, sospinto da un lato dalla musica(lità) di qualcosa che non deve suonargli molto diversamente da una sorta di canto delle sirene, e dall’altro da un insopprimibile bisogno di emulare ciò che ai suoi occhi pare, per le più svariate ragioni, epico ed eroico.

Apro solo una breve parentesi sull’ incerto etimo di “eroe” (ἥρως): in greco esso indicava con precisione la figura del semidio, una sorta di mezzosangue nato dall’incrocio tra una divinità ed un essere umano. Il problema – per così dire – però nasce dal fatto che linguisticamente parlando, tra le possibili radici da cui originerebbe il termine, nessuna sembra prevalere con certezza. Ad esempio Platone nel Cratilo faceva dire a Socrate, seppure in tono ironico, che l’assonanza tra eroe (ἥρως) ed eros (ἔρως) nasceva dal fatto che gli eroi non possono che suscitare il desiderio. Per i filologi invece la radice er (ἥρ) sarebbe ricollegabile a quella del sanscrito īr presente in vīra, eroe, da cui deriverebbe poi il latino vir, ovvero uomo nell’accezione di adulto (a differenza del più generico homo), persona matura, illustre, eroe, da cui provengono il sostantivo virilità e l’aggettivo virile in italiano.

 Sappiamo quanto furono importanti per Freud i miti che venivano tramandati nella Grecia antica, quel multiforme caleidoscopio di storie e situazioni nel quale il padre della psicoanalisi trovò motivo di ispirazione per poter raccontare i tumulti degli affetti e la forza dell’inconscio. Questi ultimi scorporati (rimossi?) dalla dimensione umana, proiettati e infine incarnati nel pantheon delle divinità dell’Olimpo potevano finalmente trovarvi rappresentazione senza incorrere in censure (come accade anche nelle fiabe), perché ciò che veniva narrato non era altro che il capriccio ed il volere degli dei, dei loro incontri e dei loro scontri con il mondo degli umani e non viceversa. Per questo trovo interessante la figura dell’eroe ellenistico: una chimera, per metà uomo e per metà divinità. In fondo non è così che si sente ogni adolescente mentre guarda i suoi eroi, cercando di “imparare a camminare come loro”[1]?

 

[1]Remember all the movies, Terry, we’d go see | Trying to learn how to walk like the heroes we thought we had to be”.

Bruce Springsteen & The E Street Band, “Backstreets” (1975):

https://www.youtube.com/watch?v=O_hZZQPukBc

Il Sogno Americano come speranza nel futuro

Ora pensiamo alla portata che devono avere avuto negli anni ‘60 fenomeni come quello dei Beatles o dei Rolling Stones per la stragrande maggioranza degli adolescenti di quegli anni, da un punto vista dell’impatto musicale e contemporaneamente della loro iconicità. La loro musica, insieme al loro look rappresentava qualcosa di mai sentito e mai visto, una placca tettonica culturalmente, socialmente e politicamente differente rispetto a quella della tradizione, un nuovo mondo!

Dall’attrito insostenibile tra queste due faglie si sprigionerà un’energia esplosiva destinata ad alimentare tutto il ’68, un terremoto che avrebbe davvero potuto demolire tutto ciò che c’era stato prima. Un ambizioso punto di rottura e di svolta insieme: “io voglio essere come loro!” sembra aver pensato ogni adolescente: imitare per essere dicevamo. Qualcuno potrebbe, anche a ragione, obiettare che l’arte in generale ha sempre avuto una funzione rivoluzionaria, agendo come una macchina del tempo in grado di importare nel presente, elementi che sembrano provenire dal futuro e che dunque ben si adattano alle esigenze dell’adolescente di rompere con il passato (nel quale era bambino) per poter diventare “grande”.

A proposito di viaggio nel tempo era il 9 settembre del 1956 quando un giovanotto dai capelli corvini impomatati entrò per la prima volta nei salotti buoni degli americani e in ogni locale pubblico dotato di un apparecchio televisivo, più o meno 54 milioni di persone. La trasmissione era l’arcinoto “Ed Sullivan Show” e il ragazzo in questione si chiamava Elvis Presley. Vestito in modo tutt’altro che estroso (giacca, pantalone largo e panciotto cangiante) in realtà a tutti parve un alieno che veniva dal futuro per come suonava, cantava e… per come si muoveva. I cameramen diventarono pazzi per cercare di rispettare le direttive ricevute e inquadrare il cantante con degli stretti primi piani, ma era praticamente impossibile. Elvis si muoveva e si dimenava come un ossesso (per i tempi) roteando il bacino con mosse che a molti parevano chiaramente allusive e che gli valsero il soprannome di “the pelvis”.

Per quell’epoca rappresentava il nuovo per antonomasia e inutile dire che in breve molti, se non tutti i giovani di quell’epoca presero a vestirsi, a pettinarsi e a muoversi come lui. Ma Elvis fu un modello anche per tutti quelli che cercarono di fare musica come lui e dopo di lui, la schiera, già di per sé bella lunga, comprende John Lennon, Bob Dylan e molti altri, ma è destinata ad allungarsi ulteriormente se si conta che godeva della stima di molti musicisti di colore viste le sue solide basi di gospel e blues[1]. Bruce Springsteen, che da bambino vide la sua apparizione all’Ed Sullivan Show restandone folgorato, ebbe poi a dire che la musica di Elvis aveva liberato il corpo di quella generazione di americani, almeno tanto quanto quella di Dylan ne aveva liberato la mente. Quanto appena detto ci porta verso l’ultimo argomento sul quale vorrei soffermarmi e forse quello maggiormente legato all’attualità.

 

[1] Ci sono molti documenti anche filmici sui primi anni di carriera di Elvis, ma consiglio a chiunque voglia farsi un’idea in merito di ascoltare le registrazioni di The Million Dollar Quartet. Il 4 dicembre del 1956 si trovarono per caso intorno a un pianoforte negli studi della Sun Records a Memphis Elvis Presley, Karl Perkins, Johnny Cash e Jerry Lee Lewis. Per fortuna il produttore Jack Clement ebbe la presenza di spirito di accendere i microfoni e registrare quella che di fatto è una delle jam session improvvisate più interessanti della musica di quegli anni.

Dematerializzazione del corpo e musica liquida

Il lockdown causato dall’epidemia del virus SARS-CoV-2 ha certamente avuto una profonda ripercussione sull’equilibrio psicofisico di ognuno di noi, ma molti studi hanno chiarito quanto questo impatto sia stato devastante per adolescenti e preadolescenti che hanno perduto qualunque contatto sociale proprio in un momento chiave della propria crescita e della propria trasformazione psichico-corporea.

Freud in L’Io e l’Es parla di come sia proprio il corpo il punto di partenza nella costruzione del senso d’identità psichica: «L’Io è innanzitutto un’entità corporea, non è soltanto un’entità superficiale, ma anche la proiezione di una superficie» (Freud, 1922, 488). Successivamente in una nota all’edizione inglese del 1927 dello stesso lavoro aggiunge: «L’Io è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo. Esso può dunque venire considerato come una proiezione psichica della superficie del corpo» (ibidem).

Negli ultimi decenni, con l’avvento della civiltà dell’immagine attuatasi prima attraverso la diffusione del mezzo televisivo e poi attraverso l’uso sempre più massiccio di computer, smartphone e tablet, abbiamo assistito a una progressiva ma inarrestabile sopraffazione del registro visivo su quello verbale e su quello uditivo/sonoro, causando una profonda modificazione nel delicato processo di crescita e soggettivazione dei giovani. Lungi dall’affermare che tutto ciò che sia successo sia solo “male”, ho espresso in un mio precedente lavoro alcune considerazioni al riguardo (Lombardo C., 2015).

Bollas (2018) definisce l’epoca attuale “l’età dello smarrimento” indicando qualcosa che è successo ad un livello profondo e che riguarda l’intera coscienza occidentale. Secondo il suo punto di vista, il mondo informatico e la realtà virtuale concentrati più sul mezzo della comunicazione che non sui contenuti, scoraggiano il desiderio di contatto con l’interiorità e la realtà psichica, la spinta verso la sua indagine e l’esplorazione verso la ricerca di significati.

Prescindendo dai punti di vista dei singoli autori, credo che alcuni aspetti del fenomeno siano trasversali e comuni: da un lato, dicevamo, la progressiva inflazione di medium e sussidi audiovisivi che favoriscono un certo tipo di inter-azione/rel-azione, la quale invece che ampliare e completare l’esperienza umana, troppo spesso ahimè finisce col surrogarla sostituendosi a essa; e dall’altro – collegato a quanto appena detto – un cambiamento nell’immagine corporea, vera per gli adulti ma ancor più vera per preadolescenti ed adolescenti con uno psiche-soma in formazione. Un corpo sempre più difficile da riuscire a sentire e ri-conoscere, teatro di disturbi alimentari e di genere, quadro di graffiti tra i più vari, dai tatuaggi ai tagli; un corpo protesizzato, cioè dotato di estensioni sempre più potenti (la più ovvia di queste è lo smartphone da cui oramai nessuno osa più separarsi); come pure un corpo denegato o rimosso, in un processo di ritorno e fusione ad una cyber-matrix[1] indifferenziata.

Una domanda che però mi sono posto segnatamente agli argomenti di cui stiamo parlando è: come sono cambiati l’ascolto e la fruizione della musica nei giovani e in special modo negli adolescenti in questi ultimi decenni? Per chi come me è cresciuto a cavallo degli anni 70 e 80 la musica ha significato cambiamenti importanti non solo nei contenuti, ma anche nei mezzi. Ricordo ancora la fono-valigia Philips da cui usciva la musica che i miei mettevano su durante qualche cena con gli amici, un giradischi il cui coperchio era costituito da due casse che si potevano staccare, poi svolgendo il filo di ognuna si allontanavano per ricreare il prezioso effetto stereo hi-fi! Ma non finiva qui, una volta richiuso il tutto, grazie ad una comoda maniglia era possibile trasportarlo ovunque.

Alla fono-valigia è seguito il cosiddetto mangiadischi (solo per vinili a 45 giri), un altro scatolotto dotato di una prodigiosa fenditura che ingoiava letteralmente i dischi trascinandoseli dentro. Poi è stata la volta delle audiocassette, il cui unico pregio era quello di non dover movimentare quintali di peso tra apparecchi e dischi, ma il cui contrappasso era un groviglio spesso inestricabile di nastro magnetico che si formava negli sfortunati casi di inceppamento. Poi durante i primi anni 80 arrivò la rivoluzione digitale sotto forma di un piccolo dischetto argentato che si sentiva come gli economici e gracchianti vinili consumer dei tempi non potevano sentirsi. Sembrava proprio essere arrivato il capolinea e invece… nel corso degli anni a venire con l’avvento di Internet e degli algoritmi di compressione sonora la musica si è fatta liquida[2].

Mi verrebbe da dire che la rivoluzione digitale ha portato in ambito musicale e in molti altri ambiti, dei cambiamenti drastici che hanno riguardato soprattutto l’aspetto materico, io direi proprio il corpo – inteso in senso psicoanalitico – tanto del soggetto, quanto dell’oggetto dell’esperienza, inclusa quella musicale. La progressiva dematerializzazione delle sorgenti sonore, ad esempio, ha permesso una fruizione infinitamente più capillare e mediamente migliore che in passato, rendendo disponibili praticamente ovunque e in qualunque situazione una libreria infinita di autori e generi musicali diversi utilizzando come terminale semplicemente uno smartphone, attualmente sempre più referente unico di ogni nostra comunicazione.

Negli anni 70 e 80 l’impianto Hi-Fi invece era motivo di dedizione e vanto tra adolescenti che ingaggiavano furibonde competizioni a suon di watt e decibel dal chiaro sapore di competizione fallica. Ora tutto ciò è completamente tramontato e persino la stereofonia che sembrava un punto fermo viene rimessa in discussione da orde di ragazzi e ragazze che sentono musica dal minuscolo altoparlante del proprio telefonino mentre stanno facendo qualunque cosa e in qualunque luogo.

Ancora una volta sottolineo che non sto affermando cosa sia meglio o peggio, intanto perché ognuno è libero di scegliere, e poi perché il mio interesse va all’osservazione dei cambiamenti verificatisi a livello tecnologico nell’arco degli ultimi decenni e ai mutamenti ad essi sottesi. Mi interrogo poi sul significato di questi cambiamenti e leggendoli da una prospettiva psicoanalitica mi pongo delle domande. Ad esempio, mi chiedo se è un caso che con la progressiva dematerializzazione dell’ascolto musicale sia nelle sorgenti che nei supporti, cioè venendo meno o rarefacendosi il corpo musicale – per così dire – sia cambiato (e in che modo) il piacere nell’ascolto della musica.

Questa rarefazione sta investendo come uno tsunami tutto il mondo dell’editoria, da quello letterario-giornalistico, a quello dei videogiochi, fino appunto alla musica, e dato che sempre più materiale viene prodotto per la sola fruizione in rete (questo KnotGarden non fa eccezione) e non stampato su carta o su qualsivoglia supporto, ciò pone dei problemi mai incontrati prima, anche di natura economica ed etica. Uno su tutti: come si può applicare il diritto d’autore a qualcosa di “intangibile”. Da psicoanalista non mi interessa troppo la questione economica in sé e per sé a meno che con questo non si intenda “economia psichica”. Come cambiano le leggi che regolano un’economia psichica che si attua in un mondo ormai estremamente virtualizzato e rarefatto nei suoi aspetti materici e corporei?

Ad esempio i luoghi che una volta rappresentavano “i templi” dell’editoria stanno gradualmente scomparendo: le librerie resistono ma non si sa ancora per quanto, quasi tutti i negozi che vendevano videogiochi non ci sono più e la stessa sorte sta toccando anche ai negozi di dischi. Questi ultimi erano dei luoghi del tutto speciali perché spesso gestiti da appassionati e permettevano di conoscere nuove tendenze musicali, gruppi emergenti che magari venivano da realtà lontanissime rispetto alla nostra, ma erano anche luoghi in cui si ascoltava la musica, si conoscevano persone che poi magari sarebbero diventati amici con cui andare insieme ai concerti.

C’era poi sempre anche una “bacheca di annunci” in cui oltre alla compravendita di dischi e apparecchi spesso si trovavano anche appelli di band che cercavano questo o quello strumentista con cui suonare. Dalla musica da ascoltare si poteva passare alla musica da fare. Non penso che ormai tutto ciò non accada più, ma solo che accada in modo diverso ed è estremamente importante che la psicoanalisi partecipi al dibattito ponendo e ponendosi delle domande sui cambiamenti in atto per meglio capire i giovani pazienti di oggi.

Concluderei con una “spigolatura”: il lockdown sopracitato avrebbe dovuto rappresentare, per logica e naturale evoluzione, il trionfo della dematerializzazione, compresa quella musicale. Impossibilitati a muoversi dalle proprie abitazioni giovani e adulti avrebbero potuto e forse dovuto gioire della possibilità di ascoltare musica digitale attraverso internet. Inspiegabilmente, o forse no, gli abbonamenti alle piattaforme di streaming musicali non sono aumentati secondo le aspettative, ciò che è aumentata in modo considerevole è invece la richiesta di dischi, in particolare dischi in vinile e di libri in formato cartaceo.

A questo riguardo mi viene da ricordare che tra i tanti lasciti di Freud c’è quello di avere occasionalmente – ma mai compiutamente – parlato di una pulsione parziale: Bemächtigungstrieb[3], una pulsione di origine non sessuale, capace però di unirsi a essa e così facendo di cooperare all’obbiettivo del soddisfacimento attraverso la appropriazione o impossessamento dell’oggetto. La prima volta che Freud ha utilizzato il termine è stato nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) in cui parlando della crudeltà infantile egli ne attribuisce la paternità proprio a questa pulsione, a causa della quale il bambino mirerebbe esclusivamente ad impossessarsi dell’oggetto del proprio desiderio senza tenere conto della possibile sofferenza a esso cagionata.

In questa fase della propria teorizzazione anziché meramente sadica, la pulsione di appropriazione sembra ancora relazionalmente orientata verso l’oggetto, seppure per fini egoistici. Successivamente, in Pulsioni e loro destini (1915) e ancor più in Al di là del principio di piacere (1920) con l’introduzione della pulsione di morte, Freud invece sposterà l’accento dal concetto di impossessamento a quello di distruzione, rendendo superflua una specifica pulsione di appropriazione; sarà invece la pulsione di morte stessa a potersi declinare in questa forma quando le circostanze la metteranno al servizio della pulsione sessuale.

Alla fine degli anni sessanta Laplanche e Pontalis ripresero in mano il concetto di pulsione di appropriazione per compilare la loro Enciclopedia della Psicoanalisi, seguiti poi da diversi altri autori della scuola francese fino ad arrivare a Paul Denis (1992, 1996), il quale farà dell’emprise[4] una delle due componenti fondamentali (formant) della pulsione stessa, senza la quale il soddisfacimento non potrebbe mai avere luogo. Come ricorda F. Munari nel suo lavoro L’emprise. L’azione necessaria (2014) questa pulsione può avvalersi dell’intero apparato di emprise, ovvero di tutto l’apparato muscolare compresi tutti gli organi di senso, al fine di impossessarsi dell’oggetto. Insomma senza la costituente fondamentale dell’emprise, l’altra costituente, la pulsione sessuale, non può essere indirizzata verso alcun soddisfacimento, reale mi verrebbe da aggiungere, intendendo con questo il punto d’incontro tra la realtà psichica interna del soggetto e la realtà esterna.

A mio avviso l’eclisse del corpo, che rappresenta una delle difese più usate dagli adolescenti di oggi contro l’angoscia causata dai propri cambiamenti corporei, può realizzarsi, ad esempio, attraverso una fuga nel cyberspace attuata a molti e differenti livelli. Ciò che va considerato in primis però è che questa fuga, paradossalmente, è resa possibile – oltre che dalla presenza di vie di fuga virtuali molto sofisticate – anche dalla presenza di un tessuto sociale ancora basato sulla presenza corporea di un Sé e di un altro da Sé da cui evadere o da cui difendersi.

Durante il lockdown questo tessuto si era già pesantemente sfilacciato e in assenza di questo sostrato la via di fuga virtuale aveva finito col perdere molta della sua ragion d’essere. Con una dolorosa dematerializzazione e virtualizzazione già in atto, molti hanno scelto di ri-cercare e ri-trovare l’oggetto perduto, di possederlo fisicamente per poterlo stringere tra le mani: leggendo libri cartacei, cimentandosi nella confezione di piatti mai cucinati prima e anche ascoltando musica da supporti fisici. Vecchi LP in vinile da mettere sul piatto del giradischi tenendone in mano la voluminosa copertina di cartone avvolti dalle note, e forse, così facendo, tornare a sognare una realtà in quel momento irraggiungibile.

Freud per primo ci ha mostrato come sia proprio il corpo il necessario punto di partenza dal quale – per proiezione – si formerà la psiche, all’interno della quale i sogni sono come azioni che il corpo, immerso nel sonno ristoratore, non può compiere realmente, pena la sua interruzione. Ecco perché il sogno è il primo importantissimo custode del sonno, ed ecco perché seppure ‘etereo’ esso non perderà mai completamente contatto con la realtà materica da cui ha avuto origine ed è stato intessuto, e senza la quale perderebbe ogni significato. Forse era questo che intendeva Shakespeare quando ne La tempesta faceva dire a Prospero «We are such stuff | As dreams are made on, and our little life | Is rounded with a sleep[5]» (Shakespeare W., La tempesta, Atto IV, Scena I).

Personalmente mi trovo d’accordo con Roberto Mussapi, poeta e drammaturgo, quando afferma che per lui l’inglese stuff anziché con “sostanza”, termine generico oltre che astratto, andrebbe tradotto con “stoffa”, da un inglese antico e ricercato come quello utilizzato dall’autore: «Noi siamo della stessa stoffa | di cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita | è circondata da un sonno»[6]. Ogni adolescente intesse i propri sogni a partire dai fili della sua realtà, questi andranno a formare la trama e l’ordito del proprio mondo interno e delle sue proiezioni fantastiche, in una sorta di processo circolare in cui ognuna di queste due istanze si nutre dell’altra:

If your heart is restless, I’ll move alone

If you’re tired and weary and you can’t go on

Well if a distant dream is calling you

Then there’s just one thing that you can doun Sé e di un altro

 

Yeah you gotta follow that dream wherever that dream may lead you

You gotta follow that dream to find the love you need

 

Now baby I walk in dreams, and I talk in dreams

I need someone with a love I can trust

And together we’ll search for the things that come to us

In dreams, baby in dreams

 

Yeah I’m gonna follow that dream wherever that dream may lead me

I’m gonna follow that dream to find the love I need

 

Now every man has the right to live

The right to a chance to give what he has to give

The right to fight for the things he believes

For the things that come to him in dreams

 

Baby in dreams, I walk in dreams

I talk in dreams, I live in dreams[7]

 

 — 

[1] Mi riferisco evidentemente anche al film Matrix del 1999 scritto e diretto dagli allora fratelli Wachowski, diventate ora sorelle Wachowski dopo avere completato il loro percorso di transizione di genere. Un altro film che si potrebbe citare al riguardo è il più recente Ex Machina del 2015, scritto e diretto da Alex Garland in cui più attualmente, e ahimè anche più verosimilmente, l’intelligenza artificiale è rappresentata dal più potente motore di ricerca sul web.

[2] Con il termine “musica liquida”, prevalentemente usato in lingua italiana, si intende tutta la musica in formato digitale, ovvero sotto forma di files musicali che possono essere riprodotti da computer, tablet e lettori hardware dedicati. Come indica il nome stesso i files in questione possono risiedere su periferiche di storage come hard disk o chiavette USB, ma possono anche essere “dematerializzati” e trovarsi nel cloud. Di fatto questo è ciò che accade quando si ascolta musica da piattaforme come Spotify, Qobuz o Tidal giusto per citare i più noti.

[3] Letteralmente “pulsione di possesso” o “di potere”.

[4] Questo il termine usato in lingua francese per tradurre l’originale tedesco Bemächtigungstrieb.

[5] Generalmente tradotto con «Noi siamo fatti | della stessa sostanza dei sogni e la nostra breve vita | è raccolta nello spazio e nel tempo d’un sogno».

[6] Roberto Mussapi  La trama e l’ordito dei sogni: siamo noi. 

[7] Nel 1980 durante il tour di The River Springsteen cominciò a suonare una versione di Follow that dream di Elvis Presley, pesantemente riarrangiata e in parte riscritta. Il sound pop di una delle canzoni meno significative di Elvis cedeva il passo a una sonorità molto più intima, in un pezzo ora reso scarno da un arrangiamento che poteva far ‘sentire’ il vivere e il sognare come due facce della stessa medaglia, ognuna assolutamente necessaria all’altra. Una take di questo pezzo, in versione acustica, registrata nella propria casa, verrà inclusa nella cassetta contenente le demo da cui poi nascerà Nebraska.

Bruce Springsteen & The E Street Band, “Follow That Dream”, Live – June 5, 1981 London, UK: 

Bibliografia

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Cristiano Lombardo, Conegliano e Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

cristiano.iphone@gmail.com

*Per citare questo articolo:

Lombardo C., (2024) “In principio era…la musica”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p.114-134

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