Ricorrenze di Umanità, Giorno della Memoria 2025

“Imre Kertész: leggerlo insieme”

di Mariagrazia Capitanio

*Per citare questo articolo:

Capitanio M. (2025). “Ricorrenze di Umanità 2025: Imre Kertész: leggerlo insieme”. Centro Veneto di Psicoanalisi, Sito wwww.centrovenetodipsicoanlisi.it, sezione “Report e Materiali”,  1-32.

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27 Gennaio 2025

Incontro con Antonio Sciacovelli: Introduzione alla figura e alla poetica di Imre Kertész.

31 Gennaio 2025

Lo scopo del secondo incontro di Ricorrenze di Umanità, Giorno della Memoria 2025, CVP, “Imre Kertész: leggerlo insieme” è stato quello di condividere le riflessioni  suscitate dal  primo[1], momento  durante il quale i partecipanti erano stati  anche invitati a portare, per la volta successiva, considerazioni  a proposito di uno o più libri dell’Autore. All’appello hanno risposto quattro persone.

Ho pensato, allora, di suddividere il seguente report in due parti. Nella prima, rispettando la scaletta approntata per la serata del 31 marzo, sono riportati: a) l’ intervento del dr. E. Levis per esteso[2]; b) e c) la sintesi di quelli delle dott.sse M. Capitanio e S. Rinaldi[3];  d) quello della dr.ssa P. Montagner per esteso. Nella seconda parte compare  un sinto della ricca discussione che ne è seguita; i temi trattati sono stati molteplici e intrecciati tra di loro. Dovendomi limitare, ne ho estrapolati alcuni[4]: 1) il senso dell’avverbio ‘ovvio’; 2) ‘l’oggetto salvatore’; 3) il crollo psichico del perseguitato; 4) lo stile letterario.

 

 INTERVENTI 

1) Enrico Levis: “Sguardo e destino: come ridare vita agli istanti”

2) Mariagrazia Capitanio:  “La felicità dei campi di   concentramento”. Un contributo metapsicologico.

3) Silvana Rinaldi : Fiasco, riflessioni sulla Responsabilità”.

4) Patrizia Montagner : “Leggere Kertész pensando al trauma dei migranti”

 

TEMI EMERSI DURANTE IL DIBATTITO

1) ‘Ovvio’. L’avverbio  ‘ovvio’ sembra  indicare la necessità, da parte del protagonista (come pure da quella di molti migranti attuali), di trovare un senso a quello che sta vivendo: il trovarlo o il cercare di trovarlo, può salvare  l’integrità psichica. Tuttavia, l’avverbio  (con quel  vago sentore di superficialità) suggerisce da un lato che tale ricerca  non deve spingersi oltre a quanto  psichicamente tollerabile, altrimenti ci sarebbe la disperazione. Dall’altro  sembra indicare  che  Kertész  stia dando forma a quanto evidenzierà nel romanzo successivo, Fiasco, nel brano dedicato a ‘il carnefice’: con quel ‘ovvio’ Gyurka sembra voler dire che, se lui fosse il carnefice, farebbe ovviamente le stesse cose. L’ovvietà  è quella della logica dell’aguzzino presente in potenza in tutti noi, quella parte oscura  in cui ogni essere umano può riconoscersi. ‘Ovvio’, assieme a ‘è naturale’, potrebbe  anche essere un  escamotage letterario per sottolineare che  quello che sta succedendo è tutt’altro che naturale e ovvio: è esattamente il  contrario.

2) ‘L’oggetto salvatore’. Facendo rifermento al concetto di ‘oggetto da salvare’ [1] elaborato dalla psicoanalista S. Amati Sas, durante il dibattito è stata ribadita l’importanza psichica e fattuale del ‘l’oggetto salvatore’. In Essere senza destino  (e anche nel percorso di migranti attuali) esso è incarnato da alcuni internati che diventano amici  del protagonista  e cercano di salvarlo. Essere salvati da qualcuno, oltre a consentire la sopravvivenza fisica dell’individuo,  risveglia  nel salvato la capacità di trovare  il senso di sé e della relazione di fiducia nel prossimo. Questo vale anche per il salvatore. Le rappresentazioni de ‘l’oggetto da salvare’ e de ‘l’oggetto salvatore’  possono essere reciproche e  sostenersi l’una con l’altra.

3) Il crollo psichico del perseguitato. Esso può avvenire per cause molteplici e in momenti particolari. In Essere senza destino succede quando il protagonista si identifica con l’aguzzino  che gli fa trasportare – con orribile successo – innumerevoli sacchi di cemento [2]. In quella circostanza si verifica  un mutamento di rapporto tra  i due perché si mette in moto  una specie di sfida che corrisponde ad una sorta di  vicinanza psichica/affettiva. E’ un momento da cui non si può più tornare indietro, è il momento in cui Gyurka si rende conto di  quanto si è sottomesso, di quanto  sia  diventato quello che il carnefice voleva che lui diventasse. Si tratta di una ferita narcisistica profondissima, ferita che  potrebbe costituire uno (non certo l’unico) dei motivi  scatenanti  il ‘crollo’. Poco tempo dopo si avvia, nel protagonista, il  complicato e pluri-determinato  processo del ‘diventare musulmano’ [3]. Che ci sia una correlazione?

4) Lo stile. Venendo allo stile letterario, e per quanto riguarda Essere senza destino, da più parti è stata segnalata la grande capacità dello scrittore di mettere il lettore sul ciglio dell’orrore, della cosa indicibile e di lasciarla immaginare: egli dice ma non indugia.  A differenza di quella di Primo Levi, dove si ‘vede’ che c’è un pensiero, la scrittura di Kertész   ‘fa pensare’  senza  ‘fare vedere’ che c’è un pensiero. Un esempio è dato, oltre che dalla scelta di alcune espressioni tra cui il già citato ‘ovvio’,  dalla descrizione dell’inziale ‘ingenuità’ adolescenziale  del protagonista, dallo ‘stupore’ dovuto al  non capire come funziona il mondo, come funzionano le cose, come funziona lui stesso [4] . La  creatività  e la bellezza di tale scrittura  ‘di rottura’ riescono a  veicolare una denuncia fuori dal comune:  proprio questa è la ragione, come ci aveva detto il prof. Sciacovelli l’altra volta,  per cui il libro all’inizio non trovò un editore. 

La bellezza ha fatto ricordare quanto scrive A. Green[5] a proposito della emozione estetica e  della bellezza come schermo: “L’idea che trovo potente è l’idea dello schermo. Questo schermo rinvia ad  un godimento – la bellezza affascina- e nello stesso tempo suscita il sentimento di un incontro, un  sentimento ancora più forte di quanto ne parli il contenuto dell’opera, che al di là vi sia l’orrore. In tutte le grandi opere ritroviamo questo sentimento dell’orrore che attende. […]  L’emozione estetica è fatta di questo ritrarsi e di questo oltre e questo oltre è l’orrore del pulsionale con gli insospettabili effetti del significante nella misura in cui risuona al di là di ciò che dice(Green, 2004, 100)[6].

Per quanto riguarda Fiasco [7], l’emozione che le  prime  pagine possono suscitare è l’irritazione. Il lettore viene sballottato da un piano del discorso ad un altro non meglio definito, non si si sa chi parla a chi, non si comprende il senso della descrizione meticolosissima di dettagli ambientali minimi. Dopo, c’è una svolta: si viene “catturati” (io aggiungerei imprigionati dentro  l’ atmosfera asfissiante dello stato totalitario in cui Köves viene a ritrovarsi suo malgrado)  e il racconto “non si può più lasciare: è qualche cosa che non vorresti leggere ma  bisogna leggere. E’ appassionate…” perché il testo è un testo estremamente coraggioso. Kertész, che viveva all’interno di un regime in cui le persone sparivano  senza che se ne capisse il senso,  è stato in grado non solo di scrivere un racconto proprio sulla perdita di senso dell’individualità causata dal totalitarismo  ma  è riuscito anche a mettersi nella mente del (dei) carnefice, sottolineando così la complessità della nostra comune dinamica psichica conscia e inconscia. La sua è una sollecitazione a tenere insieme quello che si vorrebbe separare, invito quanto mai significativo  tenendo conto dell’attuale momento storico.

La tecnica della descrizione meticolosa degli ambienti che caratterizza la prima parte  del testo ha fatto ricordare lo scrittore francese Alain Robbe-Grillet (1922-2008)[8]e ci si è chiesti se Kertész lo conosceva: come ho scoperto  nello scrivere questo report, sì [9]. Nel saggio (1963) Pour un nouveau roman [10] Robbe-Grillet parla della  tecnica  che consiste nel descrivere la realtà oggettiva  con minuzia fotografica[11]; proprio  a causa dei dettagli  così precisi  il lettore è messo nella  situazione di non capire bene dove il protagonista  e il lettore stesso si trovino.  Poi, pian piano, si ‘ricostruisce’ l’insieme: in Fiasco ci si rende conto solo lentamente che  quello che è descritto  è  una stanza e che è sempre di quella stanza che Kertész sta parlando. Direi che l’iniziale spaesamento e la successiva ricostruzione (dovuti alla tecnica usata) permettono di ‘entrare’  appieno nell’atmosfera psichica di coloro che vivono in un regime totalitario. Allo stesso tempo, la ‘ricostruzione’ evidenzia, anche in queste situazioni, la possibilità  di mantenere salda la propria  individualità/soggettività, proprio ciò che tali regimi in genere cercano di far scomparire.

Nel corso del dibattito è stato  rammentato che una atmosfera spaesante e simil-onirica si ritrova anche ne Il cercatore di tracce [12], racconto  in cui un sopravvissuto alla Shoah torna, dopo tanti anni, nel ‘suo’ campo cercando di ritrovare/rivivere l’esperienza vissuta.

Per concludere: da tutti e a tutti un invito a leggere e rileggere l’intera opera di Kertész.

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[1] Il primo incontro si è tenuto il 27 gennaio  2025.

[2] Poiché il collega non poteva partecipare di persona, il  testo è stato letto.

[3] I testi integrali verranno pubblicati sulla Rivista online del CVP  KnotGarden nel n. 4/2025 che uscirà a fine anno.

[4] Ognuno di questi temi meriterebbe un approfondimento teorico-clinico.

[1] Oggetto da salvare: cfr. Amati Sas S.(2005).  Ambiguity as a defence in extreme trauma, IPA  44 Congress Rio de Janiero, Panel on “Trauma and torture;  Amati Sas S. (2019). Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale. Milano, Franco Angeli. Brevemente ricordo che S. Amati Sas, analizzando  pazienti reduci da tortura e violenza di stato, ha scoperto che essi  presentano alcune caratteristiche psichiche  comuni   derivanti dal  rapporto con gli agenti del sistema di tortura. Una di queste  peculiarità consiste in una forma particolare di  “resistenza” – che dura per tutto il periodo traumatico –  alla distruzione  psichica  e corrisponde ad una sfida soggettiva inconscia alla situazione alienante. Essa si manifesta come una rappresentazione e una preoccupazione  per il destino, l’esistenza e la dignità di un altro prigioniero oppure può riguardare  una persona  già morta. In tal caso si palesa con un pensiero del tipo: “Meno male che la tal persona non c’è più, così non ha dovuto sopportare tutto ciò e ha  potuto mantenere la sua dignità”.  La sollecitudine  verso ‘l’ oggetto  da salvare’  è la rappresentazione di un legame  privilegiato nel quale non esiste tradimento: si tratta di una relazione ‘vera’,  non alienante come invece è  quella  che  lega il prigioniero al torturatore; la rappresentazione ‘oggetto da salvare’  è l’espressione di una opposizione critica ad una situazione aggressiva e schiavizzante.  Nello spazio della  transoggettività (cfr. Amati Sas, 2019, 165) tale  movimento intrapsichico  di preoccupazione per  ‘l’oggetto da salvare’ si manifesta come una preoccupazione condivisa  per ideali  etici  comuni. Durante il periodo traumatico la relazione con ‘l’oggetto da salvare’ aiuta il soggetto a prendere consapevolezza  della  coerenza e continuità  di se stesso.

[2]  “Alla fine eravamo quasi in grado di anticipare le mosse l’uno dell’altro, ci conoscevamo, leggevo sulla sua faccia una vaga soddisfazione, dell’incoraggiamento, per non dire dell’orgoglio e devo ammettere che sotto un certo aspetto aveva persino ragione: anche se barcollando, piegato in due, vedendo a tratti nero davanti agli occhi, tenevo duro, andavo e venivo, trasportavo e tornavo senza più far cadere nemmeno un sacco e, in fin dei conti – dovevo riconoscerlo – questo per lui era una conferma. D’altra parte, al termine di quella giornata, sentii che dentro di me qualcosa si era irrimediabilmente rotto […]” ( Kertész, 1975,144).

[3] Il processo del divenire ‘musulmano’ è  descritto da Kertész nel capitolo 7. P. Levi in Se questo è un uomo ne parla così: “ […] i Muselmänner, i sommersi [… ]; la massa anonima […] dei non – uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla” (Levi P., 1947-1958, 113).

[4] A questo riguardo è venuto  in mente L’Adolescente (1875) di F. Dostoevskij.

[5]  A proposito dello psicoanalista francese A. Green ( 1927- 2012), v. sul Sito del C.V.P. la rivista online KnotGrarden. Cliccare Attività del Centro, KnotGraden , 2022/1. André Green a dieci anni dalla morte, https://www.centrovenetodipsicoanalisi.it/knot-garden-green/

[6] Green A. (2024). La lettera e la morte. Le parole nella giungla. Roma, Alpes.

[7] Questo libro, per l’atmosfera iniziale,  ha fatto venire in mente  il libro Auto da fé di E. Canetti (1935).

[8] A. Robbe-Grillet , esponente del gruppo Le nouveau roman (corrente letteraria nata in Francia tra gli anni ‘60 e ’70 la quale ha influenzato anche scrittori italiani tra cui F. Camon)  è autore di numerosi romanzi e saggi. V. ad es. (1957). La gelosia. Torino, Einaudi, 1958;  (1955) Il voyeur. Trieste, Nonostante, 2013;  (1959). Nel labirinto. Milano, Feltrinelli, 2021. Robbe-Grillet è  stato anche regista e sceneggiatore [da WIKI].

[9] Come riporta C. Royer, la biografa di Kertész, Robbe-Grillet  era noto  all’Autore fin dal 1962, anno in cui aveva letto  La gelosia; nel  1969 lesse Nel labirinto: questo libro  lo conquistò a tal punto  da desiderare  di appropriarsi  dello stile “sinfonico e mistico” dello scrittore francese. Quando  progettò di scrivere  “Il ponte” (che poi non compose) annotò con entusiasmo: “Scrivere tutto questo nello stile di Robbe-Grillet!” (Royer C. (2017). Imre Kertész : “L’histoire de mes morts ». Acte Sud, Arles, 193.

[10] Paris, Edition de Minuit. Si tratta di una raccolta di testi che riprendono vari articoli apparsi nel decennio 1953-1963, tra cui uno intitolato La coscienza malata di Zeno.

[11] Tale tendenza è chiamata anche ‘école du regard’.

[12] In  (1998). Il vessillo britannico. Milano, Bompiani, 2004/2016. L’invitato  della edizione dello scorso anno di Ricorrenze di Umanità, lo psicoanalista D. Oppenheim, ne parla nel suo libro (2016). Des adolescences au coeur de la Shoah. Lormont, Le bord de l’eau.

Mariagrazia Capitanio, Venezia

Centro Veneto di Psicoanalisi

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