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Come muore una stella?

David Bowie e la morte di Ziggy Stardust

di Anna Cordioli

Ch-ch-Changes
Just gonna have to be a different man
Time may change me
But I can’t trace time

( David Bowie, 1971)

«Gli elementi (l’Essere) non si creano e non si distruggono, ma soltanto si trasformano» diceva Empedocle già nel V secolo avanti Cristo.

Toccò a Lavoisier nel 1748 dimostrare che in effetti, nelle reazioni chimiche, la massa dei reagenti non viene perduta anche se lo stato della materia cambia radicalmente durante le trasformazioni.

 

Che tu sia un po’ di sale che si scioglie in acqua o che tu sia una stella che brucia nell’iperspazio, sarai soggetto al cambiamento in “altro da te” e, sì, ad un certo punto la trasformazione comporterà anche un cambio di forma radicale di ciò che sei, fino all’attimo in cui non potrai più dire “IO”.

Questo processo di continui mutamenti che accompagnano la vita fino al suo termine spaventa così tanto l’individuo che l’io se ne deve difendere. La morte, che è per l’essere vivente la più radicale delle trasformazioni, viene spesso tenuta in un angolo della mente, fino al momento in cui non sia infine necessario averci a che fare.

“La morte non è una eccezione, non è una eventualità, è la linea che segna il limite dell’orizzonte individuale. […] Ma perché crescere, svilupparsi, fare fatica, se poi si muore?” (Ambrosiano L, 2016, p.8).

 

La nostra natura mortale è il più irrimediabile degli insulti narcisistici ed evoca, specularmente, risposte altrettanto narcisistiche: onnipotenza, convinzioni di invulnerabilità, illusione di non invecchiare, pensiero magico, congelamento di ogni umana trasformazione, e così via.

Queste illusioni di poter vincere contro la morte sono talvolta così investite libidicamente che talune persone rifiutano in ogni modo di crescere, di accostarsi ai mutamenti della vita, pur di non avvicinarsi di un passo alla morte.  Come dice Freud nel 1927 le illusioni, però, non sono menzogne o deliri ma ci parlano di bisogni, “della ricerca di una protezione dinnanzi alla realtà che non possiamo guardare troppo da vicino” (Ambrosiano L., 2016, p.9).

Ogni difesa dalla morte è, a qualche livello, un dialogo con essa. La domanda è se si potrà anche vivere nel mezzo.

 

Come scrive Valdrè in “La morte dentro la vita” (2016) tocca guardare agli artisti per vedere come il dialogo tra la capacità di intuire la morte e l’uso di difese alte (ma crudeli) come la sublimazione intessa tutta la creazione di un’opera. L’artista si avvicina e si allontana di continuo dalla propria angoscia, mai del tutto immobile, mai del tutto vinto da un’illusione.

Il materiale interno cerca una nuova forma, ogni tanto la trova, talvolta no, ed ogni forma nuova è un impasto unico di vita e di morte.

 

Ce lo insegnano le stelle: senza combustione, ovvero senza trasformazioni di stato, non si brilla, ma ancora peggio non si è.

Come muore dunque una stella?

Una stella muore perché si è trasformata per tutto il suo tempo: non ha lesinato di lavorare, di mutare i propri composti in altro, di offrire tutto intorno la luce della propria attività.

Una stella è tale perché è stata ciò che è ogni momento possibile della sua esistenza.

The fall of Stardust

 

Ziggy era nato nel 1972. Era l’alieno figlio delle stelle che era arrivato sulla terra per avvisare che il mondo stava per finire. Offriva agli uomini Rock ‘n’ roll, l’illusione di un ultimo amore ancora possibile e una sessualità sgargiante come difese per poter comunque continuare a vivere.

Quell’anno era stato una cavalcata di successi planetari: in brevissimo tempo non c’era posto del pianeta blu in cui non risuonasse la musica di Ziggy.

Il suo aspetto, la sua coreografica vitalità e la compostezza con cui trasgrediva erano catalizzatori del sentire di una intera generazione. Ziggy era ben presto diventato “necessario” per poter esprimere lo spirito del tempo. Ma “quel” tempo era il 1972-73 o era più in generale il tempo della giovinezza ?

 

Quanto sarebbe durata quella festa? Cinque anni – come preannunciava in una canzone?

Dopo poco l’arrivo di Ziggy nessuno si chiedeva più quanto lunga sarebbe stata la sua vita.

Nessuno, tranne David Bowie.

 

Bowie sentiva che la sua opera poteva avere il potere di intrappolarlo.

Anni dopo raccontò: “È stato facile diventare ossessionato notte e giorno dal personaggio. Sono diventato Ziggy Stardust. David Bowie è uscito completamente dalla finestra. Tutti mi convincevano di essere un messia… Mi sono perso irrimediabilmente nella fantasia” (In Greene A., 2016).

 

Mentre tutti avrebbero voluto che Ziggy vivesse sempre e per sempre – violando ogni limite e annientando, con la sua natura divina, il messaggio di finitezza che era venuto a portare – Bowie cominciava già a sentire necessario andare oltre Ziggy.

Anche perchè il costo dell’identidicazione col personaggio stava diventando troppo alto.

 “Tutta la mia personalità ne ha risentito…  Ripensandoci è stato molto assurdo. È diventato molto pericoloso. Avevo davvero dei dubbi sulla mia sanità mentale” (Bowie D. In Jones A., 1977).

Nell’aprile del 1973, mentre ancora si esibiva come Ziggy, Bowie uscì con un Album che già dalla copertina annunciava che la trasformazione dell’artista non si era arrestata: era nato un nuovo peronaggio.

Aladdin sane”, il settimo album di Bowie, nasce da un gioco di parole “A lad insane“, un ragazzo pazzo. L’immagine è il famoso ritratto del viso di Bowie attraversato da una saetta rossa e blu. Una frattura al centro dell’esistenza. Aladdin cantava di spaccature e di contrasti, aveva una sua poetica musicale, sempre rock, ma già più contaminata. Il pubblico quasi non si accorse del suo arrivo, ma stava già cantando le sue canzoni.

Non mi soffermerò a parlare del disco e della quota sperimentale e scissa dei brani in esso contenuti, ma vorrei sottolineare che, per tutta la primavera 1973, Bowie conviveva, all’insaputa di tutti, con due eteronimi e con la certezza che Ziggy sarebbe dovuto uscire di scena prima o poi.

 

E così fu.

Il 3 luglio 1973, all’Hammersmith Odeon di Londra c’erano 3.500 fan in delirio per il concerto finale del tour. Ziggy fu epico. Ogni interpretazione meritava l’estasi della folla. Il regista D.A. Pennebaker aveva ottenuto di documentare ogni istante del concerto e del backstage. Quasi tutto di quella sera sarebbe rimasto nella storia.

Jeff Beck era salito sul palco con la band per fare una serie di cover. Ziggy fece la terz’ultima canzone in scaletta. 

Aveva scelto di eseguire la cover di “Love me do” dei Beatles. Quella era stata la Hit d’esordio dei ragazzi di Liverpool, l’inizio di un successo planetario che loro stessi avevano deciso di troncare dopo solo 8 anni di carriera, nel 1970.

Non sono molti gli artisti che hanno saputo trasformarsi radicalmente proprio arrivati all’apice del successo e forse David aveva bisogno di compagnia. 

Fece una penultima cover di Chuck Berry dal titolo “Around and around” e poi chiese un minuto per parlare. 

L’energia era al massimo, come all’apice di una messa Gospel. Ziggy invece era col fiatone ma calmo.

Ringraziò la band, i tecnici, i fans e poi lo disse:

“Questo è stato il più lungo tour della nostra vita. Alla fine di questo show, di questo specifico show, ce lo ricorderemo più a lungo degli altri, non solo perché è l’ultimo di questo tour ma anche perché è l’ultimo, non ne faremo mai più”.

Con poche parole, senza alcun melodramma, Ziggy annunciava al mondo che di lì a poco – alla fine di un’ultima splendida canzone – non sarebbe più stato tra di noi sulla terra.

 

Il pubblico, preso di sorpresa, gridò di sconforto; i membri della band, anche loro ignari che la fine era arrivata, si guardavano chiedendosi se quello fosse una mossa pubblicitaria: Bowie non ne aveva parlato con nessuno.

Ziggy si mise in postazione e iniziò a cantare “Rock n roll Suicide 

 

 

Ziggy stava morendo davvero? Era una morte rituale? Era una sublimazione del suicidio? Era un calcolato colpo di scena? Cosa stava succedendo in quel momento, Durante quel concerto?

 

David Bowie, il polimorfo artista dell’identità, celebrava la morte del messia del Rock, tendendosi verso il suo pubblico in delirio e cantando “Dammi le tue mani perché sei meraviglioso! Accenditi con me! Non sei solo! No non sei solo!”. 

L’intensità della performance era tale che sembrava che Ziggy scegliesse a uno a uno i mortali che avrebbe benedetto prima di sparire.

Tu non sei solo!” esiste una frase di commiato più aggraziata e piena di compassione di questa?

 

 

I giornali titolarono che David Bowie si ritirava dalla scene. Ci impiegarono un po’ a capire che non era l’artista ma la maschera che era stata sacrificata, che la fine di Ziggy segnava la trasformazione di David, non il suo annientamento. 

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Trasformazioni

 

Il termine ‘Trasformazione’ può ingannare, se non ci si rende conto dei limiti presentati dal concetto di ‘Forma’” (Bion W., 1965, p.25).

 

David Bowie è stato un cercatore – così come indicava l’insegna “K-West” sulla copertina di “Ziggy Stardust and the spiders from Mars“. Come ebbe a dire in una intervista, quando morì Ziggy tutti gli facevano pressione perché tornasse a vestire quei panni. Non potevano concepire che un musicista potesse anche essere un performer e che il personaggio non esaurisse tutte le potenzialità dell’artista.

 

Per Bowie, invece, la trasformazione era una necessità interna, non avrebbe voluto interpretare per tutta la vita la stessa maschera, come era capitato ad altri, ad esempio Alice Cooper.

Bowie voleva costruirsi la libertà di essere molte cose, così -una reincarnazione dopo l’altra- ottenne che gli fosse riconosciuta la proprietà del mutaforma.

 

L’identità, lo sappiamo, è il filo di continuità che tiene assieme le varie espressioni della nostra vita: non è un fermo-immagine ma la funzione viva sottostante a quella forma.

Con questa fluidità di generi (musicali e non) e di maschere di scena, Bowie si attirò non poche critiche: c’è chi lo identificò con un opportunista, chi come un traditore del rock, chi ne descrisse il tratto trasformativo come un’assenza di contenuto. Ad ogni album non mancavano gli articoli di chi si lamentava: “era meglio prima“. Ziggy veniva sempre rimpianto, come si rimpiange una folgorante giovinezza.

 

E non si può certo dire che tutte le trasformazioni di Bowie siano state ugualmente gradite al pubblico, eppure lui non smise mai di studiare la musica, cambiare arrangiamenti, studiare la gente, cambiare pelle.

Fu glam nel 72, fu funk nel 75, fu il duca bianco nel 76, elettronico nel 77, dance nell’83 e via dicendo.

Bowie, era pervaso dallo Zeitgeist dei tempi che attraversava e ogni volta accettava di accomiatarsi da ciò che era stato ma non poteva più essere.

 

Ad ogni reincarnazione raccoglieva ciò che aveva capito e lo portava con sè nel segmento successivo. Parlava del passato con curiosità e del futuro con desiderio. Nella sua opera si ritrovavano sempre più spesso le parole “tempo, cambiamento, stella, trasformazione, amore, persone”. La sua poetica musicale ed estetica, cambiando si affinava.

              

Ho sempre trovato molto interessante come la fluidità di forma, che da talune parti viene stigmatizzata quasi fosse una patologia, sia in realtà una forma centrale dell’essere vivi.

 

La fluidità diviene tragica e grottesca solo se viene espunta dal flusso del tempo.

Chi si limita a cambiare o a fuggire dalle forme, senza mai imparare, senza mai capitalizzare l’esperienza, più che nella fluidità è nell’informe. In queste fissità ritroviamo le illusioni che cercano di sfuggire alla morte in maniera quasi delirante. Ma la fluidità, la tensione alla trasformazione, non implica l’onnipotenza, anzi semmai è possibile solo se si ha un profondo senso del limite ultimo della vita.

Bowie può essere visto come un esempio di fluidità NEL tempo e la testimonianza vissuta che chi si accosta al concetto di cambiamento non può che avere chiaro che ogni tanto è necessario accomiatarsi da parti di sé. Per questo non poteva che lasciare andare Ziggy cinquant’anni fa.

 

Tra i contemporanei di Bowie, troviamo decine di grandi artisti che puntarono tutto sull’avere una grande riconoscibilità come un marchio di fabbrica, e che rimasero un po’ intrappolati nel loro personaggio. Non me ne vogliano i fan, ma gli AC/DC, i Kiss o anche Mick Jagger che saltella come avesse 20 anni mi sembrano l’emblema di una generazione così terrorizzata dall’invecchiare che non ha saputo usare il tempo per trasformarsi. 

 

Bowie, che pure era nato nel dopoguerra come loro, ha invece sempre avuto l’orrore di rimanere bloccato in un punto e doversi ripetere in eterno. Ebbe a dire: “Invecchiare è un processo straordinario attraverso il quale diventi finalmente la persona che avresti dovuto essere”.

 

Il Tempo

Il documentarista Morgan Brett ha potuto visionare uno sterminato catalogo di lavori e registrazioni audio di David Bowie ed è da questo viaggio, anche molto privato, che ne è uscito il lungometraggio “Moonage Daydream”, uscito nel 2022.

In esso appare un parlato di grande intensità, un poema che Bowie scrisse per uno scultore che aveva scavato la parola “Sacro” su una sorta di pietra lapidaria.

E’ emozionante ascoltare la voce di Bowie mentre se ne leggono i versi:

“Il tempo.

Una delle espressioni più complesse.

La memoria resa manifesta.

È qualcosa che sta a cavallo tra passato e futuro

Senza mai essere del tutto presente.

O meglio, all’inizio sembra indifferente al presente.

C’è una tensione di natura insondabile.

La parola desidera essere compresa, avere un significato

Ma in qualche modo senti che non sei te stesso

e che la parola si rivolge a te.

Ti sommerge, dialogando con qualcosa di arcano

Che forse non è mortale e ti senti incuriosito

Catturato, persino.

 

Diventi consapevole di un’esistenza più profonda

Forse una temporanea rassicurazione che

In effetti, non ci sia inizio, non ci sia fine

E tutto d’un tratto, l’aspetto esteriore del significato

viene trasceso e ci si ritrova a lottare per comprendere

Un mistero profondo e formidabile

Io sto morendo

Tu stai morendo

Secondo dopo secondo

Tutto è transitorio

Ha importanza?

Mi preoccupo?

Sì, mi importa

La vita è fantastica, non finisce mai, cambia soltanto

Da carne a pietra a carne, e così via.

Meglio continuare a camminare”

(Bowie, 2022)

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Verrà un “cambiamento” (Ferenczi S., 22 maggio 1922)

 

L’8 gennaio 2016, nel giorno del suo compleanno, David Bowie pubblicò “Black Star”, il suo ventisettesimo album.

Corsi a comprarlo e mi lasciò sorpresa, quasi attonita, per la sua cupa bellezza e per quelle canzoni in cui sembrava parlarci dall’al di là. Ma poi mi ero detta “Cosa vado a pensare? Chissà cosa voleva dirci questa volta!

 

Anche se ci aveva preparato per tutta la vita con i suoi addii, in fondo ci eravamo abituati a pensare che, come il Doctor Who, Bowie poi sarebbe riapparso di fianco a noi, con un nuovo aspetto. Eravamo tutti imbevuti dell’illusione che le trasformazioni sarebbero state infinite e che, in fondo, Bowie giocasse a morire perchè sotto sotto era immortale.

E forse è per effetto di quell’idea implicita che, quando due giorni dopo l’uscita del disco si sparse la notizia che la stella di Bowie si era spenta, fummo tutti colti di sorpresa.

Eppure ce l’aveva detto: tra una canzone e l’altra, tutto sussurrava “Anche se me ne sono andato, tu non sei solo”.

 

Black Star era una messa da requiem, era un’ultima lunghissima canzone (come lo era stata “Rock n roll suicide”) da cantare tendendo le mani verso l’altro. L’ultima maschera che ha indossato era quella di un bellissimo uomo anziano e malato che non può più vedere davanti a sé.

Bowie non poteva sbagliare l’ultima trasformazione: in fondo si era preparato tutta una vita.

 

E dunque è così che muore una stella? Spegnendosi?

Conoscendo Empedocle e Bowie, Dobbiamo dire di no: una stella non si spegne e basta. Una stella muore trasformandosi un’ultima volta, proprio come ha sempre vissuto.

 

Da stella bianca a stella nera.

“I’m a Blackstar. I’m a Blackstar”.

 

Bibliografia

 

Ambrosiano L. (2016) Introduzione in Valdrè R. “La morte dentro la vita: Riflessioni psicoanalitiche sulla pulsione muta. La pulsione di morte nella teoria, nella clinica e nell’arte”, Rosenberd & Sellier.

Bion W. (1965) Transformations, Karnac Classic, London.

Bowie D (2022) “Time” e “You’re aware of a deeper existence” in Brett M. “Moonage Daydream”, Documentario, BMG, HBO.

Ferenczi S (1922) in Lualdi M. “Sandor Ferenczi: Omaggio Minimo” ( 2023) https://ilpassopsicoanalitico.blogspot.com .

Freud S. (1927) L’avvenire di un’illusione, OSF 10.

Greene A. (2016). “David Bowie: 7 Wild Quotes From the ‘Station to Station’ Era“. Rolling Stone. Retrieved 29 May 2020.

Jones A., (29 October 1977). “Goodbye To Ziggy And All That“. Melody Maker. Retrieved 13 September 2020 – via Bowie Golden Years.

Valdrè R. (2016)La morte dentro la vita: Riflessioni psicoanalitiche sulla pulsione muta. La pulsione di morte nella teoria, nella clinica e nell’arte,  Rosenberd & Sellier.

Anna Cordioli, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

annacordioli@yahoo.it

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