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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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La fantasia di auto-generazione tra diniego, illusione, speranza

di Lorena Preta

(Roma), Psicoanalista Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Psicoanalitico di Roma.

Una persona è in verità simile a un ammasso di stelle che, visto a occhio nudo, sembra un’unica stella ma che, scrutato al telescopio della psicologia scientifica, si scopre, da un lato essere multiplo al proprio interno e, dall’altro, non avere nessuna assoluta demarcazione rispetto a una vicina condensazione.

Charles S. Pierce

 

 

Riferendomi all’invito a riflettere sui tre enunciati proposti, Diniego-Illusione-Speranza vorrei mettere in evidenza soprattutto il loro collegamento considerandoli una sorta di “ghirlanda’’ adatta a descrivere una connessione non lineare ma sicuramente conseguenziale.

Come se rappresentassero una catena dal punto di vista del disagio sociale attuale che è l’angolatura del discorso da me scelta, dove però ciascuno degli elementi considerati funge da richiamo e da specchio dell’altro.

Mi sembra in sostanza che l’argomento del Colloquio sia un invito a considerare la complessità e la pluriformità che caratterizzano più che mai in questo momento i fenomeni psichici e culturali e quindi sociali ai quali stiamo assistendo.

Partirò da una situazione clinica individuale ma con agganci particolarmente significativi al substrato culturale.

 

Collassi spazio-temporali

Un paziente di grande sensibilità da pochi mesi in analisi, con una storia di vita molto piena, preso dall’elaborazione faticosa di un lutto famigliare, mi racconta all’inizio dei nostri incontri un po’ sommariamente la sua storia.

Arrivato da un paese non europeo moltissimi anni fa ancora bambino, si è trapiantato con tutta la sua famiglia in Italia, ha formato prestissimo una propria famiglia, ha lavorato da sempre qui e con successo. Sembra però dal racconto che la sua cultura araba, se non per qualche tratto caratteriale, non fosse stata da lui e da nessun altro mai considerata come una radice.

Il complesso delle sue caratteristiche psichiche e culturali è sempre stato vissuto da lui e dall’ambiente intorno, come appartenente alla sua vicenda di vita dal momento dell’arrivo in Italia in poi.

Nessuna delle sue scelte, dei suoi comportamenti, ma anche delle sue predilezioni affettive, delle sue soluzioni creative lavorative o sentimentali, sembra essere per lui collegata alla percezione della provenienza diversa che lo contraddistingue.

Molto precocemente un vero e proprio insight in analisi lo mette in collegamento non tanto con le caratteristiche proprie della sua cultura di origine, quanto con la consapevolezza di essere una persona che ha un ‘altrove’ alle spalle, in sostanza una persona in qualche modo in ‘esilio’.

Un ‘diniego’ fin qui? ‘l’illusione’ di un’appartenenza che pure dev’essere stata all’inizio caratterizzata da un adeguamento forzoso, forse traumatico, ma portatore di una ‘speranza’ di felicità e di riconoscimento da parte della nuova comunità a cui aspirava?

Eppure nel travaglio conseguente al lutto che l’ha colpito è come se improvvisamente il buco nero formatosi in seguito alla sparizione della persona alla quale era legato, avesse messo in luce tutto il pieno di materia che vi era contenuto. Una materia variegata, fatta di scorie del passato più remoto, di ibridazioni del presente anche più attuale, di fantasie sul futuro.

Questo turbinio non aveva lasciato spazio fin lì al sentimento di ‘perdita’ rispetto alla sua provenienza, eppure improvvisamente in seduta e da lì in poi, compare la sensazione che questo fosse proprio il lutto che era venuto ad incontrare in analisi.

Come se fino ad allora avesse pensato che la sua storia fosse iniziata dal punto in cui la necessità della convivenza e dell’accettazione da parte degli altri avesse forgiato il suo essere, abitante di un nuovo mondo che non aveva memoria del vecchio.

Si può pensare che la soluzione del trapianto culturale adottata dal paziente, fin qui ben riuscita, sia stata costituita dall’intreccio variegato delle istanze sopra descritte, diniego, illusione, speranza.

Non vorrei invece esaminare questo caso dal punto di vista della complessa tematica delle migrazioni che, quando vista nei suoi aspetti più drammatici, sappiamo bene quanto, al contrario, sia caratterizzata da una impossibilità di collocazione e piuttosto da una “dislocazione”.

Ho voluto piuttosto accennare a questa vicenda analitica, per mettere in rilievo come a volte i tre concetti chiave siano non solo intrecciati ma indispensabili l’uno all’altro nella loro interconnessione e costituiscano un ‘movimento alternante’ che a volte ne descrive la possibile progressione a volte la radicale discontinuità fatta di rovesciamenti e capovolgimenti.

Da questo punto di vista il diniego diventerebbe essenziale per costruire un terreno ‘funzionalmente’ vergine dove trapiantare l’illusione di poter costruire un ponte tra mondo interno e realtà esterna, tra passato e futuro.

 

Vortici temporali

Succede così che in alcune vicende, soprattutto se caratterizzate da un percorso conflittuale e drammatico, il legame con il proprio passato a volte in maniera rivoluzionaria, venga a capovolgere il destino dell’Angelus Novus descritto da Benjamin a proposito dell’opera di Paul Klee e consenta una ‘torsione della vista’ dai resti del passato ad uno sguardo anticipatore proiettato verso il futuro.

Si genera così un ‘vortice temporale’ che possiamo anche considerare come una caratteristica del tempo attuale:

 

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L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta (Benjamin, 1962, 76).

 

Possiamo anche dire che ciò che chiamiamo speranza e quindi proiezione nel futuro sia costituito da questo turbine.

Si tratta di una temporalità che forse solo nella psiche può essere rappresentata e forse solo nella vicenda analitica può essere vissuta pienamente.

Nel tipo di società e di cultura attuali anzi nelle culture attuali, sembra che stiamo assistendo parallelamente ad un collasso di tempi e spazi interni.

In questo senso la metafora del buco nero che inghiotte i materiali che si presentano sulla scena appiattendoli fino ad annullarne apparentemente la sostanza, riflette la difficoltà di articolare una visione plurima e stratificata e soprattutto dinamica degli accadimenti psichici in relazione a quelli culturali e sociali.

 

Una realtà virale

Come affrontare dunque questa particolare dimensione del tempo e della storia e in sostanza della realtà? Possiamo in una società come quella attuale dominata dall’azione sempre più compulsiva, garantirci uno spazio non appiattito sul reale?

La realtà sembra imporsi con la sua evidenza e la sua urgenza non lasciando o quasi, spazi critici; e soprattutto sembra non esistere alcuna percezione del collegamento col mondo fantasmatico sottostante.

L’esistenza dell’inconscio e delle sue espressioni viene per lo più negata o non considerata come la fonte originaria delle manifestazioni individuali e culturali che con tanta virulenza si affacciano sulla scena chiedendo un’immediata soluzione, cioè un’azione nel reale.

Eppure da un certo punto di vista potrebbe sembrare che ci sia al contrario un “eccesso di rappresentazione” collegato alla miriade di immagini che invadono continuamente lo spazio mentale e quello sociale ma queste, slegate dal necessario processo di simbolizzazione che sembra invece carente, rimangono come dei gusci vuoti che si moltiplicano in maniera virale senza produrre altro che cloni di sé stesse.

Una saturazione del campo che impedisce un pensiero critico che avrebbe invece bisogno di pause, faglie, disarticolazioni della scena reale.      

Si possono attivare stati persecutori della mente, oppure vissuti megalomanici e onnipotenti che hanno l’effetto di allontanare la possibilità di un’elaborazione dell’esperienza.

Oppure, fenomeno evidente e tra i più preoccupanti al momento, possiamo banalizzare il cambiamento dandolo per scontato senza nessuna “problematizzazione” alimentando in questo modo un pensiero conformistico e acritico.

In contrappunto a questa che può sembrare una visione catastrofista della realtà, bisogna però tenere presente che, quando ci si trova di fronte a qualcosa di sconosciuto o ad un cambiamento di paradigma prevalgono l’allarme e l’angoscia e uno dei meccanismi di difesa consiste spesso nell’incapacità di cogliere le trasformazioni o, peggio ancora, di demonizzarle prima ancora di averle decifrate.

 

L’immaginario sociale

A volte all’esterno, nel mondo della cultura o dei mass media, sembra necessario segnalare quello che dovrebbe essere un dato acquisito, cioè che la realtà è sia psichica che culturale e sociale allo stesso tempo e che nessuna delle immagini che incontriamo può essere scollegata dalla sua origine inconscia a livello individuale. Questa a sua volta attinge ad un immaginario collettivo anzi un “immaginario sociale” usando la definizione di Cornelius Castoriadis (1998).

Una corrente senza fine di significazioni e passioni, un nucleo produttivo che consente agli individui di trasmettere e creare continuamente il tessuto sociale. L’insieme delle rappresentazioni, pulsioni e desideri attraverso i quali vengono costituiti e riprodotti il sé e la società.

Un flusso rappresentativo libero e defunzionalizzato cioè fuori da ogni logica finalistica Una stretta connessione “produttiva’ tra l’inconscio individuale e quello sociale.

Come arrivare ad enucleare da questa composizione plurima e in divenire, le immagini culturali e sociali che occupano il tempo attuale? cioè le forme simboliche contenute nelle narrazioni che più o meno nascostamente abitano al presente l’immaginario sociale e ricoprono la funzione stessa dei miti?

André Green definiva il mito come un “oggetto transizionale collettivo”. Si tratterebbe dell’equivalente collettivo della funzione strutturante dell’Illusione, in quanto avrebbe il compito di costituire il legame sociale tra realtà soggettiva e realtà esterna e godrebbe del consenso comune costituendo così un riferimento culturale e sociale per l’epoca di appartenenza.

 

Il mito, come il gioco per il bambino, si situa all’intersezione: appartiene in parte alla realtà psichica per le relazioni che intrattiene col sogno, il fantasma e le altre formazioni dell’inconscio individuale; si riaggancia in maniera evidente alla realtà esteriore, per le sue intersezioni con la realtà sociale e per il consenso di cui è oggetto […] spazio transizionale collettivo creatore d’un tipo particolare di oggetto obbediente a un pensiero paradossale dove si materializzano gli effetti del giudizio sospensivo: un mito è e non è reale (1998, 168-169).

 

I fantasmi originari

Senza dubbio il mito che sta alla base di tutte le culture del mondo è quello legato al tema delle origini, pure se rappresentato in maniere totalmente diverse.

Si tratta di un pensiero di fondo che con la sua persistenza e insistenza va a formare quelli che Freud individuerà come i “fantasmi originari”.

Questi però sappiamo vanno distinti dai “fantasmi delle origini” che rimandano alle teorie sessuali infantili e al romanzo familiare.

Green in opposizione a questi, infatti, definirà i fantasmi originari come degli “schemi primordiali” (1991) che corrisponderebbero all’incontro tra configurazioni percettive ed esperienza individuale (interessante sarebbe un confronto con le pre-concezioni di Bion).

Non sarebbero ‘contenuti’ ma ‘mediatori’ come li definiva Green, arrivando a dire che l’unico originario che esiste è una “convenzione” utile a fissare un confine arbitrario alla teoria per ottemperare a motivi pratici.

Resterebbe quindi la spinta euristica che porta a comporre queste formazioni immaginarie e la sua fondamentale funzione di costruzione dell’‘architettura sociale’.

Potremmo supporre che esistano delle “fantasie” più propriamente che non dei fantasmi, che occupano lo spazio mentale dell’individuo e stabiliscono le espressioni che emergono nella cultura sociale.

A volte non sono affatto esplicite ma determinano le scelte di pensiero e di azione in molti campi, compreso quello scientifico.

Gerald Holton li definiva “themata” (1992) e faceva l’esempio pregnante di Galileo che persino nel momento di innovazione più clamorosa come quella che lo aveva portato ad osservare e a concludere che la superficie lunare fosse sconnessa e frastagliata e non quella superficie sferica perfetta e levigata che si pensava prima delle sue osservazioni, trovava impossibile accettare l’idea del movimento ellittico dei pianeti sostenuta parallelamente da Keplero, perché assolutamente discordante con la sua idea ‘estetica’ che il cerchio fosse la figura perfetta e dominante.

Il suo themata rappresentava infatti una tale profonda e inamovibile convinzione che non gli era possibile accedere ad un pensiero che la mettesse in crisi disdicendola.

Quello era il themata, la fantasia scientifica, artistica, religiosa prevalente per lo scienziato e per l’epoca.

 

La fantasia di autogenerazione

In uno dei suoi ultimi libri Roberto Calasso usa un inquietante esergo che dà il titolo al libro, L’innominabile attuale (2017).

 

“La sensazione più precisa e più acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere dove ogni giorno sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee si sdoppiano, i tessuti si sfilacciano, le prospettive oscillano. Allora si avverte con maggiore evidenza che ci si trova nell’“innominabile attuale””.

 

Come possiamo “riconoscere” o nominare questo innominabile ed entrare in contatto con questa esperienza dislocante e indicibile? Possiamo capire qual’é l’immagine o una delle immagini che la sorreggono?

Certamente più la fantasia sottesa è profonda, vivida e rappresentativa di un processo di cambiamento o è ancorata come abbiamo visto, al tema fondativo delle origini, più risulta difficile che emerga esplicitamente, ma il suo diniego in realtà alimenta proprio la sua “pervasività”.

Come ricordavo nel dialogo-intervista con Silvia Mondini in preparazione del Colloquio, già molti anni fa per l’esattezza 24 anni fa, in un libro che raccoglieva le relazioni di un Convegno su Psicoanalisi e Bioetica, intitolato Nuove geometrie della mente (1999)[1] insieme a molti psicoanalisti e filosofi bioetici, ci ponevamo il problema degli effetti dell’introduzione delle biotecnologie nella vita contemporanea denunciandone la novità e lo sconcerto collegati.

Era evidente che ci trovavamo di fronte ad un’esperienza “perturbante” dove i confini estraneo-familiare risultavano sempre più confusi anche se in realtà immagini di questa natura occupano da sempre la nostra mente popolata da ibridi, incesti, accoppiamenti dei più inusuali.

Eppure era già chiaro allora che nell’epoca attuale il grande salto fosse dato dalla possibilità di tradurre queste fantasie in realtà.

Una possibilità quasi immediata, che rende ogni fantasia attuata senza neppure essere stabilmente contenuta nella psiche.

Non ci sono “parcheggi” dicevo, dove collocare questi fantasmi e aspettare che vengano affrontati in un percorso di crescita. Non “iniziazioni” che rendano significativo il passaggio dal mondo magico-onnipotente dell’infanzia a quello necessariamente frustrante della realtà.

E riferendomi in particolare alla cultura cyborg che si andava allora consolidando, citavo la filosofa femminista Donna Haraway, che nel suo Manifesto cyborg (2018) si augurava un mondo dominato da corpi assemblati con le macchine ma soprattutto si riferiva a due miti occidentali delle origini tra loro contrastanti.

Quello della “rinascita” e quello della “rigenerazione”  augurandosi che sposassimo quest’ultima dominata dall’immagine della salamandra che una volta che un suo arto o una sua parte è soppressa la rigenera senza bisogno di una nuova nascita né della riproduzione sessuata.

Una «fantasia di autogenerazione» quindi che riporterebbe l’individuo in uno stato precedente la percezione e la consapevolezza dell’alterità, nell’illusione di un’autosufficienza che annullerebbe e renderebbe superflua ogni diversità e ogni combinazione con l’altro da sé. Quindi naturalmente ogni idea di coppia genitoriale.

Questa fantasia si basa proprio sul diniego delle origini e in questo modo viene esaltato il narcisismo primario che tende ad un annullamento delle tensioni proprie alle pulsioni e ai desideri; viene evitato l’avvenimento psichico progressivo della separazione, e della differenza; negata la differenza dei sessi e delle generazioni.

Racamier nella sua ancora attualissima analisi di quello che definiva l’Antedipo, cioè “quella costellazione originale e specifica che viene a porsi sia come strada d’ingresso, sia come barriera difensiva all’interno del conflitto edipico /… / trama che organizza in seno alla nostra anima il senso delle origini” (1993, 133), concludeva che quando questa vicenda psichica non viene risolta ma solo ostacolata “Il narcisismo, gonfiato di diniego, viene riempito di vuoto” (ibidem, 148).

 

Umano non umano

Freud nel Disagio della civiltà (1929) parlava de “Il dio protesi” interrogandosi già allora sull’uso onnipotente che l’uomo moderno faceva degli oggetti-protesi rendendoli degli idoli.

Quando molti anni fa iniziarono a diffondersi i giochi e i film sui cosiddetti “Transformers”, montaggi e smontaggi di esseri meccanici o trasformazioni del corpo in corpi -macchine, sembrava di trovarsi di fronte a dei rituali che rappresentavano la “frantumazione” e la “parzialità”, simulacri di un’interezza psichica che si stava in parte sgretolando.

Oggi non si tratta più solo di questo ma addirittura dell’’’annullamento” del corpo nel cyberspazio in vista però della conservazione della mente.

 Una mente che può sopravvivere senza il corpo, come pura informazione.[2]

 

Silvia Mondini si chiedeva e mi chiedeva quale era il percorso dalle Nuove geometrie della mente e dai vari numeri di Psiche che si sono occupati di questi temi fino ad oggi. Qualcosa era cambiato e come?

Penso che da allora le problematiche siano rimaste in qualche modo le stesse ma solo più urgenti, più violentemente portate sulla scena.

Credo che la fantasia di autogenerazione occupi ancora lo spazio e stia senz’altro prendendo il sopravvento diventando il motore di quasi tutti i comportamenti e i disagi che incontriamo, ma mi verrebbe da aggiungere correlata a questa e con la stessa potenza, una “fantasia di eternità” basata soprattutto sulla negazione della morte e del senso del limite.

Pure lei come l’interrogativo sulle origini è presente da sempre nella nostra psiche, nelle culture tutte, nelle produzioni artistiche, nelle religioni, ma mentre la fantasia di autogenerazione ancora si muove nella costellazione del diniego e dell’illusione e trova il suo cimento soprattutto sul piano delle applicazioni biotecnologiche, quella dell’eternità sembra rinnegare il corpo, intrappolarlo nella Rete dove c’è il massimo del contatto e della presenza e il massimo della distanza allo stesso tempo, e sembra rischiare di perderlo in un flusso costante di informazioni che si autoriproducono all’infinito.

Si attiva così un ‘campo allucinatorio’ dove le presenze delle nostre estensioni protesiche, le alterità imprevedibili delle IA ci confrontano con dei “nuclei di non umanità” che solo le nostre parti psicotiche riescono a concepire e sperimentare.

Possiamo definirle non umane per questo, perchè non sono state lavorate nello psichico come le consuete esperienze, ma è importante riconoscerne sia la radicale alterità che l’appartenenza alle produzioni dell’immaginario sociale.

E costituiscono in fondo l’irrinunciabile materia del nostro stesso pensare e creare, la sostanza delle forme di vita nella loro varietà sempre alterate e deformate dalle “trasformazioni” continue che subiscono.

Possiamo dire che su tutte le fantasie più o meno nascoste, su tutti i themata impliciti, domini la nostra nuova e sempre più vincolante esperienza delle “mutazioni” sia immaginarie che possibili.

Per quanto riguarda più strettamente la vicenda psicoanalitica, potremmo ipotizzare che sia proprio l’incremento di senso generato dalle trasformazioni che si producono nel campo a creare una vera e propria “morfogenesi” capace di dar luogo a delle formazioni originali e quindi a quei cambiamenti che spesso è difficile registrare psichicamente.

Inoltre quanto siamo preparati a percepirle anche nella realtà?

Dovrebbero essere il frutto di una conoscenza collettiva che comunque sperimenta le incessanti trasformazioni che subisce ogni essere vivente nel suo tragitto di vita/morte come pure la materia tutta dell’universo, essendo proprio questa la caratteristica umana e anche quella cosmica (Brian Green, 2023).

Nella ricostruzione che Anna Cordioli (2023) fa del percorso artistico ed umano di David Bowie, l’artista che ha operato nella sua carriera continue trasformazioni impersonando identità diverse fino alla morte, è possibile, non solo in senso figurato, seguire il tragitto della nascita di una stella, fino alla  sua estinzione: “Lo insegnano le stelle: senza combustione, ovvero senza trasformazioni di stato non si brilla ma ancora peggio non si è…una stella muore perché si è trasformata tutto il suo tempo”.

 Il problema è che questa condizione umana e universale costituisce un “conosciuto non pensato” e quasi mai problematizzato e lavorato psichicamente e per questo suscettibile di precipitare nell’azione o nell’idealizzazione.

 

In conclusione, come è rappresentabile per noi oggi l’idea di umanità?

Arriveremo ad un punto in cui sapremo ancora definire cosa significa “essere umani” e magari sfuggendo le “seduzioni” della trasformazione reiterata e infinita, “innamorarci” di nuovo della nostra umanità, per come l’abbiamo conosciuta fin qui?

Possiamo ancora pensare che abbia senso e ci sia ancora consentito quel ‘lavoro della cultura’, che rende possibile la composizione integrativa delle differenti e contrastanti spinte pulsionali?

 

 

—–

[1] Traggo una parte del discorso seguente dalla mia Introduzione L’esperienza delperturbante” nell’impatto con le biotecnologie, ivi, pag.5/20.

[2] Vedi l’impressionante filmato della BBC sul “Transumanesimo”, la teoria che auspica il superamento del corpo-carne e la preservazione della mente che sarebbe trasferita nell’icluod e sopravviverebbe solo come l’insieme dei “data “che la caratterizzano.
https://youtu.be/qOcktbXSfxU?si=bFxOI1egkezOujRF

 

Bibliografia

Benjamin W. (1955). Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962.

Castoriadis C. (1998). L’istituzione immaginaria della società, Torino, Bollati Boringhieri.

Calasso R. (2017). L’innominabile attuale, Milano, Adelphi.

Cordioli A. (2023). Come muore una stella? David Bowie e la morte di Ziggy Stardust. https://www.centrovenetodipsicoanalisi.it/come-muore-una-stella/

Freud S. (1929). Il disagio della civiltà, O.S.F., 10.

Green A. L’originario nella psicoanalisi. In Preta L. (a cura di), La narrazione delle origini. Bari, Laterza, 1991.

Green A. (1992). La deliaison. Paris, Hachette Littérature.

Greene B. (2023). Fino alla fine del tempo. In Preta L. (a cura di) Still Life. Ai confini tra il vivere e il morire. Milano, Mimesis, 2023.

Haraway D. (1985). Manifesto Cyborg. Donne, Tecnologie e Biopolitiche del corpo. Milano, Feltrinelli, 2018.

  1. Holton (1992). L’immaginazione nella scienza. In Preta L. (a cura di) Immagini e metafore della scienza. Bari, Laterza, 1992.

Preta L. (a cura di) (1999). Nuove Geometrie della mente. Psicoanalisi e bioetica, Bari, Laterza.

Racamier P. C. (1992). Il genio delle origini, Milano, Raffaello Cortina. 1993.

Lorena Preta, Roma

Centro psicoanalitico di Roma

lorenapreta19@gmail.com

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