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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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*Per citare questo articolo:

De Mari M., (2024) “L’adolescenza dissonante”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p.78-95

L'adolescenza dissonante

di Massimo De Mari

(Padova)Psicoanalista Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

                                                “La musica ti deve trasformare,

se io sto facendo musica  veramente

c’è una trasformazione continua

(Maria Pia De Vito)[1]

 

Il concetto di dissonanza in musica

In una successione melodica all’interno di una certa struttura armonica si possono trovare quelli che sembrano piccoli “incidenti di percorso“, delle note anomale rispetto a quello che l’orecchio si aspetta di sentire.

Sono note di passaggio, che alterano l’equilibrio della composizione per andare da un’altra parte, ad esempio in un’altra tonalità (modulazione) o per dare una certa coloratura al brano (ad esempio le cosiddette note “blues”) che magari nasce in tonalità maggiore, quindi in un clima tendenzialmente solare, che la nota blues drammatizza, incupisce o tende a far riflettere.

In molti casi, le dissonanze sono ricercate proprio per creare un effetto stridente con il contesto ed evocare nell’ascoltatore una sensazione perturbante, nel senso traumatico che intendeva Freud, cioè qualcosa di un-heimlich (non-familiare) rispetto alla situazione di piacevolezza che fino a quel momento si poteva percepire.

Freud (1919) fornisce due definizioni diverse del perturbante: nella vita reale, come si sperimenta ad esempio nell’adolescenza “…si verifica quando complessi infantili rimossi sono richiamati in vita da un’impressione o quando convinzioni primitive superate sembrano aver trovato uno nuova convalida” (110).

Il perturbante che appartiene al mondo della finzione letteraria e cioè della fantasia e della poesia viene invece considerato a parte da Freud, che considera che “tra le molte libertà concesse ai poeti c’è anche quella di scegliersi a loro capriccio il mondo che vogliono rappresentare, in modo che essa coincida con la realtà a noi consueta oppure se ne discosti per un verso o per l’altro”(111).

Troviamo l’effetto dissonante in tutti i generi musicali a partire dalla musica classica, ma si può dire che in particolare il jazz ne abbia fatta una sua caratteristica fondamentale e prende il nome di “tensione”, termine che in campo psicoanalitico non è molto lontano da quello di “pulsione”.

La tensione costituisce il punto di rottura di una determinata combinazione di accordi e scale e permette al solista, che sta effettuando un solo, di staccarsi dalla struttura di base, l’assetto “familiare” a cui l’orecchio si è abituato e andare da un’altra parte, spesso ignota anche per il musicista stesso, creando un’alterazione, una specie di trasgressione sonora, qualcosa che può risultare spiacevole e lascia un senso di attesa e di sospensione in chi ascolta (dove sta andando?).

Da un punto di vista tecnico le tensioni sono note che si aggiungono a un accordo, in sostituzione o in aggiunta alle note della triade fondamentale (tonica, modale, dominante), modificandone la sonorità. Come si può immaginare, più note si aggiungono alla triade fondamentale, più ci si allontana dalla sonorità originale dell’accordo. Lo studio delle tensioni è importante perché consente di aggiungere agli accordi indicati sul pentagramma alcune note che conferiscono particolare colore a quello che si sta suonando. Le tensioni degli accordi possono essere:

–       diatoniche, quando fanno parte della scala costruita sull’accordo;

–       non diatoniche, quando non fanno parte della tonalità.

Le tensioni non diatoniche, proprio perché non fanno parte della tonalità, danno all’accordo maggiore instabilità.

Solo quando quei passaggi dissonanti, solo apparentemente astrusi e deraglianti recuperano, per restare nella metafora freudiana, la strada di casa, abbiamo una sensazione di ritrovato equilibrio e quiete e l’ascolto può riprendere con maggior piacere perché ritroviamo qualcosa di già ascoltato, già conosciuto e quindi tranquillizzante.

Spesso le tensioni della composizione jazz costituiscono il punto di partenza dell’improvvisazione, l’elemento distintivo del jazz, la variazione sul tema, che arricchisce l’idea originale di nuovi spunti, apre orizzonti nuovi che possono allontanarsi anche di molto dalla struttura di base fino a dare la sensazione di essersi persi e di non riuscire più a trovare il bandolo di una matassa che poi invece, magicamente, ricompare e ci riporta alla sensazione familiare del tema, fino alle battute conclusive del brano.

Qualcosa di analogo, come è noto, succede nel percorso adolescenziale, in cui le pulsioni, tenute sopite nel lungo periodo di latenza, riemergono sotto una luce completamente nuova.

È un periodo, di conseguenza, caratterizzato da turbamento, disagio senza nome, tensioni non sempre facilmente risolvibili, che possono portare a quella condizione di “crisi psicologica” che può evolvere in tanti modi diversi, sia in positivo che in negativo.

La crisi psicologica

L’adolescenza costituisce un crocevia che mette l’individuo di fronte ad un passaggio di crescita e di sviluppo della personalità verso l’età adulta.

Non c’è un piano B, l’alternativa consiste nel fermarsi, prendersi una pausa e rimandare quel salto in avanti, così incerto e misterioso al punto da far paura.

“Il processo di individuazione dell’adolescenza – sottolinea Blos – è accompagnato da sentimenti di isolamento, di solitudine, di disorientamento. L’individualizzazione pone inequivocabilmente fine ad alcuni dei più carezzati sogni di megalomania dell’infanzia: l’individuo non potrà mai più pensare seriamente che essi si possano realizzare. La consapevolezza che l’infanzia è irrevocabilmente finita, che urgono impegni stringenti, che l’esistenza individuale stessa ha dei limiti ben netti, crea un senso di pressione, timore, di panico. Di conseguenza molti adolescenti cercano di rimanere indefinitamente in una fase tradizionale e questa condizione è chiamata adolescenza prolungata” (1980, 34).

Nella peggiore delle ipotesi si può andare incontro a una crisi, il cui esito è del tutto imprevedibile e può portare l’adolescente a sviluppare una problematica psichica significativa, di vario genere, dalla nevrosi alla depressione, alla psicosi o a strutturare la propria personalità in modo disarmonico, con tratti patologici di gravità variabile che possono incidere sulla funzionalità e sul grado di autonomia dell’individuo, influenzandone comportamenti, stili di vita e soprattutto incidendo significativamente sull’ambito relazionale.

L’adolescenza è il periodo in cui si strutturano i cosiddetti “disturbi di personalità” più conosciuti, borderline, dipendente, narcisistico, ossessivo, ormai considerati a livello clinico alla pari, per frequenza e importanza, delle patologie conclamate.

Il disturbo borderline, termine coniato per la prima volta, come ricorda Bollas (2018), nel 1953 da Robert Knight, direttore della Menninger Clinic di Topeka (Kansas) è forse quello più abusato soprattutto nell’adolescenza per descrivere forme diverse di disagio in cui, come osserva Bollas (ibidem) ritroviamo “l’intensità della rabbia che fa seguito a ciò che può apparire come una sognante idealizzazione di sé e degli altri” (81-82).

E’ una forma di dissonanza, spesso sfumata, che può sfuggire all’osservazione anche delle persone più vicine, alla pari della devianza, cioè quell’orientamento di personalità in cui la funzione del Super Io risulta particolarmente debole o in scacco, per cui l’individuo si relaziona con la società e con l’altro perseguendo unicamente il proprio interesse personale, non riuscendo a mettere un argine alle pulsioni, a costo di trasgredire non solo alle leggi ma a tutte le regole sociali, scritte e non scritte, che regolano la convivenza civile.

Viviamo in un periodo storico in cui sempre più spesso la cronaca segnala episodi di discontrollo pulsionale che porta ad agiti violenti, spesso sanguinosi, in cui i protagonisti sono adolescenti o giovani adulti che vivono una prolungata adolescenza, scontando in molti casi, quei terribili due anni di pandemia in cui il loro percorso di sviluppo psico-affettivo è rimasto bloccato. 

Lavorando in campo criminologico ho maturato la convinzione che l’individuo con personalità deviante viva con inadeguatezza l’identificazione con modelli troppo impegnativi e penalizzanti che finiscono per diventare elementi di realtà persecutori e frustranti al punto da essere evitati o combattuti aggressivamente.

È in questa fase che l’adolescente finisce per negare tutto quello che fa parte di una vita sociale regolata dalle norme etiche e di comportamento e può scegliere il crimine come modello identificativo.

 

 

Adolescenti interrotti[2]

Winnicott (1956), citato da Moroni (2022), paragona l’adolescenza ad un “dibattersi nella bonaccia” descrivendo quella fase di inutilità che l’adolescente si trova ad affrontare quando lotta contro l’isolamento per sentirsi “reale”, vero, identificandosi in atteggiamenti di sfida in parte fisiologici. Ma qualora vi siano state delle deprivazioni, “cioè la perdita di qualcosa di buono che ha svolto un ruolo positivo nell’esperienza del bambino fino ad un certo momento, e che poi è stato ritirato” (157), questi atteggiamenti sfidanti e provocatori degenerano in tendenza antisociale e comportamenti delinquenziali.

Samuele[3] è nato in carcere. Sua madre, da cui è legato simbioticamente in una relazione di estrema dipendenza, costituisce il suo unico riferimento genitoriale. Non ha mai conosciuto il padre, anche lui dedito ad uno stile di vita deviante con problemi di tossicodipendenza. La madre è cresciuta in una famiglia appartenente ad una cultura mafiosa, di cui ha assunto i modelli etici e comportamentali, che poi ha trasferito sul figlio. Samuele ha cominciato molto presto a fumare e ad assumere sostanze, dalla cannabis alla cocaina. Quando lo vedo per la prima volta ha appena compiuto 20 anni ma non è mai uscito dalle istituzioni carcerarie. Dopo la nascita ha seguito il destino della madre, seguendola nelle sue entrate e uscite da diversi istituti penitenziari, in una costante coazione a ripetere reati di varia natura, dal furto alla rapina allo spaccio di droga. Poi, in età molto precoce, a seguito della frequentazione di coetanei provenienti da famiglie ugualmente devianti, si è reso responsabile dei primi reati e quindi ha vissuto, per tutti gli anni a seguire, negli Istituti Penali Minorili (IPM) fino all’età adulta.

Irene Grado (2008) sottolinea: “La psicoanalisi ricorre a metafore come quella di “codice paterno” o di “nome del padre” come rappresentante della legge per riferirsi alla costituzione, nel corso dello sviluppo psichico dell’individuo, di una funzione deputata a separare il bambino dalla matrice simbiotica originaria che ne soddisfa i bisogni d’accudimento e protezione primari, per avviarlo alla responsabilizzazione e all’autonomia. Se i rappresentanti reali di tale funzione psichica sono carenti nella vita affettiva e relazionale del bambino, è difficile per lui interiorizzare una funzione normativa e costruire dunque l’istanza psichica dell’ideale dell’Io, che consente all’individuo di attribuire valore alla norma a prescindere dalla presenza di un padre reale o di un suo sostituto nel mondo esterno. Fattori di rischio più specifici sono la provenienza da famiglie multiproblematiche (con problemi socio-economici e relazionali), la residenza in un territorio a rischio, le ridotte capacità di simbolizzazione e mentalizzazione che comportano la tendenza ad esprimere e a comunicare attraverso l’azione piuttosto che il linguaggio, i propri conflitti. Quindi, i fattori di rischio vanno dalla vulnerabilità individuale, al disagio familiare e relazionale, e combinandosi fra loro possono far emergere i cosiddetti indicatori di rischio, che per la devianza minorile sono stati individuati, soprattutto, nell’abbandono scolastico, nell’abuso di droghe, nella violazione delle norme, tali comportamenti possono essere considerati i precursori più vicini di un vero e proprio disadattamento sociale” (4-5).

Samuele riassume in sé tutte queste caratteristiche e manifesta fin dal primo momento un falso sé guascone e provocatorio che mira a stabilire subito il suo posto nella gerarchia non scritta delle relazioni con gli altri ristretti.

Anche con gli operatori è inizialmente richiedente e spocchioso, negando le accuse che lo hanno portato in carcere e mettendo in atto spesso comportamenti etero e autoaggressivi che tendono a concentrare continuamente l’attenzione su di sé.

Non passa molto tempo prima che la personalità immatura e fragile di Samuele si manifesti: ogni volta che ha la possibilità (telefono o videochiamata) di parlare con la madre, anche lei tuttora ristretta in carcere in un’altra città, reagisce con delle crisi pantoclastiche di abbandono e disperazione.

Al comportamento provocatorio dei primi mesi si sostituisce un vissuto francamente depressivo che provoca un sostanziale cambiamento anche nella reazione degli operatori che diventano protettivi e accudenti.

Questo fa sì che a Samuele siano offerte presto occasioni di occupare il tempo in modo costruttivo ai fini di un suo possibile reinserimento all’esterno.

Dopo alcune esperienze positive accede alla possibilità di lavoro esterno (denominata “articolo 21”) molto ambita da tutti i detenuti perché dà la possibilità di restare fuori dal carcere per l’intera giornata, impegnati in un’attività lavorativa che ha la doppia valenza di essere formativa e remunerativa sul piano economico.

È a questo punto che gli aspetti strutturali precoci devianti della personalità di Samuele riemergono, spingendolo ad avere comportamenti incoerenti con l’impegno preso, che vengono segnalati dagli operatori esterni.

Se in un primo momento Samuele si dimostra attivo sul lavoro, con il passare dei giorni è sempre più pigro e svogliato, passa il tempo lavorativo a guardare gli altri lavorare o peggio a disturbarli, entrando a volte in conflitto. Non passa molto tempo che gli operatori si accorgono che Samuele, insieme ad altri coetanei con cui condivide quell’esperienza, ha organizzato di nascosto e gestisce un piccolo mercato di sostanze stupefacenti, motivo per cui il beneficio gli viene immediatamente sospeso e torna a vivere la routine quotidiana del carcere, diventata ormai la sua dimensione vitale.

L’immagine che ho sempre davanti agli occhi di lui mi ha sempre fatto venire in mente McDonald (1970) quando afferma che “la musica può anche funzionare come un oggetto transizionale acustico come l’orsacchiotto o la copertina per il bambino, per fornire conforto quando la madre – o il padre – non sia disponibile sia fisicamente che emozionalmente” (3).

È l’immagine di questo bel ragazzo biondo, dagli occhi azzurri e lo sguardo perso, che cammina su e giù per i corridoi della sezione, concentrato sulla musica che ascolta ininterrottamente dagli auricolari che gli ha regalato la mamma.

 

 

Ansia da palcoscenico (teatro e vita)

Il passaggio dalla fase di latenza dell’infanzia alla pubertà ha in sé il trauma dell’abbandono di un tempo potenzialmente felice (fatte salve le mille possibili cause di sofferenza che la vita può riservare anche a questa età) e l’ingresso in una fase della vita in cui i cambiamenti fisiologici a cui va incontro il corpo hanno un effetto perturbante di discontinuità e passaggio a qualcosa di nuovo che si sente che c’è ma che ancora non è percepibile né comprensibile.

Si passa quindi da un’armonia conosciuta e rassicurante a uno spartito in cui le note si susseguono in modo imprevedibile e fuori dalle regole conosciute, creando suoni a volte striduli o fastidiosi, senza un apparente senso logico. 

Forse per questo non tutti gli adolescenti vivono la musica allo stesso modo; nella pratica clinica mi è capitato spesso di imbattermi in tipologie di pazienti in cui le caratteristiche di personalità si sposavano alla perfezione con i gusti musicali.

Non c’è solo l’adolescente ribelle, come scriveva Giaconia (vedi l’introduzione a questo KnotGarden), che ascolta musica rock o metal in cui può canalizzare la propria aggressività.

I Conservatori di Musica, che pure da anni hanno aperto dipartimenti di Musica Jazz e, più recentemente, anche di Musica Pop, continuano ad essere affollati di giovanissimi che chiedono di formarsi allo studio di uno strumento o della vocalità (canto lirico, canto barocco), in ambito classico.

È uno studio più tradizionale, segnato da regole a volte rigide, che non lasciano spazio all’improvvisazione e richiedono un lavoro lungo e sistematico.

Tale studio non è esente da rischi per lo sviluppo della personalità perché può portare alla formazione di tratti dipendenti e ossessivi, in particolare nello studio di uno strumento che diventa, per il giovane musicista, una vera e propria “protesi” del proprio corpo con cui convivere per 8-10 ore al giorno, tutti i giorni della settimana.

Per non parlare dello studio del canto in cui, contrariamente alla più popolare modalità canora che prevede l’uso del microfono, lo studente impara ad utilizzare il proprio corpo, in particolare la respirazione, l’apparato fonatorio, il diaframma e i muscoli intercostali come le parti di uno strumento, il corpo appunto, attraverso il quale si può riuscire a produrre quei suoni in grado di espandersi anche in grandi sale teatrali senza l’aiuto di microfono, grazie all’amplificazione naturale che l’apparato anatomo-fisiologico, così educato, può esprimere.

Se, come stiamo considerando, il tempo in cui si formano i nuovi musicisti è quello dell’adolescenza, si capisce facilmente come i temi del corpo, del controllo, dell’acquisizione di una competenza finalizzata a una prestazione e a un giudizio da parte della realtà esterna (un Super-io giudicante) abbiano un significato amplificato, che mette insieme aspetti simbolici e reali.

Come sottolinea Julie J. Nagel (2015) “esibirsi in pubblico implica che il musicista non solo mostri le sue capacità, ma anche che sia in grado di andare oltre una mera esecuzione della partitura, per poter trasmettere un’interpretazione artistica ed espressiva con sicurezza tecnica e virtuosismo. In altre parole, le richieste paradossali dell’esibizione pubblica chiedono al musicista di mantenere il controllo (di memoria e tecnica) e al contempo saper perdere il controllo, questione importante nella capacità di esibirsi per poter essere in grado di trascendere la partitura musicale. La perdita di controllo ha un significato particolare per ogni individuo e può favorire l’ansia nei musicisti con storie personali ed esperienze nel periodo dell’infanzia che si prestano a questa complessa dinamica” (211).

Se trasferiamo questa dinamica al periodo adolescenziale, e scriviamo “adolescente” al posto di “musicista” ci rendiamo conto della sovrapposizione sul piano fantasmatico degli stessi temi (il controllo e l’esibizione del proprio corpo, la necessità di acquisire delle regole di vita ma la possibilità di trasgredirle, il bisogno di essere accettati – applauditi – dal mondo esterno, un feedback di cui abbiamo assoluto bisogno per poter definire la nostra identità e affermare la nostra personalità) che caratterizzano questo periodo così complesso dello sviluppo psico-affettivo.

Come viene ampiamente trattato in altre parti di questo KnotGarden, il lockdown ha avuto un effetto devastante sul piano psicologico soprattutto per gli adolescenti che sono stati privati di questo indispensabile confronto con la realtà proprio nella fase in cui ne avrebbero avuto assoluta necessità.

Ne è conseguito lo sviluppo predominante di un sintomo, l’ansia, che ha tutte le caratteristiche dell’ansia da palcoscenico dei musicisti ma in questo caso ha a che fare con il palcoscenico della vita, che per chi ha vissuto il lockdown da adolescente, si è arricchito di nuovi fantasmi e nuove paure che hanno aumentato a dismisura il senso di inadeguatezza.

La musica è stata una delle poche chiavi di salvezza in quel periodo, per poter trattenere o cercare di recuperare quanto più possibile qualcosa che avesse un effetto rassicurante e contenitivo di quest’ansia.

Grazie alla possibilità di superare mura e isolamenti, di poter essere ascoltata, prodotta, espressa e divulgata anche in tempi in cui ogni altra possibilità di incontro e comunicazione era stata preclusa, la musica ha permesso di mantenere una forma di sopravvivenza psichica, senza la quale le conseguenze sarebbero state ancora più devastanti.

Nulla ha potuto impedire che personalità più fragili e più esposte, all’interno di situazioni familiari disfunzionali e precarie, andassero incontro a fenomeni di dissonanza emotiva, perdendo la capacità di elaborare in modo simbolico l’esperienza deprivante che stavano vivendo.

Le conseguenze più evidenti sono emerse nel periodo successivo al lockdown, soprattutto a carico di adolescenti o giovani adulti, spesso incapaci di recuperare il filo di quel percorso di crescita, facili prede di un’ansia generalizzata, spesso non in grado di controllare l’aggressività che viene agita o canalizzata in comportamenti di tipo dipendente o deviante.

 

 

La musica come strumento per favorire il recupero della funzione simbolica

Credo che alla base di queste considerazioni, come un filo rosso che le lega insieme, ci sia la questione della funzione simbolica, cioè quella capacità di confrontarsi con la realtà esterna tollerandone le frustrazioni e trovando dentro di sé gli strumenti per elaborare le tensioni e recuperare il proprio equilibrio a livello della mente, cioè senza essere costretti a supplire all’incapacità psichica con gli agiti, cioè quei comportamenti, molto spesso disfunzionali, che ne prendono il posto e portano alla coazione a ripetere piuttosto che alla soluzione dei problemi.

Il carcere è per molti versi il luogo emblematico di questa difficoltà e forse proprio per questo i progetti di recupero che vengono attuati al suo interno, hanno qualche effetto positivo proprio quando vanno nella direzione di favorirne il ripristino.

Tutte le attività che hanno a che fare con la musica possono più di altre risultare utili e proprio per questo, negli ultimi anni si sono moltiplicate le proposte di laboratori musicali all’interno degli istituti penitenziari.

Come è noto, a seguito delle migrazioni, la popolazione all’interno degli istituti di pena è costituita per una grande percentuale, quasi il 70%, da extracomunitari.

Di conseguenza anche le attività di recupero finalizzate al reinserimento, dovendo tenere conto dei limiti linguistici e culturali dei detenuti sono sempre più orientate ad attività come la musica, in quanto linguaggio universale, che diventa terreno privilegiato di riflessione individuale e scambio interpersonale.

Ne citerò solo un paio dei più interessanti di cui sono venuto a conoscenza.

 

 

Progetto “I suoni della bellezza” di Nicola Guerini[4]

Il progetto ideato dal direttore d’orchestra Nicola Guerini in carcere parte dall’esperienza dell’ascolto della musica classica, che si trasforma in dipinti, ispira i detenuti, riesce a fare uscire emozioni che si trasferiscono sulla tela, come percorsi cromatici dentro il suono. Il progetto ha per titolo “I Suoni della Bellezza” e si propone di stimolare le emozioni evocate dalla musica e trasformarle in qualcosa di artistico attraverso la pittura. Ne emergono quadri che parlano di dolore, fallimento, ma anche di commozione, sorrisi, voglia di rinascita. Guerini, direttore d’orchestra e divulgatore, da anni promuove l’ascolto della musica in carcere, come percorso educativo che genera empatia e libera emozioni. Il progetto, con la collaborazione del Rotary Club Verona e dell’Inner Wheel Padova, è divenuto protocollo con il Provveditorato di Padova per 16 istituti penitenziari del Triveneto. “La musica è linguaggio universale che guida nei luoghi dell’anima – sottolinea il maestro Nicola Guerini. – È universale perché i suoi codici sono decifrabili da tutti indipendentemente dalla cultura, la lingua, la religione. Ma il suo insegnamento più grande è l’ascolto. Un ascolto consapevole che abbatte le barriere e si trasforma in dialogo per una nuova modalità di convivenza” (Web).

 

 

 

Progetto “CO2” di Franco Mussida[5]

Franco Mussida è stato il chitarrista della Premiata Forneria Marconi (PFM), il primo gruppo di rock-progressive che si è affermato in Italia ed è riuscito a farsi notare anche all’estero.

Dopo i primi dischi di esordio la PFM fu adottata dagli Emerson Lake and Palmer, trio noto in tutto il mondo, celebre soprattutto per i funambolismi tecnici del tastierista Keith Emerson e per le loro esibizioni live, caratterizzate dall’imponente uso della tecnologia, in particolare dei primi giganteschi sintetizzatori che Emerson fu tra i primi ad inserire nella strumentazione dei tastieristi rock.

La PFM, negli anni ’70, aveva una sua base logistica a Rimini, in particolare in un locale che si chiamava “L’altro mondo” dove si esibivano molto spesso.

Mi è capitato di partecipare sovente ai loro concerti e per me, chitarrista in erba, Mussida rappresentava una specie di mito nostrano, sullo stesso piano dei chitarristi più celebri dell’epoca, da Steve Howe (Yes) e Steve Hackett (Genesis) a Robert Fripp (King Crimson) solo per citarne alcuni appartenenti allo stesso genere musicale.

Quando ha smesso di girare il mondo, Mussida, pur continuando a comporre e a suonare, ha cominciato a lavorare sull’utilizzo della musica in chiave riabilitativa e ha creato un progetto che ha proposto nelle carceri italiane.

Il progetto si chiama CO2 ed è un progetto artistico-culturale unico, a suo modo rivoluzionario. Il suo scopo è creare una rete nazionale di audioteche nelle carceri (ad oggi, 2024, sono 11) capaci di offrire una diversa chiave di ascolto della Musica strumentale, trasformandola in strumento di supporto e di sollievo per la struttura affettiva dei detenuti.

Il progetto è entrato in servizio nella sua fase sperimentale nel 2013, grazie alla collaborazione del Ministero della Giustizia, nelle carceri di: Monza, Opera, Rebibbia femminile (RM) e Secondigliano (NA) coinvolgendo circa 100 detenuti sperimentatori.  È stato seguito nel suo svolgimento oltre che da un comitato scientifico, anche dal dipartimento di scienze sociali dell’Università di Pavia. Il cuore del progetto sono particolari audioteche divise per stati d’animo e che contengono brani di sola musica strumentale catalogati e offerti da artisti, musicisti, o appassionati. I 27 stati d’animo sono riassunti in 9 grandi famiglie emotive di riferimento. Attraverso questo metodo di ascolto, i detenuti imparano a considerare e a nominare l’insieme di queste famiglie orientandosi tra di loro in base al proprio soggettivo temperamento.

Ho avuto modo di parlare personalmente con lo stesso Mussida di questo progetto che ho trovato particolarmente interessante. Nel presentarlo lo descrive così: “L’energia fisico-emotiva che vive nella Musica del mondo (nella realtà esteriore e interiore) coinvolge il fenomeno della vibrazione. Nel suo manifestarsi nel suono, quando incontra la nostra struttura emotiva, genera “energia del sentire”. Un fenomeno che possiamo chiamare “Fono-sintesi”. L’invisibile emotivo individuale, a seconda delle sue qualità, a seconda delle caratteristiche di sensibilità e pregnanza del filtro emotivo personale, libera in ciascuno specifiche emozioni e immaginazioni. Si dischiude così per noi la possibilità di osservare la nostra vita interiore. dolore, quello nostalgico del distacco. La “Musica” e la “Persona” sono una sola cosa, l’una abita l’altra e viceversa. Eppure, nonostante si amino, alla follia in fondo si conoscono davvero poco. Si usano da sempre, ma sono una coppia che vive insieme per abitudine ormai da millenni, ma che oggi mostra pesanti segnali di crisi. Sono tante le domande che bussano quando si è di fronte al mistero che trasforma la musica in emozioni. A queste domande, in una prima delle tre fasi della mia vita di musicista ricercatore, più che performer o compositore, ho evitato la ricerca di risposte razionali, ho preferito sperimentare direttamente, incontrando gente, persone con cui condividere suonando e cantando, l’esperienza della musica. In una prima fase, dal 1987 al 1997 è stata prevalentemente una esperienza del fare Musica insieme. Esperienze di ascolto e di pratica dell’intervallistica attraverso la creazione di una corale al COC nel carcere di San Vittore, il raggio dei tossico dipendenti, e la creazione di gruppi musicali, di saggi e progetti di formazione per operatori musicali nell’area del disagio giovanile. Il 1987 coincide anche con la composizione della Sinfonia Popolare per 1000 Chitarre. Dal 1998 al 2010 una fase di studi mirati sulla natura emotiva della persona, su caratteri e temperamenti. Dal 2012 al 2019 in concomitanza con il progetto CO2 e lo studio progressivo delle cinque componenti oggettive e della sesta soggettiva del codice musicale l’interesse che ha coinvolto l’ascoltatore non più solo per il suonare o l’esprimere. Si è elaborata la pratica del sentire, quello che viene definito “ascolto emotivo consapevole” (web).

A questo proposito Mussida (2019) scrive: “Anche se non si è musicisti, ascoltare in modo attento evidenza che ogni brano musicale ha una sua struttura.  Nelle sinfonie, a distinguerle sono i tempi. Ciascuno porta un nome associato a uno stato di fluidità e a stati emotivi (Adagio – Andante – Allegro). Nella forma canzone, a fare la differenza è l’identità del genere e la sua forma. Le ballad sono forme musicali applicate a tanti generi, ma tutte portano a comunicare essenzialmente stati emotivi riflessivi. Le forme legate ai generi spaziano su tutte le aree emotive, da quelli con tendenza sognante, flemmatica, malinconica (Fado, Bossanova, certa musica etnica irlandese), a quelli tendenti alla volatilità e all’entusiasmo come i tanti sottogeneri che spaziano dal Flamenco al Rock e le danze come lo Ska, il Reggae, la Taranta, la Giga” (web[6]).

 

 

Conclusione (ripetere, rielaborare… riaccordare)

Sappiamo che Freud aveva una certa resistenza verso la musica eppure, come in altre tematiche con cui non aveva particolare dimestichezza, ne era attratto, spinto dalla curiosità di capire. La letteratura ci rimanda la sua frequentazione con Max Graf, noto compositore e critico musicale austriaco, padre di Herbert (il piccolo Hans). Graf, in Nagel (2013), a proposito dei suoi studi musicali, basati sulle teorie freudiane, affermava: “La musica funziona per l’ascoltatore come la strada per accedere all’inconscio e come un modo per migliorare l’equilibrio psichico tra l’inconscio, il preconscio e il conscio” (15).

Parafrasando ancora una volta i termini che musica e psicoanalisi condividono, mi piace concludere pensando alla funzione della musica per ciascuno di noi e in particolare nell’adolescente che ho definito “dissonante” come alla nota funzione psichica del ripetere e rielaborare che permette di sciogliere i conflitti e i nodi psichici che rallentano o bloccano la crescita psicoaffettiva.

A questi due termini, ben noti alla psicoanalisi, aggiungerei quella di “ri-accordare”, sempre pensando alla capacità di ritrovare l’assonanza, come per uno strumento che ha perso l’accordatura e non è più in grado di riprodurre le emozioni che il musicista ha in mente mentre sta suonando se non in modo sgraziato e stridulo.

 

Note

 

[1] Ho tratto questa frase da un’intervista a Maria Pia De Vito contenuta nel libro “Tra psicoanalisi e musica” (Alpes, 2015, 128). La De Vito è forse la più nota cantante jazz italiana, molto conosciuta anche all’estero per le sue qualità compositive e interpretative.

[2] Parafrasi del titolo del film “Ragazze interrotte(1999) diretto da James Mangold, ambientato in una clinica psichiatrica per disturbi della personalità.

[3] Nome di fantasia, la storia di questo paziente è stata travisata in modo da non essere identificabile.

[4] Nicola Guerini con il Parlamento della Legalità Internazionale. Tra l’armonia della musica e note di bellezza.

[5] La musica in carcere per educare l’ascolto.

[6] Progetto Co2.

Bibliografia

 

Bollas C. (2018). L’età dello smarrimento. Milano, Raffaello Cortina.

Blos P. (1980). L’adolescenza. Un’interpretazione psicoanalitica. Milano, Franco Angeli.

De Mari M. (2015). Jazz e improvvisazione. Intervista con Maria Pia De Vito. In De Mari M., Carnevali C., Saponi S. (a cura di), Tra psicoanalisi e musica, Roma, Alpes.

Freud S. (1919). Il perturbante.  O.S.F., 9.

Grado I. (2008). La comunità per minori come modalità di contenimento per lo sviluppo relazionale, affettivo ed emotivo?.  Roma, Alpes.

McDonald M. (1970). Transitional tunes and musical development. The psychoanalytic study of the child, 25, 503-20.

Moroni A. (2022). Il male in adolescenza. Roma, Alpes.

Mussida F. (2019). Il pianeta della musica. Milano, Salani Editore.

Nagel J.J. (2013). Melodies of the mind.  London, Routledge.

Nagel J.J. (2015). La paura da palcoscenico nei musicisti: una prospettiva psicodinamica. In De Mari M., Carnevali C., Saponi S. (a cura di), Tra psicoanalisi e musica, Roma, Alpes.

Winnicott D. (1956). La tendenza antisociale. In Il bambino deprivato. Le origini della tendenza antisociale, Milano, Raffaello Cortina, 1986.

Massimo De Mari, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

massimodemari@gmail.com

*Per citare questo articolo:

De Mari M., (2024) “L’adolescenza dissonante”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p.78-95

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