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Henry Mancini

di Cristiano Lombardo

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Se in questa immagine non riconoscete il volto di nessuna celebrità non preoccupatevi, è normale, non c’è niente di strano, Henry Mancini ha sempre preferito che a parlare per sé – anzi a suonare – fosse la sua musica. Una cosa strana al giorno d’oggi, in un tempo nel quale l’immagine di un artista è parte integrante del suo modo di fare musica, o addirittura la precede.

Tutto era cominciato con il lavoro dei fratelli Lumiere – la prendo larga – i quali erano riusciti a catturare su pellicola delle immagini in movimento e a proiettarle su un grande schermo bianco. A causa dei limiti intrinseci ai mezzi tecnici dell’epoca le immagini non erano ancora affiancate dal parlato degli attori sulla scena, ma erano accompagnate da un commento musicale spesso affidato a piccole orchestrine o a pianoforti solisti. Non potendo veicolare il senso delle parole pronunciate dagli attori, era compito della musica quello di riuscire a trasmettere il più efficacemente possibile il tono affettivo delle immagini che si avvicendavano sullo schermo: motivetti allegri per commedie, magari un poco più concitati quando si trattava di inseguimenti e situazioni rocambolesche come quelle delle comiche, grandi movimenti orchestrali per situazioni drammatiche. L’effetto era così riuscito che, di fatto, musica e commento sonoro non avrebbero mai più abbandonato il mondo del cinema, diventando parte integrante dell’opera filmica.

Oggi quando viene composto un tema originale per una pellicola si parla di “film scoring” per distinguerlo da quella che viene comunemente chiamata colonna sonora (in inglese soundtrack) che consiste invece in una sequenza di musiche già note e non originariamente composte per un film. Molti compositori provenienti dall’ambito classico sono stati motivo di ispirazione per musiche da film a causa del loro stile iconico e immaginifico, giusto per fare qualche nome possiamo citare Tchaikovsky, Prokofiev, Strauss, Holst e Wagner[1].

Tra gli altri compositori che invece hanno influenzato indirettamente il film-scoring possiamo citare Claude Debussy, capace come nessuno di raccogliere suggestioni musicali nuove e fonderle insieme agli elementi della tradizione classica, dando luogo ad uno stile personalissimo, moderno ed attuale. Ma vi sono anche dei compositori a cui il cinema ha dato nuovo lustro e visibilità che durante la loro vita furono artisticamente fraintesi o addirittura ignorati; per esempio Erik Satie, autore di splendide sonate moderniste per pianoforte[2], che lo stesso Debussy aveva conosciuto in un cabaret nei pressi di Pigalle, Le Chat Noir. Mentre in quel locale di Parigi il giovane Satie muoveva i suoi primi passi, dall’altra parte dell’oceano una nuova classe di compositori e musicisti creava contaminazioni tra generi musicali differenti, finora considerati antitetici: come il repertorio classico, il jazz e il blues[3], e questo anche alla luce delle crescenti richieste artistiche che giungevano da Hollywood e Broadway.

Trovo curioso che alla fine nell’evoluzione del cinema, così come in quella dell’uomo (fin dalla gravidanza) esperienze ritmico/musicali abbiano finito col precedere il parlato[4], creando le condizioni prima di tutto sonore per l’instaurarsi del linguaggio. Nelle fiabe e nelle filastrocche per i bambini, ma anche nella normale conversazione o nella poesia per gli adulti, ritmo e prosodia dopo avere preceduto la semantica delle parole, ne sono poi diventati il necessario “accompagnamento”. Allo stesso modo nel cinema, la musica dopo avere preceduto i dialoghi ed il sonoro ora ne diventava l’inscindibile complemento, depositaria del tono e del senso affettivo della scena.

«Sì ma Henry Mancini che c’entra con tutto questo?» Direte giustamente! Un attimo di pazienza ancora, ci sto arrivando. Sono sempre stato colpito dalla figura dell’analista come pianista di un saloon nel vecchio west, che intesse trame sonore, spesso estemporanee (attenzione non nel senso cattivo del termine, semmai in quello creativo) mentre intorno a lui si sviluppa la scena. Lui suona e non vede (in analisi è il paziente che spesso è di schiena ma il senso non cambia, guardare troppo la scena con gli occhi della coscienza può essere fuorviante) ma “sente” quel che sta accadendo ed è compartecipe in modo discreto. Non a caso un tempo si sentiva dire scherzosamente a qualche anziano collega: «non si spara sull’analista!», appunto come “non si spara sul pianista”, cartello sempiternamente appeso alla parete a cui era appoggiato il pianoforte di chi suonava nel saloon e dietro alle cui spalle poteva accadere davvero di tutto.

Il lavoro sul “processo” in psicoanalisi si svolge con il paziente attraverso le parole, necessario ponte comunicativo, intersezione tra i due locutori, ma trovo giusto affermare che vi è anche una parte cospicua del lavoro analitico che passa attraverso aspetti sonoro-musicali, spesso preconsci che pervadono la stanza d’analisi precedendo il linguaggio. Come un bambino piccolo è molto più concentrato sul tono del genitore che gli sta parlando, così non di rado può accadere che durante certe fasi particolari dell’analisi i nostri pazienti siano più attenti a come diciamo loro le cose, piuttosto che al contenuto manifesto del discorso. Questo talvolta può anche generare un qualche dispiacere all’analista, che come dice Ogden, spesso si trova a lottare con le parole nel difficile tentativo di dar forma alle proprie associazioni, oltre che a quelle del paziente, salvo poi sentirsi dire da lui: “non ricordo bene quello che mi ha detto dottore, ma il suono della sua voce mi ha rassicurato e mi ha fatto pensare a…”. Talvolta può anche trattarsi di una semplice difesa, ma in altri casi è come se il registro sensoriale ed affettivo prevalesse su quello dei significati. Io credo che non dovremo avercene a male, perché si tratta di momenti preziosi della cura, un po’ come quei passaggi di un film nei quali la musica, che fino a quel momento era rimasta delicatamente di sottofondo, facendo da cornice (setting) al parlato della scena, improvvisamente balza in primo piano e ci rapisce creando una sinestesia con le immagini.

 

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[1] Per una rapida carrellata vedere La classica al cinema » Sistema Bibliotecario di Milano (biblioteche.it)

[2] Come le note Gymnopédies e Gnossiennes che potete ascoltare qui: 1 Hour Classical Music – The Best of Erik Satie (Piano Masterpieces – Full Recording) [HQ] (youtube.com)

[3] Ne ho già parlato in Rapsodia in Blue — Centro Veneto di Psicoanalisi Giorgio Sacerdoti

[4] KnotGarden 2024/1 Lombardo — Centro Veneto di Psicoanalisi Giorgio Sacerdoti

Il film-scorer, cioè il compositore di musiche originali da film – un po’ come l’analista al lavoro e il pianista da saloon – crea una trama e un ordito sonoro che accompagnano la scena senza mettersi mai in primo piano, cercando piuttosto di cogliere il tono emotivo della scena e restituirlo agli spettatori “accordato” secondo il proprio punto di vista. Certo di tempo ne è passato da quando anonimi pianisti e orchestrine accompagnavano con discrezione le pellicole del cinema muto, ed oggi alcuni compositori sono diventati delle vere e proprie superstar alla guida di multinazionali come Hans Zimmer (il compositore di Cristopher Nolan); spesso il loro scoring, su espressa richiesta del regista, è sempre in primo piano, assordante e ossessivo; va da sé che in questo caso la mia metafora con l’analisi non sia più calzante, sono cambiati i tempi.

Henry mancini[1] però non era niente di tutto questo. Enrico Nicola Mancini, era nato il 16 aprile del 1924 in un piccolo quartiere di immigrati italiani a Cleveland, una sorta di “Little Italy” in cui la famiglia, originaria degli Abruzzi, era rimasta per poco, per poi trasferirsi successivamente ad Aliquippa, una modesta cittadina della Pennsylvania. Il padre di Henry, Quintiliano, che nella vita faceva l’operaio siderurgico era un amante della musica e un discreto suonatore di flauto, Henry già ad otto anni mostrò interesse per la musica e così il padre gli regalò un ottavino e da lì cominciò la sua grande avventura musicale. Più grande fece un’audizione per la Juilliard School of Music di New York eseguendo due pezzi per pianoforte che testimoniavano il suo eclettismo musicale e il suo talento: una sonata di Beethoven e Night and Day di Cole Porter. Fu preso non molto tempo dopo, ma le cose non andarono come aveva sperato, il corso di composizione sarebbe stato attivato solo l’anno successivo e così egli trascorse buona parte del primo anno a migliorare le proprie doti pianistiche, poi appena poco più che maggiorenne fu chiamato sotto le armi in occasione della Seconda Guerra Mondiale. Dopo l’addestramento conobbe altri musicisti che erano stati reclutati da Glenn Miller per suonare nelle band dell’Air Force e così fu assegnato alla ventottesima Band dell’Aeronautica Militare Americana, dove restò fino a quando vi fu necessità di incrementare le fila dei soldati operativi in Europa. Fu mandato in Francia fino alla fine della guerra, partecipando nel ‘45 alla liberazione del campo di concentramento di Mauthausen[2].

Dopo avere suonato il piano per diverse orchestre e affinato le proprie capacità di compositore, Mancini si trasferì a Los Angeles dove lavorò alcuni anni nell’industria del cinema come freelance prima di essere messo sotto contratto dalla Universal Pictures. In oltre 50 anni di onorata carriera Henry Mancini compose le colonne sonore di oltre 100 film – una media di più di due film all’anno! – e parliamo solo di materiale originale. Fu nominato 18 volte agli Oscar vincendo 4 statuette, 20 Grammy e 2 Emmy Awads, pubblicò o collaborò alla bellezza di una novantina di album, alcuni dei quali scalarono le classifiche di vendite portando alcuni dei suoi pezzi a diventare delle vere e proprie hit. Diresse qualcosa come 600 sinfonie nell’arco della sua vita, collaborando con le maggiori orchestre del pianeta. A detta di chi lo conobbe fece tutto ciò con piacere e discrezione, il piacere di fare musica e poter lavorare per essa. Forse non è un caso che alcuni dei suoi figli, testimoni di questa passione, abbiano voluto seguire le sue orme. Come molti altri compositori il suo nome si è legato a quello di un regista con il quale ha stretto un sodalizio durato una vita: Blake Edwards[3], con lui scriverà alcune delle sue musiche più belle, come Moon River (in Colazione da Tiffany), The Days of Wine and Roses, canzone che dava il titolo all’omonimo film. Ma forse il più noto di tutti è The Pink Panther Theme, creato per l’omonima pellicola, a cui faranno seguito nel corso degli anni altri 10 lungometraggi e diverse serie animate. Ascoltando quest’ultimo non si può non rimanere colpiti e sopraffatti dal genio di Mancini, la sua scrittura “onomatopeica”, un po’ come quella di Gershwin crea una sinergia straordinaria, quasi esplosiva, tra grandi movimenti orchestrali classici, big band swing e assoli che sembrano provenire da lunghe jam di jazz. Per comprendere quanto la musica di Henry Mancini abbia influenzato il futuro mondo del film scoring, basta ascoltare uno dei temi più innovativi ed originali degli ultimi anni del Maestro John Williams, tratto dal film Catch Me If You Can. Ponete attenzione alla ritmica e all’uso dei legni, poi il passaggio agli ottoni e in mezzo l’incredibile solo di sassofono. Non vi ricorda qualcosa?

Il 13 aprile del 2004 a 10 anni dalla sua morte le Poste statunitensi emisero un francobollo commemorativo in suo onore. C’era solo un problema: in quanti avrebbero capito che si trattava di Henry Mancini e perché meritava quel riconoscimento?

 

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[1] Sono circa una trentina i compositori italoamericani che hanno lavorato per Hollywood, tra di loro possiamo ricordare: Angelo Badalamenti, Bill Conti, Carmine Coppola (padre del più noto Francis Ford), Michael Giacchino e Alan Silvestri.

[2] Ricordò in seguito in un’intervista che al loro arrivo le camere crematorie erano ancora calde.

[3] Altri sodalizi artistici famosi sono: Federico Fellini e Nino Rota, Sergio Leone ed Ennio Morricone, oppure Steven Spielberg e John Williams.

Fu un bel rompicapo e alla fine fu risolto raffigurandolo di fronte, con il nome in evidenza, mentre dirige una delle sue sinfonie. Alle sue spalle – su un ideale schermo cinematografico – scorrono i titoli delle musiche dei film da lui composti. In ultima fila tra gli spettatori in silhouette, una pantera rosa a colori, che si staglia più iconica e più riconoscibile del suo stesso autore. Una vita trascorsa intento a comporre, suonare e dirigere, sempre di spalle, come i pianisti dei saloon, con discrezione, con poche concessioni alla celebrità. A me piace pensare che questa sia anche un’eccellente metafora del lavoro psicoanalitico e della figura dell’analista, concentrato sull’ascolto e sulla parola musicale: il per-sonare[1].

 

Bibliografia

Bassi A., 2003, Erik Satie, l’Antiaccademico, Gioiosa Editrice.

Fornaro, M. (1998) LE PAROLE DELLA TEORIA. Psicoterapia e Scienze Umane 32:53-70

Henry Mancini – Website

Henry Mancini´s remarkable life– Brass Music Online

La classica al cinema » Sistema Bibliotecario di Milano (biblioteche.it)

Ogden T. (1997). Rêverie e interpretazione. Roma, Astrolabio, 1999.

Walsh S., 2018, Debussy. A Painter in Sound, Londra 2018 Faber & Faber, (trad. italiana di Marco Bertoli, Claude Debussy, Il pittore dei suoni, EDT, Torino, 2019).

 

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[1] Sul “per-sonare” hanno scritto diversi autori come Morgenstern e Niedecken. Io in questo contesto avevo in mente quanto detto da Fornaro: «Persona, da per-sonare, cioè il risuonare attraverso la maschera dell’attore del teatro greco-romano, e più probabilmente dall’etrusco phersu, è appunto la maschera» (1998, 55).

Cristiano Lombardo, Conegliano e Padova

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