Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Patrizia Montagner
Premessa
In questo lavoro introdurrò alcuni pensieri che mi ha suscitato la lettura di “Essere senza destino” (Kertész, 1975).
È inevitabilmente una presentazione molto sintetica, direi quasi schematica. Ciascuno degli aspetti che emergono meriterebbe un approfondimento e una trattazione propria. Per ragioni di spazio non farò questo. Accennerò soltanto, nella speranza che il lettore sia spinto a riguardare il romanzo di Kertész.
Spero che questa operazione di sintesi non faccia perdere la bellezza e la profondità del romanzo.
È stata una sorpresa per me essere riuscita a leggere fino alla fine un testo in cui emerge così spesso e in modo così incisivo l’orrore per quanto viene descritto e che il protagonista ha il coraggio di raccontare.
Credo che la bellezza di questo lavoro stia prima di tutto nel suo modo di raccontare, che ci invita e ci accompagna a guardare, ma in modo discreto e delicato, anche di fronte ad un disumano indicibile. Lo fa usando uno stile che gli consente di non indugiare su quanto racconta. Questo mi pare l’aspetto tipico e speciale di Kertész. Possiamo guardare, ma senza doverci o poterci compiacere del nostro sguardo.
Migranti
Mi è venuto in mente in molti momenti leggendo Kertész il racconto e l’esperienza di lavoro con migranti. Il contatto con loro e i loro racconti, brevi, scarni talvolta, ma incisivi.
Credo che la condizione traumatica continua, nella quale Kertész ci accompagna per mano abbia delle caratteristiche, degli aspetti comuni ad altre esperienze traumatiche, al di là delle specifiche differenze.
Vorrei riuscire qui a fare vedere contemporaneamente l’esistenza di un qualcosa di talmente profondo e indicibile nel trauma degli ebrei deportati nei campi di sterminio, che per certi versi nessun’altra esperienza è come quella. Nel racconto di Kertész si legge in filigrana tutta la tragedia di una storia cominciata secoli prima, delle deportazioni, dei pregiudizi sugli ebrei, delle condizioni di vita, una vicenda storica, economica, politica, senza uguali.
Allo stesso tempo Kertész racconta la sua personale storia, il trauma indicibile in cui si trova a cercare di sopravvivere.
E il trauma ha aspetti comuni con altri traumi sociali.
La realtà dei migranti, in questo periodo della nostra storia, è una realtà fortemente traumatica. Nei racconti di chi ha attraversato l’Africa, è passato sui barconi, di chi ha tentato il “game” ripetute molte volte lungo la rotta balcanica, per arrivare da noi, c’è un orrore e un disumano che questo racconto mi ricorda continuamente. Aggiungo purtroppo che mi ricorda, a conferma che la storia non ci insegna mai e che siamo, come ci dice Freud, continuamente vittime di una ripetitività che difficilmente riconosciamo.
Partenza Percorso Meta
Il primo punto che voglio sottolineare è la presenza di questa idea di partenza, percorso e arrivo ad una meta. Questo è quello che il migrante immagina e questo è ciò che Kertész crede.
Nonostante egli senta che si tratta di una situazione senza garanzie, all’inizio parte con fiducia.
Allo stesso tempo sa che “gli anni spensierati e felici dell’infanzia” (ib., 19) sono finiti, ma non è una vera e propria consapevolezza, più che altro un sentore.
Quando arriva al primo posto di sosta, dopo l’orribile viaggio in treno, è felice di essere giunto alla meta. La speranza è che il travaglio sia finito.
In realtà non è che una prima fase. Il grosso, il peggio, molto molto peggio, arriva dopo.
Questa è una delle tragedie. Perché lì c’è il pensiero: Sì, ce l’ho fatta!
Ma non è così. E questo è uno degli elementi che concorre al costituirsi di un senso di delusione.
Questo è spesso quello che i migranti trovano, arrivano nei nostri Centri e pensano di avercela fatta, ma, molto spesso, il peggio deve ancora arrivare.
La consapevolezza delle cose
All’inizio è l’osservazione, anche la curiosità e il desiderio di conoscere, che portano ad un senso di consapevolezza delle cose. La mente si mette al lavoro e cerca di collocare le nuove conoscenze all’interno di un sistema almeno parzialmente noto. Poi lentamente la quantità e soprattutto la qualità straziante, disumana, orrifica delle cose prende il sopravvento. Le immagini stesse vengono via via pian piano sbiadite. Si percepisce un senso di confusione.
Questo porta ad una perdita di senso. Questo vissuto è estremante importante e molto molto doloroso. È qualcosa che anche i migranti descrivono, ma solo quando pian piano riescono a recuperare un po’ di senso. La nostra mente non può vivere senza dare senso a ciò che accade. Cercare di dare un senso è fondamentale, anche a costo di alterare la realtà. “I tedeschi […] erano persone pulite e per bene”(ib., 56) pensa Kertész. Deve essere così, anche se ora non mostrano questo.
È un tentativo di mantenere la speranza. Che l’altro abbia buone intenzioni.
Aiuta a reggere una situazione di totale dipendenza e inermità.
Questa faccenda della ricerca di un senso è un filo rosso che percorre tutto il libro.
Pian piano il protagonista si rende conto della realtà, si costruisce un senso molto diverso da quello iniziale, e quest’altro è uno dei punti fermi sui quali si appoggia per cercare di sopravvivere. Pian piano si fa strada la consapevolezza che è agghiacciante “questo luogo […] era sempre stato lì ad aspettarmi” (ib., 97). Anche questo ha a che fare con il cercare di costituirsi un senso, ma stavolta rispetto a sé stessi e alla propria vita, e, a dispetto del titolo, Kertész cerca un proprio destino, un percorso, segnato o parzialmente non segnato, in cui lui tenta consapevolmente di inserirsi. Di diventare protagonista e dare lui un senso suo.
Il nuovo “senso”, quando si è costituito, diventa difficile da modificare. Vediamo che anche alla fine del libro, quando lui parla della esperienza di essere curato, ha difficoltà a dare senso a questa cosa, perché non riesce a collocarla all’interno di un vissuto di odio e di negatività che lo ha pervaso. Dove collocare l’esperienza di essere aiutato e di divenire oggetto di attenzione positiva? Che senso darle? Se facesse questo forse metterebbe in dubbio tutto un’altra volta?
Come sopravvivere
Inizia ora una lunga fase in cui l’obbiettivo fondamentale è cercare di sopravvivere. La cosa terribile, pensando ai migranti, è che questo vissuto è comune a molti di loro non solo quando attraversano esperienze estreme come il passaggio nel deserto o stanno nelle prigioni libiche, ma anche quando sono in Italia “rinchiusi” nei Centri di Assistenza che spesso sono vissuti come vere prigioni (e ne hanno molte caratteristiche purtroppo).
Aspettare. Essere presi, annientati, dalla lunghezza delle giornate.
Cosa si può fare? Trovare un ritmo. Fare ricorso alle cose ripetitive che rassicurano.
Il problema è che si presentano dei nemici invisibili e inaffrontabili: Fame, Freddo, Parassiti. Da noi sono: depressione, delusione, estraneità, noia, burocrazia, attesa.
Bisogna cercare delle scappatoie. Qualsiasi piccolo stratagemma che consenta di avere un vantaggio, di migliorare un piccolo particolare, prende tutta l’attenzione.
Purtroppo, non è possibile reggere a lungo, la tragedia diventa spaventosa quando è il corpo che inizia a tradire. Le cose che riguardano il corpo prendono il sopravvento. Bisogna abituarsi.
Tuttavia “non c’è rassegnazione per quanto assoluta […] che ci possa impedire di concedere una ultima possibilità alla fortuna […] Speravo di non sentire male” (ib.,155, 159).
Desiderio di poter vivere ancora, magari un altro giorno…. Questo ci dice Kertész.
La cura del corpo è una dimensione importante anche nella relazione con i migranti. Ciò che vediamo molto spesso in concomitanza con il ritorno di qualche accenno di speranza è che qualcuno possa aver cura di loro e ciò passa attraverso l’attenzione alle richieste del corpo.
Quando iniziano a riconoscere l’esistenza di una figura umana, si ammalano e chiedono di essere curati.
Non si è più gli stessi
L’umore peggiorava, scrive Kertész.
Quando uno non è più riconosciuto, non si riconosce, allora non è più sé stesso.
In ogni situazione, ma sicuramente nelle più destrutturanti, la capacità di mantenere una coesione dell’Io passa attraverso la possibilità di mantenere comunque vivo un senso di sé. La funzione dell’altro come specchio è vitale.
Vediamo nei migranti quanto grande sia l’importanza di essere riconosciuti, almeno da qualcuno degli operatori, ed essere chiamati per nome. La tragedia si accentua quando il migrante non è riconosciuto per la persona che è, ma per il luogo da cui proviene, e quindi l’operatore lo chiama “il pakistano” piuttosto che “l’ivoriano”.
Numeri non persone.
Kertész ad un certo punto constata che “Qualcosa si è rotto irrimediabilmente” (ib., 144) dentro di lui. La tragedia vera, credo, comincia qua, non quando si trova in situazioni quasi impossibili, ma quando non riesce più a riconoscere sé stesso e si rende conto che la frattura non è più risanabile, non del tutto.
Questo è un momento cruciale, perché è legato alla qualità della memoria successiva. Credo che il racconto di Kertész, il lungo tempo che ha impiegato a recuperare i suoi ricordi e poi a trovare il coraggio di scriverli e pubblicarli, sia legato al fatto che per un verso non si può più dimenticare quello che è accaduto, ma allo stesso tempo non è possibile raccontare di una parte che è di fatto morta.
Senso del tempo
La modificazione del senso del tempo è uno degli aspetti che più colpisce il lettore di Kertész. E anche quello che più chiaramente segnala la presenza ma anche gli effetti della situazione traumatica vissuta dai migranti.
All’inizio il desiderio di procedere mette in movimento il tempo. Poi compaiono le difficoltà, le delusioni, la sofferenza via via più intensa, la tragedia e l’orrore e, infine, l’attesa senza fine.
Il tempo perde lentamente significato, il suo senso si altera.
Finché arriva un senso di rassegnazione, che va oltre il dolore
Lavorando con i migranti noi vediamo questo rapporto alterato con il tempo: sono senza tempo.
Lo vedono anche loro quando possono rilassarsi e si accorgono di come è cambiato il tempo. E’ un momento molto difficile, perché per certi versi dobbiamo loro dare tempo e per certi altri non c’è più tempo. Subentra un’urgenza incontenibile.
Kertész riconosce un aspetto importante del tempo, poiché il susseguirsi dei fatti è quello che lo ha cambiato un po’ alla volta e gli ha consentito di sopravvivere, ma è anche quello che lo ha irrimediabilmente cambiato. Le cose si capiscono un poco alla volta. “Se però non ci fosse questa successione del tempo e tutte queste conoscenze si riversassero su di noi in una volta sola, forse la nostra testa (io aggiungo il corpo ) non riuscirebbe a sopportarle” (ib.,209).
Ci vuole del tempo anche per credere nei miracoli. Per credere che ci possa essere un amico che ti aiuta e vuole che tu stia meglio.
Diversità
Ma io direi “razzismo”, anche se Kertész non usa questa parola.
Ne parla in vari momenti. La scopre all’inizio la sua “diversità”, nel rapporto con la sua piccola amica che è trattata da diversa, ma è una consapevolezza indiretta. Poi, pian piano si rende conto che è una faccenda che lo riguarda, perché lui è ebreo. Ci vuole tempo perché questo vissuto si ampli ed è qualcosa che si modifica con il tempo diventando parte di lui stesso. “La diversità ce la portiamo dentro” (ib., 33).
Dalla diversità Kertész scivola molto rapidamente – a causa della modalità in cui è guardato e trattato, ma forse anche a come lui stesso non riesce più a guardarsi e vedersi – nella non esistenza.
La non esistenza è un vissuto che consente di sopravvivere, perché in qualche modo mette in stand-by il rapporto dell’Io con sé stesso, ma che distrugge la persona, la annienta.
L’idea di essere diversi e non esistere colonizza la mente.
Cosa che ho visto in molti migranti. Anche in coloro che non hanno fatto una migrazione tragica dal punto di vista concreto.
Questo movimento psichico di colonizzazione è continuo e subdolo, soprattutto perché viene sentito, come dice Kertész, come una cosa “naturale”, come se fosse così che deve essere, e la mente non riesce più nemmeno a metterlo in discussione, e tanto meno a ribellarsi.
Essere salvati
L’importanza di un oggetto da salvare (Amati Sas, 2020) appare più volte nel racconto di Kertész. Lo ritroviamo nelle disposizioni della religione che il distinto signore compagno di viaggio di Kertész per un po’ ricorda. Come pure gli rammenta che dobbiamo pensare a quelli che abbiamo lasciato a casa.
La figura dell’oggetto da salvare è contemporaneamente sia una persona fisica, che un gruppo, che un ideale, che un progetto ecc. Ma la sua funzione fondamentale è di divenire una parte di sé, con caratteristiche simboliche, e non più solo concrete, e così supportare la parte più vitale dell’Io anche in momenti catastrofici.
Questo è un elemento che ritroviamo spesso nei migranti. Sono talvolta le famiglie, o qualcuno in particolare, ma anche il desiderio di crescere, di migliorare la propria condizione economica, di vivere, un ideale sociale o politico.
La mia impressione, tuttavia, è che questo oggetto interno da salvare non basti. Soprattutto se la condizione traumatica dura per molto tempo e finisce per attaccare anche le parti più nascoste e protette dell’Io.
Allora credo che sia necessario riconoscere che ci sia qualcuno che ti vuole salvare.
Kertész ha un momento, a metà del suo percorso, in cui c’è un altro prigioniero che se ne cura. E poi in tutta la parte finale del suo stare nel Campo c’è l’infermiere Pjetka, che è anche un suo amico, che svolge questa funzione vitale. L’oggetto che salva non è soltanto un oggetto concreto ma corrisponde in qualche modo ad un oggetto interno forse inconsapevolmente atteso, la sua importanza a mio avviso risiede in questo suo essere un oggetto simbolico in quanto appartenente sia alla realtà esterna che a quella interiore che allo spazio intermedio.
Più un trauma è stato potente e ha distrutto la capacità di avere fiducia nell’umano, e più deve esserci qualcuno che investe affettivamente la persona e ha una funzione, almeno parziale, di riparazione.
La riparazione non è mai totale. Tuttavia, essa è vitale, poiché si situa in quest’area nella quale il concreto tocca l’interiorità.
Nella mia esperienza con migranti ho osservato che quasi tutti loro raccontano questo, cioè che ad un certo punto della loro vicenda c’è stato qualcuno che li ha aiutati.
Ricordo a questo proposito una riunione con gli operatori di un Centro di accoglienza nella quale si parlava di quanto sia importante far sentire agli ospiti che c’era un investimento reale su ciascuno di loro fatto da almeno un operatore, che c’era una autentica intenzionalità nel conoscerli e seguirli.
Allora una delle operatrici, una donna proveniente dall’Africa subequatoriale, che era in Italia da molti anni e lavorava ormai da parecchio in Centri di Assistenza, ha ricordato come fosse stato importante all’inizio della sua permanenza nel nostro Paese rendersi conto che qualcuno voleva veramente che lei stesse meglio. Via via ciascuno degli operatori, tutti migranti da diversi Paesi, alcuni ormai con cittadinanza italiana, ha trovato nella sua storia la presenza di qualcuno che ha svolto questo ruolo. Si tratta del supporto di un Io ausiliario, ma forse anche della fiducia che dà ritrovare all’esterno qualcosa che corrisponde ad un oggetto del proprio mondo interno.
Bibliografia
Amati Sas S. (2020). Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale. Milano, Franco Angeli.
Kertész I. (1975). Essere senza destino. Milano, Feltrinelli, 2023.
Montagner P. (2019). Un luogo per vivere? In Psiche, Vol. 1, pp.249-266.
E’ possibile scaricare questo articolo assieme agli altri contributi della serata anche in versione PDF
*Per citare questo articolo:
Capitanio M. (2025). “Ricorrenze di Umanità 2025: Imre Kertész: leggerlo insieme”. Centro Veneto di Psicoanalisi, Sito wwww.centrovenetodipsicoanlisi.it, sezione “Report e Materiali”, 1-32.
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