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La vertigine dell’illusione

Un’ipotesi sui processi psichici alla base dell’uso disfunzionale dei media digitali in età evolutiva

di Elisabetta Marchiori

(Padova) Psicoanalista Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.

Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il Cloud.

Il mondo si fa sempre più inafferrabile, nuvoloso e spettrale.

Niente è più attendibile e vincolante, nulla offre più appigli.

(Byung-Chul Han, 2022)

 

Dal “disagio della civiltà” al “disagio digitale”

 

Lo scopo di questo contributo è quello di richiamare l’attenzione, da un punto di vista psicoanalitico, sui processi psichici alla base dell’uso disfunzionale dei media digitali in età evolutiva, dall’infanzia all’adolescenza.

Il documentario di Raphaël Hitier Génération écran: Génération malade? (Generazione schermo: generazione malata?, Francia, 2020, 53′)[1] può essere una visione molto utile per comprendere — grazie all’immediatezza delle immagini, ad interviste ad esperti e agli studi sperimentali presentati — lo stato dell’arte della ricerca riguardo l’impatto che l’esposizione agli schermi dei vari dispositivi tecnologici ha sulle nostre vite e, in particolare, sullo sviluppo dei bambini e gli adolescenti.

Già nel 1929 Freud, in Il Disagio della Civiltà, descriveva l’uomo come “una specie di Dio-Protesi, veramente magnifico quando è equipaggiato di tutti i suoi organi accessori” (582). Si riferiva a quelle acquisizioni della scienza e della tecnica”, a quegli “utensili” che al suo tempo erano i motori, gli occhiali, il grammofono e anche il telefono “che può udire a distanze che neppure le fiabe avrebbero osato immaginare. […] Queste cose non solo appaiono fiabesche, sono in effetti l’appagamento di tutti, o meglio di quasi tutti i desideri delle fiabe”. Profetizzava “nuovi e inimmaginabili passi avanti” negli anni a venire, aggiungendo che questi “organi accessori” non formano un tutt’uno con l’uomo e “gli danno ancora filo da torcere” (ibidem, 582).

Freud aveva ragione, fatichiamo a tenere il passo alla velocità con cui la scienza e la tecnologia si sviluppano e a concepire un presente che è già futuro.

In questo senso, il “disagio della civiltà” si è trasformato in “disagio digitale”.

Dal 1990, anno in cui Tim Berners-Lee, del CERN di Ginevra, lo inventa, il web ha continuato a espandersi con innovazioni tecniche, aggiornamenti e nuove piattaforme. Anche la sua crescita demografica è inarrestabile: se il web fosse un continente, sarebbe il più popolato della terraferma, con cinque miliardi di persone, quasi il 65% della popolazione globale, tutte stipate nel cyberspace. Secondo una recente revisione della letteratura (Gioia, Rega & Boursier, 2023) negli ultimi dieci anni la percentuale di bambini e adolescenti di età compresa tra i 9 e i 16 anni che utilizzano schermi digitali (soprattutto smartphone) per accedere a Internet ha superato l’80% in circa 11 Paesi europei e il tempo giornaliero trascorso online è raddoppiato da 1 a oltre 2 ore. L’uso di dispositivi multimediali digitali, in particolare smartphone e tablet, è cresciuto anche tra i più piccoli, i bambini in età prescolare e i bambini della scuola primaria di età compresa tra 0 e 8 anni, con il 15% che ha accesso al proprio telefono cellulare a partire dall’età di 3 anni.

In Italia, secondo un’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità del 2022[2], il 22,1% dei bambini tra i 2 e i 5 mesi passa del tempo davanti a televisione, computer, tablet e telefoni cellulari e dall’1,9% al 9,1% vi trascorre almeno 1 o 2 ore. I livelli di esposizione crescono all’aumentare dell’età e, tra i bambini di 11-15 mesi, le quote che passano almeno 1 o 2 ore al giorno davanti a uno schermo variano tra il 6,5% e il 39,3%.

Dal 2007 gli smarthpone ci hanno dato il mondo letteralmente in mano: dentro ci siamo noi, i nostri “contatti”, i nostri social, i nostri conti in banca, le nostre foto, la nostra memoria. Nomofobia (no–mobile-phone-phobia) è un neologismo che indica la paura di non avere con sé il telefono. Ne offre un esempio Orietta, una paziente mia coetanea, che un giorno è arrivata in seduta sconvolta: non aveva potuto avvertirmi che era in ritardo perché le era “morto” lo smartphone, si era bruciata “la scheda madre” e con lei tutta la sua memoria, non aveva né cloudback-up e nemmeno qualche nota scritta. Nella sua testa non c’era più nulla: non aveva mai provato una sensazione di angoscia simile, si era sentita improvvisamente completamente sola, isolata, persa, svuotata.

Scrive Bollas in “L’età dello smarrimento” (2018): “Pensare a noi stessi come equivalenti a un iPad, a uno smarthphone e simili potrebbe non piacerci, ma siamo diventati estensioni di tali oggetti nello stesso modo in cui questi oggetti lo sono diventati per noi” (114-115). Ma parlare di “protesi” e “estensioni” è ormai obsoleto, da boomer.

Lo si capisce leggendo il libro intitolato provocatoriamente “Sei vecchio” (2023) di Vincenzo Marino, un esperto di cultura digitale, che indaga le passioni e i trend della cosiddetta generazione Z, i nati fra il 1997 e il 2012, esplorando i meccanismi dei nuovi media e delle celebrità digitale, spesso impenetrabili per le generazioni precedenti, i boomer appunto.

È proprio nell’intrattenimento online e nella costante interazione con i social network — da Instagram a TikTok, da Twitch a YouTube — che la generazione Z trova uno specchio di sé e vede racchiuso il proprio universo di “contenuti”.

Per questi ragazzi, a cui non si può chiedere se sono on-line o off-line, si è venuto a creare un sistema di realtà a doppia forza motrice, dove il confine tra mondo reale e mondo virtuale è decaduto, dato che l’uno e l’altro si fondono in un unico movimento che genera la realtà e l’esperienza, in una sorta di creazione infinita e permanente (Baricco, 2018).

Ma le funzioni creative ed evolutive del viversi on-line sono tali se una realtà non esclude l’altra, ma vi si accompagna (Boursier, 2022).

Se questo non accade, lo schermo diventa una sorta di Black Mirror — titolo della serie televisiva divenuta cult — uno “specchio nero” che rimanda al potere immersivo, iperecciante e soverchiante di contenuti, immagini, suoni, in cui il soggetto viene risucchiato, come lo schermo televisivo risucchia la testa del protagonista nel profetico film del 1983 Videodrome di Cronenberg.

Mai come oggi noi psicoanalisti abbiamo bisogno di “metterci in rete”: non tanto per postare “contenuti” psicoanalitici, ma per conoscerla, per scoprire come funzionano i social media, chi e cosa guardano e seguono bambini e ragazzi, cosa è e come si usano la realtà virtuale (De Masi, 2022) e l’Intelligenza Artificiale. Solo così possiamo avere gli strumenti per accettare la sfida che ci propone questa generazione di bambini e “Adolescenti Digitalmente Modificati”, come li definiscono Scognamiglio e Russo (2018). Abbiamo bisogno di capire se e come sia cambiata la relazione tra corpo e mente nell’interazione precoce, intensa e intima con la tecnologia fin dai primi istanti di vita. Un’interazione che ha cambiato la percezione del flusso soggettivo delle esperienze, il senso di efficacia delle proprie azioni e la consapevolezza delle loro conseguenze, in rapporto al tempo e allo spazio (Colombi, 2023; Missonnier et al, 2006; Tisseron, 2013). Viviamo in una situazione socio-culturale che spinge verso la compressione del tempo e dello spazio relazionale, necessari per i processi innati dello sviluppo e del lavoro psichico.

Poiché esiste un sottile crinale che separa l’utilità di questi strumenti — che nascono come risorse — dal rischio di un loro uso troppo precoce, disfunzionale ed eccessivo, è più utile riferirsi ai “comportamenti web-relati” o “web-mediati” che possono qualificarsi come problematici, piuttosto che a comportamenti di “dipendenza” in generale, la cosiddetta Internet Addiction, che infatti non ha trovato collocazione nel DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali.

In quest’ottica, si è coniata l’espressione “Uso Problematico dei Media Digitali” (UPMD), di cui spesso i bambini e gli adolescenti che incontriamo nella nostra stanza d’analisi sembrano soffrire (Gioia, Rega & Boursier, 2021). L’UPMD porta a diverse conseguenze negative per lo sviluppo e il benessere dei bambini sotto i dieci anni. Ad esempio, sono segnalati problemi comportamentali, disturbi del sonno, sintomi depressivi, scarsa intelligenza emotiva e difficoltà scolastiche; i bambini più vulnerabili, che già presentano disturbi psicologici, hanno in genere relazioni disfunzionali con i genitori e difficoltà nel contesto scolastico sono, per contro, più inclini a sviluppare un UPMD (Rega, Gioia & Boursier, 2023).

Negli adolescenti, così come nei giovani adulti, l’UPMD si configura come un insieme di sentimenti, pensieri e comportamenti che investono varie dimensioni della vita, con ricadute che interferiscono con le normali attività quotidiane e le relazioni interpersonali e sociali (Andreassen & Pallesen, 2014). Esso è concomitante a quadri patologici caratterizzati dalla cosiddetta disregolazione affettiva e da sintomi somato-psichici di tipo alessitimico, Entrambi sono sottesi a funzionamenti psichici che rendono alcuni individui più vulnerabili (Kardefelt-Winther, 2017), innescate o esacerbare piuttosto che causate dall’uso dei dispositivi.

Da un punto di vista clinico, si mostrano incapaci di esprimere e descrivere le proprie emozioni e i propri affetti. Appaiono impoveriti rispetto al proprio mondo interno, coartati nel pensiero e intenti a difendersi da affetti rimasti codificati a livello pre-rappresentazionale e presimbolico, di conseguenza altamente invasivi (Scognamiglio & Russo, 2018). Ci troviamo davanti non tanto a corpi dotati di protesi, ma a creature finger-screen, che spesso rifiutano il loro corpo di carne, dissociandolo dalla mente, e sognano di smaterializzarsi nella dimensione virtuale.

Sono stati pubblicati molti studi sul UPMD per evidenziare sia i fattori predisponenti sia quelli protettivi, e stabilire quindi strategie di prevenzione e di promozione della salute, oltre che di cura, sia per i soggetti in via di sviluppo sia rivolte ai genitori, che svolgono un ruolo fondamentale anche in questo ambito (Gioia, Rega & Boursier, 2021; Rega, Gioia & Boursier 2023).

A questo proposito, uno studio recente (Marconi, Scognamiglio, Marchiori et al., 2023) ha indagato l’impatto dei programmi educativi di codifica (CEP) sul UPMD e sulla relazione tra dipendenza psicologica e disregolazione emotiva in un campione di giovani studenti.

L’elaborazione dei dati ha rivelato che l’aver partecipato a questo programma ha portato gli studenti a un uso meno trasgressivo, più funzionale, creativo e pianificato rispetto ai soggetti che non vi avevano partecipato, mentre non ha avuto alcun impatto sulla capacità di regolare le emozioni.

 

 

Tre esempi clinici

Penso a Sara, quindici anni, con i suoi svariati sintomi somatici, l’apatia, gli attacchi di panico, la nausea, che non sa distinguere se ha mal di pancia perché qualcosa non va nel suo corpo, perché ha le mestruazioni o perché qualcosa la preoccupa. Faceva la prima superiore quando le scuole sono state chiuse per il lockdown durante la pandemia: ha rifiutato la didattica a distanza, si è messa a letto e per un anno non ha fatto più nulla, se non guardare serie televisive e stare sui social, dormendo di giorno e stando sveglia di notte. La sua sofferenza narcisistica non ha tollerato l’obbligo di esporsi sullo schermo davanti ai compagni e ai professori, l’impossibilità di nascondersi negli spazi virtuali scelti da lei, senza la possibilità di vedere dove fosse diretto lo sguardo altrui. Quando è stato possibile uscire, ha usato la mascherina fino a quando le è stato consentito senza essere notata: non aveva paura del contagio, ma del “contatto”, di essere vista “direttamente in faccia”.

Per lunghi mesi in seduta fatica a esprimersi, ogni parola è accompagnata da lunghissimi silenzi e sospiri, le sembra di non ricordare nulla, nemmeno come ha passato la giornata o cosa ha mangiato: tanti “boh”, “ma”, “non so”, “non ricordo”. Ad un certo punto le faccio notare che mi sembra usi intonazioni diverse, forse significa qualcosa? Sono collegate a sensazioni, emozioni, sentimenti diversi? Proviamo insieme ad associarle a cosa sta provando, a ricordi, a frammenti di sogni, al suo mondo di contenuti virtuali, fino a quando le singole parole diventano piccole frasi, che a poco a poco la mettono in contatto, anche se ancora a intermittenza, con il suo corpo, con il suo mondo interno, con me.

 

Penso ad Anna, quattordici anni, che arriva nel mio studio per la prima volta accompagnata dai genitori, arrabbiatissima perché le hanno sequestrato il telefono. Atto necessario, perché da mesi stalkera attraverso i social un suo compagno di classe, innescando una serie di reazioni da parte del ragazzo, che “l’ha bloccata su tutto”, dei genitori e della scuola. Anna non sembra capire il motivo di tutta l’agitazione che le si è creata intorno.

Il suo interesse principale è quello di seguire vari influencer sui social ed è convinta che un giorno sarà famosa come loro, ma deve trovare “le storie giuste” da postare per ottenere like. Anna ha un disturbo specifico dell’apprendimento, ha iniziato a parlare piuttosto tardi, è molto timida, fatica a rapportarsi con i suoi coetanei e reagisce con aggressività alle minime frustrazioni. Da qualche tempo ha episodi di “vertigini” seguite da “svenimenti”, rispetto ai quali non sono state rilevate cause organiche, ma che sembrano piuttosto collegati a momenti in cui viene sopraffatta da sensazioni negative, che non sa gestire.

Dei genitori, attualmente separati, dice che “stavano al lavoro, mi dicevano di lavarmi i denti e litigavano”. Da piccola passava gran parte del suo tempo prima davanti alla televisione, poi davanti all’Ipad e ora all’ultimo modello dell’Iphone.

Riesco a contattarla proponendomi come gost writer della sua autobiografia, dando senso e valore alla sua storia. Ha scelto lei il titolo “La mia piccola” e inizia così: “Sono sempre stata una bambina triste”.

 

Penso a Piero, diciassette anni, da sempre considerato un “soggetto difficile”, i cui genitori chiedono che “venga curato” perché di recente ha improvvisi scatti d’ira contro la madre e i due fratelli più piccoli. Poi sembra crollare in stati di apatia, non ha voglia di uscire, gli amici di sempre lo annoiano “mortalmente”. È sempre attaccato allo schermo del telefono: “Così almeno è tranquillo”, dicono in accordo i genitori, peraltro in perenne conflitto.

Il suo ritmo sonno-veglia è “sballato”, di notte ingurgita “dirette” infinite su Istagram, non ha alcun interesse ad andare a scuola e ha già perso un paio d’anni. Soffre di FOMO (Fear Of Missing Out): ha paura di essere “tagliato fuori” da eventi imperdibili. È convinto, da quello che vede sui social, che ci siano tante persone che si divertono e “fanno la bella vita”, mentre la sua è tanto “sfigata”. “Mi sento male — dice — non so cosa mi succede, ho la testa piena di cose. Ho visto un video su YouTube dove c’è un ragazzo che è proprio come me”. Provo a farmi dire almeno di cosa parla questo ragazzo, ma Piero non sa spiegarlo e non riesce a ritrovare quel video. Anche lui è alla ricerca di contenuti che possano “diventare virali” e, durante una seduta, riesce a dirmi che, a questo scopo, sta scrivendo una canzone: “Cosa ci vuole? La musica è lì, basta cantarci sopra!”, esclama rianimato.

Finalmente, una strofa alla volta, riesce a condividere finalmente qualcosa off-line con me.

 

Tra la ricerca e la clinica, un’ipotesi psicoanalitica

Come possiamo integrare i dati che emergono dalle ricerche e le osservazioni cliniche in una prospettiva psicoanalitica?

Da quanto emerge dal lavoro di Marconi et al. (2023) la tendenza all’uso trasgressivo dei dispositivi, su cui i programmi educativi hanno un effetto positivo, sembra ricondurre a una carenza della funzione paterna, normativa o di “garanti metasociali” (Kaës, 2012). Infatti, uno stile parentale autorevole e in grado di gestire l’utilizzo dei dispositivi dei figli previene nei più piccoli lo sviluppo di UPMD (Gioia, Rega & Boursier, 2023).

Invece sulla disregolazione affettiva, altra componente della UPMD, tali programmi non hanno alcun impatto. Si potrebbe quindi ipotizzare che sia sottesa da problematiche più precoci, relative allo sviluppo primario, che è caratterizzato secondo Winnicott (1958) da tre processi:

1) L’integrazione del Sé, che avviene attraverso le cure materne.

2) La personalizzazione, che attiene allo sviluppo del senso di Sé nel proprio corpo.

3) L’acquisizione del senso di realtà, che è mediata dall’illusione nell’area dello spazio transizionale.

Winnicott usa il termine illusione nel suo significato etimologico principale, in quanto deriva dal latino in-lusio, composta da in-rafforzativo e ludere, che significa letteralmente “stare nel gioco”.

La madre/ambiente ha la funzione di somministrare al bambino una “dose” di realtà, attraverso tutti i sensi (vista, olfatto, tatto, udito), in modo corrispondente alla sua capacità di accettarla, consentendogli l’accesso prima al gioco e quindi, nel corso dello sviluppo, alle aree della conoscenza e della cultura come individuo integrato.

Lo statuto della realtà è quello dell’illusione condivisa, dove tutto ciò che è rappresentabile e pensabile si colloca nell’area della transizionalità. Un’esperienza con la realtà e l’alterità vissuta in modo inadeguato non permette al bambino di gestire progressivamente le frustrazioni e le delusioni, quindi di dare un senso all’esperienza. Ciò avrà conseguenze patologiche sullo sviluppo dell’individuo, caratterizzato da un approccio al mondo esterno non sufficientemente supportato dall’illusione (Saraval, 2003).

Da tempo alle due dimensioni dell’illusione/fantasia e della madre/ambiente/realtà si è aggiunta quella del virtuale. La realtà esterna, per quanto imponga delle frustrazioni, offre anche sollievo e soddisfazioni, mentre nel virtuale le cose funzionano come per magia, senza freni né limiti, allo stesso modo che nelle fantasticherie, senza prendere parte né al mondo reale né alla fantasia. Come afferma Serge Tisseron, intervistato nel documentario citato all’inizio — e su questo c’è accordo da parte di tutto il mondo della ricerca — è fondamentale limitare l’utilizzo degli schermi nei bambini sotto i tre anni, così come “non si mette la bistecca nel biberon”: sono cibi che, rispettivamente per il cervello e lo stomaco, non possono essere digeriti/elaborati.

È proprio nell’immersione nello schermo che avviene la vertigine dell’illusione, quando la realtà oggettiva, la cosa che ha odore, sapore e consistenza, è sostituita da informazioni, immagini, suoni, informazioni, sempre più intensi e vorticosi e privi di consistenza fisica, cui il bambino non è in grado di dare senso e che destabilizzano il suo mondo interno. La vertigine ha luogo nella dislocazione tra la dimensione degli oggetti reali e quella dei “contenuti”, gli oggetti virtuali, che danno l'”illusione” (qui intesa come percezione falsata) di essere vicini mentre sono lontani, dove esiste il paradosso di una vicinanza che è nel contempo distanza.

Il rischio è che, crescendo, il bambino continuerà a cercare quello stesso livello di stimolazione rimanendo costantemente frustrato e angosciato.

I bambini di oggi sono spinti prematuramente verso l’età adulta, oppressi dalla pervasività dei mass-media e dei modelli identitari del web. Con il bisogno di avere successo e di essere popolari, diventano quegli Adolescenti Digitalmente Modificati non integrati nel Sé e con un Io incerto, alle prese con i successivi processi di identificazione e di investimento nel mondo reale, abitati dalla paura del fallimento (Lancini, 2021; Pietropolli Charmet, 2022). Sono ragazzi che sembrano soffrire di una sorta di patologia nella normale maturazione dei fenomeni transizionali, che per McDougall (1982) è alla base dei fenomeni di dipendenza.

Sono loro che stanno pagando il prezzo del collasso dell’area dell’illusione, del venir meno della formazione della pelle psichica, dell’esperienza di sentirsi integro, della capacità negativa che permette di sostare in aree del sentire sconosciute prima che i pensieri si formino e di quell’holding necessari ad una regolazione interna degli affetti, delle sensazioni, delle emozioni.

A fronte di una realtà sempre più traumatica (guerre, pandemia, crisi climatica, dramma dei migranti) il soddisfacimento dei bisogni narcisistici e oggettuali viene demandato a schermi ultrastimolanti, che inducono alla ricerca spasmodica di novità e richiedono risposte istantanee (like, emoticon). È attraverso l’area cerebrale della ricompensa, continuamente sollecitata in un periodo critico per lo sviluppo del cervello, che ottengono una gratificazione immediata ma aleatoria, che si sostituisce alla sensorialità di un sorriso, all’ascolto di una voce, all’incontro con uno sguardo, a contatto con la pelle dell’altro.

 

Conclusioni

Sara, Anna, Piero e i loro genitori hanno bisogno di un’educazione all’uso consapevole, corretto e creativo dei media digitali, ma non basta.

Questi adolescenti, che forse sarebbe meglio definire “in modificazione”, hanno trovato nel virtuale un temporaneo rifugio dal loro dolore evolutivo (Biondo, 2017), in una sorta di tentativo di automedicazione, o sono già scivolati in una dimensione totalizzante e permanente?

Noi, come psicoanalisti, siamo sufficientemente “modificati” per offrire loro l’opportunità di ricreare quell’illusione di cui hanno bisogno attraverso una funzione transizionale?

Fino a che punto la nostra regolazione emotiva contro-transferale può tollerare il senso di vertigine e di impotenza che li accompagna?

Sono domande aperte: è necessario utilizzare un ascolto particolarmente attento e attivo (Marchiori & Moroni, 2022) con gli adolescenti che presentano UPMD (e certamente anche con i più piccoli, di cui non mi occupo nella mia attività clinica) per offrire loro uno spazio analitico dove sia possibile creare connessioni attraverso i loro linguaggi, veicolati dal corpo prima ancora che dalla parola. È importante poter entrare in risonanza con le loro dimensioni anche “virtuali”, cercandoli lì, dove sono, per recuperare una funzione trasformativa che si ponga a garanzia dei processi di pensiero, di significazione e di simbolizzazione, che permetta di modulare l’irruzione dell’angoscia e di avviare un’attività di rappresentazione di sé e dell’altro e dei processi di identificazione.

Può diventare così possibile favorire quelle esperienze creative che appartengono all’area dell’illusione condivisa, per integrare la vita on-line con l’esperienza del reale insieme all’altro.

—–

[1] Il documentario, di cui ho mostrato alcuni spezzoni durante la presentazione, è attualmente disponibile integralmente in rete su Vimeo.

[2] https://www.epicentro.iss.it/sorveglianza02anni/indagine-2022-risultati

Esposizione a schermi,-Le evidenze scientifiche. Il 22,1% dei bambini trascorre almeno 1-2 ore.

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Elisabetta Marchiori, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

lisbethmarchiori@gmail.com

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