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Fantasia surrealista su “L’Io e l’Es”: il tema del destino

di Silvia Mondini

(Padova) Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.

 

Tutto porta a credere che esista un punto dello spirito da cui la vita e la morte,

il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile,

l’alto e il basso cessano di essere percepiti come contraddittori

Breton, Secondo manifesto del Surrealismo, 1930, 64)

Esistono passioni non ricambiate che continuano a stimolare il pensiero nonostante il passare del tempo; indimenticabile quella tra i surrealisti e il padre della psicoanalisi di cui troviamo traccia in alcuni suoi vivaci scambi epistolari con Andrè Breton (1932) e l’amico Stefan Zweig (1938). Quest’ultimo, in una “calda” giornata di luglio, gli portò in visita il giovane Salvador Dalì accompagnato dalla moglie Gala e dal miliardario Edward James che aveva acquistato il quadro “Metamorfosi di Narciso”. A loro Freud scrive:

 

“E ora una confessione, che dovete accogliere con tolleranza! Benché io riceva tante testimonianze dell’interesse che voi e i vostri amici avete per le mie ricerche, io stesso non sono in grado di chiarirmi che cos’è e che cosa vuole il surrealismo. Forse non sono per niente portato a comprenderlo, io che sono così lontano dall’arte” (Lettera a Breton del 26 dicembre 1932)[1].

 

“Ho davvero motivo di ringraziarti per il visitatore di ieri. Fino ad ora, ero incline a considerare i surrealisti, che a quanto pare mi hanno scelto come loro patrono, dei puri folli, o diciamo puri al novantacinque per cento, come avviene per l’alcool. Il giovane spagnolo, tuttavia, con i suoi occhi ingenui e fanatici e con la sua innegabile maestria tecnica, mi ha indotto a un’altra valutazione. Sarebbe davvero interessante studiare analiticamente la genesi di un tal quadro.[2]  Da un punto di vista critico si potrebbe dire che il concetto di arte rifiuta un allargamento quando il rapporto quantitativo tra materiale inconscio e rielaborazione preconscia non osserva un limite determinato. In ogni modo, sono problemi psicologici seri” (Lettera a Stefan Zweig del 20 luglio 1938).

 

In entrambi i casi sembra emergere il bisogno di allontanarsi dal pericolo di una surreale strumentalizzazione della teoria del sogno, delle libere associazioni e della creazione artistica così come elaborato ne Il poeta e la fantasia (1907) e nel saggio su Leonardo (1910).

A posteriori, potremmo pensare che tale bisogno sia in qualche modo espressione di un fraintendimento legato all’intreccio di fattori che, pur sovrapponendosi parzialmente, possono essere distinti e sintetizzati in tre punti essenziali:

– a Freud non interessa il sogno in sé ma quel che esso permette di capire sul funzionamento psichico attraverso lo studio del lavoro onirico e delle libere associazioni (Green, 1996 in Benvenuto);

– per i surrealisti l’arte necessita del solo desiderio mentre per Freud la creazione artistica richiede la mediazione del preconscio e dell’Io tramite il ricorso a meccanismi di difesa quali rimozione, sublimazione, inibizione del desiderio e, nel caso di Leonardo, anche occultamento dell’omosessualità (Preta, 2023);

– a causa del ritardo nella traduzione delle opere di Freud, la conoscenza “teorica” dei surrealisti – all’epoca della pubblicazione del Primo Manifesto (1924) – era circoscritta all’ Interpretazione dei sogni (1899) e al metodo delle libere associazioni come elemento che permetteva il superamento dell’ipnosi, ovvero, a quella parte della teoria freudiana che coincide all’incirca con il periodo di elaborazione della prima topica.

 

Non dobbiamo inoltre trascurare che Andrè Breton – indiscusso fondatore e teorico del Movimento – conobbe le opere di Freud durante gli studi di medicina poi abbandonati per dedicarsi alla passione letteraria. Nel 1915-16 egli prestò servizio presso il Centro Neuropsichiatrico di Saint Dizier dove lavorava anche Raoul Leroy, assistente del ben più celebre Charcot. Osservare i soldati feriti al fronte fu per lui un’esperienza fondamentale perché gli consentì di integrare l’esperienza diretta con le nozioni di psichiatria dinamica messe a punto a cavallo del Novecento – in particolar modo l’ipnosi (utilizzata a fini terapeutici e per lo studio dei meccanismi inconsci) e l’automatismo psichico di cui cinquant’anni prima avevano parlato anche gli spiritisti considerandolo “il prodotto di una macchina vivente priva di coscienza” (Décina Lombardi, 2022, 33).

Fu qui, come acutamente osserva Stefano Mistura (2001) in un interessante saggio sul tema, che egli ebbe modo di elaborare l’idea che un eccesso di realtà comportante il pericolo di morte, ovvero una realtà traumatica, potesse essere contrastato solo da un eccesso di immaginazione. Fonti derivanti da interviste e scritti suggeriscono che durante il suo servizio al fronte, Breton, fu particolarmente colpito da un giovane soldato convinto che la guerra non fosse un fatto reale bensì una sorta di spettacolo istituito appositamente per lui anche se non riusciva ad identificarne il motivo.

In questo episodio che mette in luce la possibilità di ripudiare l’esistenza del reale riducendolo ad un prodotto della mentre, Breton, individuò la possibilità di un cambiamento nello statuto del rapporto tra individuo e realtà. [3]

Eppure, al di là di questo specifico episodio, tra il surrealismo e la psicoanalisi sembrano esistere punti di contatto ignorati dagli stessi surrealisti che – all’epoca – riponevano tutto il loro entusiasmo sul desiderio di un futuro in cui “lo stato di sogno e lo stato di realtà si risolveranno in una specie di realtà assoluta, di surrealtà”; Una surrealtà raggiungibile grazie al ricorso a strumenti quali “la forza evocativa di associazioni prima trascurate tra gli elementi”, “l’onnipotenza dei sogni”, l’”automatismo psichico puro”,  “l’espressione del desiderio al di fuori di qualsiasi estetica e morale”, la “liquidazione dei meccanismi psichici coscienti” e “la scrittura automatica con la sua possibilità di alimentare la creatività attingendo a sogni e visioni allucinatorie” (Breton, 1924).

Elementi, questi, che richiamano fortemente la prima topica (C, Prec, Inc) e le relative dinamiche delle rappresentazioni e della “contrapposizione tra principio di piacere e di realtà” (1911) e che, ovviamente, non contemplano quanto verrà poi elaborato per mezzo della seconda topica (Io, Es, Super-Io) e le dinamiche dell’individuo, della relazione d’oggetto, di Eros e Thanatos e dell’identificazione (Quinodoz, 2005, 163).

 

Ma quali sarebbero stati la reazione, il pensiero e la risposta Freud se – e sottolineo se – a suonare il campanello della sua abitazione londinese fosse stata Lee Miller (New York 1907 – Londra 1977)?

 

La donna che nelle sue “molte vite” (Penrose, 1985; 2022 ) – modella di fama internazionale, icona di un’epoca, fotografa, viaggiatrice, reporter di guerra e dell’orrore dei campi di concentramento – ha incarnato ogni volta e più di qualsiasi altro lo spirito surrealista seguendo il principio del desiderio e la liceità di ogni sua realizzazione; colei che, fin dalla più tenera età, che ha dato prova di aver ricevuto in dono la sorte di sedurre chi vuole e il potere di trovarsi sempre nel luogo in cui accadono le cose; la signora che nel 1939, all’apice del suo successo, decide di trasferirsi a Londra per amore di Roland Penrose – suo futuro secondo marito nonché fondatore dell’Istituto di Arte Contemporanea – che “guarda caso” risiede ad Hampstead, a poca distanza dall’abitazione di Freud.

 

Come immaginare, allora, l’incontro tra l’anziano professore e la poliedrica trentaduenne Lee Elisabeth Miller? Che cosa può aver fatto sorgere in lei – sempre pronta ad accogliere il caso – il desiderio di incontrare Freud? Quali pensieri la attraversano mentre percorre il breve tragitto da Downshire Hill, 21 (dimora dei Penrose fino al 1947) a Maresfields Gardens, 20? Quale presente di cortesia ha deciso di portargli in dono, lei, naturalmente portata a cogliere il lato misterioso del quotidiano e a trasformarlo in sogno? Lei, surrealista nell’animo ancora prima di averne conosciuto l’estetica.

 

[1] Le tre lettere sono pubblicate in appendice a I vasi comunicanti di André Breton.

[2] Metamorfosi di Narciso (1936-1937)

[3] Si segnala a tal proposito che P. Dècina Lombardi ci fornisce un’altra versione di questo episodio. “A Nantes, nei primi mesi del 1916, tra i ricoverati dell’ospedale militare il giovane Andrè incontra Jacques Vaché, un bizzarro coetaneo che in mezzo agli orrori della guerra gli appare “l’unico individuo assolutamente indenne, capace di elaborare la corazza di cristallo che mette al riparo da qualsiasi contagio”. Questo “Des Esseint dell’azione” segnerà la sua vita. Figlio di un alto ufficiale della migliore borghesia nantese, proprio in odio alla sua appartenenza ha sviluppato uno spirito di dissacrazione non comune. Lo esprime attraverso disegni-vignette piene dello humor che caratterizza ogni suo gesto e che definisce “il senso dell’inutilità teatrale (e senza gioia) di ogni cosa” (Mistura, 2001, 30).

Portrait of space, Lee Miller (1937)
Portrait of space, Lee Miller (1937)

Portrait of space (1937) – una delle sue immagini più note e appartenente al “periodo egiziano” – è il suo dono a Freud; un paesaggio desertico privo di qualsiasi presenza umana e catturato durante un viaggio nell’oasi di Siwa; uno scatto che fissa enigmaticamente l’attimo e l’eternità, il dentro e il fuori, la vita e la morte; un’immagine che nel suo celebrare l’assenza di tempo e l’ambiguità dei confini sembra riflettere lo stato d’animo della sua autrice e di quel particolare momento in cui – intrappolata nella gabbia dorata del matrimonio con il ricco Aziz Eloui Bey e lontana dalle novità e dagli stimoli continui – si sentiva preda di una minacciosa assenza di vitalità.

“Una fotografia – scrive Serena Dandini – è davvero riuscita quando possiede la forza di una specchio: ti vedi riflesso e scopri che appartiene alla tua vita, anche se è stata scattata nel deserto più di settanta anni prima” (2020, 105).

 

A questo dono inatteso e alla potenza dell’immagine in esso contenuta, Freud reagisce con basito silenzio. Per sua stessa ammissione, lo abbiamo visto più sopra, capisce poco l’arte contemporanea e non ama i surrealisti ma l’intensa enigmaticità di quella fotografia provoca in lui un’associazione immediata con un’altra immagine, diversa ma altrettanto misteriosa: l’ovoide del 1922, quello schema dell’apparato psichico inserito ne L’Io e L’Es e poi modificato nella XXXI Lezione di Introduzione alla Psicoanalisi (1932).

Pur nella loro diversità quegli spazi tondeggianti attraversati da linee che demarcano e al contempo uniscono sembrano riflettere un’analogia che si estende al di là della forma. E poi, a ben guardare, quella specie di quadrato posto lievemente a sinistra e che forma una sorta di cornice riflettente, assomiglia al “berrettino acustico” posto di sghimbescio sulla superficie della coscienza.

L’Io e L’Es (Freud, 1922, 487)
L’Io e L’Es (Freud, 1922, 487)

Al termine del basito silenzio, Freud domanda a Lee se “per caso” avesse avuto occasione di vedere, anche solo di sfuggita, quello schema. Dopotutto, considerati gli innumerevoli rapporti d’amore e d’amicizia che la uniscono ai surrealisti e la passione di questi ultimi per la teoria psicoanalitica, l’ipotesi non risulta poi così improbabile. 

Ma Lee, a quel punto impaziente di vedere l’immagine a cui Freud si riferisce, risponde candidamente di no. Lei non ha mai avuto occasione di leggere alcunché della sua produzione teorica anche se, ovviamente, conosce abbastanza bene l’interesse del suo gruppo di amici, anche se non di tutti i suoi componenti, per la psicoanalisi.

E mentre lui scartabella alla ricerca dell’immagine, Lee, coglie occasione per affermare che – per lei – la conoscenza è più una “questione di pancia”, se così si può dire, che di teoria, di manifesti o di tecnica; qualcosa che misteriosamente si realizza nell’immediatezza del piacere di un incontro, di una passione, di un viaggio. Un modus vivendi, questo, che le ha sempre consentito di fronteggiare quelle inquietudini, quelle delusioni, talora quei veri e propri momenti di disperazione, che l’affliggono sin dalla tenera età e poi che ha ritrovato nella Parigi degli anni Venti e Trenta. In quella “Parigi degli anni d’oro” dove si è subito sentita a casa propria e in cui, dopo la breve esperienza del 1925, è approdata stabilmente nel ‘29 sorretta dal desiderio di cambiare: “Preferisco FARE una foto piuttosto che ESSERE una foto” era il suo motto.

Un motto sicuramente impegnativo poiché, indipendentemente dalla riuscita sul piano artistico, presupponeva una rivoluzione personale, ovvero, quel rovesciamento/capovolgimento passivo-attivo che rientra tra i “destini della pulsione” (Freud, 1915), e che – per lei – è coinciso con il passaggio da modella/oggetto di desiderio a soggetto in grado di comunicare la propria visione del mondo. Ma anche un anelito che ben si accorda con il desiderio surrealista di “cambiare la vita e trasformare il mondo” su cui si fonda il movimento stesso (Nadeau, 1944, 228). Un desiderio vitale e condivisibile ma incapace di promuovere l’auspicato cambiamento socio-politico per via di quell’individualismo e di quel principio di piacere che non accettando regole e limitazioni si rivelano incapaci di incidere sul reale. 

 

Poi, ritornando al suo Portrait of Space, Lee ricorda che la foto è stata scattata nel 1937; anno tristemente noto per il verificarsi di eventi che avrebbero potuto far ben presagire la ferocia del partito nazista se “solo” – come ricorda Serena Dandini (2020) – non avesse prevalso l’auspicio di un uomo forte e capace di ristabilire un ordine ormai perduto:

  • il massacro di Guernica[1] (26 aprile 1937)
  • la vittoria del filmato Il Trionfo della volontà di Leni Riefensthal all’Esposizione Internazionale di Parigi[2] in cui Hitler viene rappresentato come l’eroe che ha restituito l’orgoglio al popolo tedesco
  • l’istituzione da parte del partito nazista della Mostra d’arte degenerata (inaugurata a Monaco il 19 luglio 1937) in cui 600 artisti tra cui Picasso, Paul Klee, Mondrian, Chagall, Kandisnsky vengono messi al bando con l’accusa di eversione.

E pensare che proprio in quel 1937 lei conobbe Roland, il suo Roland, incontrato “guarda caso” nello stesso giorno in cui arrivò a Parigi dopo aver lasciato l’Egitto. Fu un vero colpo di fulmine. Un coup de foudre che illuminò il suo ritorno a Parigi consentendole allo stesso tempo di ritrovare Man Ray (cinque anni dopo averlo lasciato). Seguirono meravigliose “vacanze surrealiste” organizzate dallo stesso Roland, prima in Cornovaglia e in compagnia di “vecchi amici” che rispondevano al nome di Max Ernst e Leonora Carrington, Paul e Nusch Eluard, Eileen Agar, Man Ray e la sua nuova compagna e poi in Costa Azzurra, a Mougins, su invito dello stesso Picasso di cui Penrose era amico.

Picasso, allora accompagnato con Dora Maar, aveva da poco finito di dipingere su commissione del governo repubblicano il suo celeberrimo Guernica. Quella maestosa rappresentazione del bombardamento ma anche quel grandioso messaggio per la pace, la dignità e la libertà del mondo intero che, dopo essere esposto nel Padiglione spagnolo dell’Esposizione di Parigi, venne subito inserito tra le opere esposte alla Mostra d’Arte Degenerata di Monaco[3] anche se Roland, il suo Roland, attraverso la sua attività non ha mai smesso di lottare contro quel potere deciso ad imporre i propri canoni estetici e stabilire cos’è la bellezza.

“Quando il potere vuole imporre i propri canoni estetici e decidere cos’è la bellezza, è il momento di intervenire. Se l’arte diventa un campo di battaglia, non si può restare indifferenti” (Dandini, 2020, 114).

Purtroppo, nonostante la battaglia intrapresa da Penrose in favore della pace, sarà necessario attendere la morte del generale Franco (1975) prima di vedere Guernica nuovamente esposta in Spagna.

 

Per quei vacanzieri – scriverà poeticamente S. Dandini molti anni dopo – “il tempo non seguiva più le ore regolari dei comuni mortali, piuttosto quelle scandite dagli orologi squagliati dei quadri di Dalì che obbedivano al ritmo del piacere e del desiderio” (117) dando luogo così ad  “una qualità densa e tangibile di felicità, così prorompente da mozzare il fiato, tanto da alzarsi di soprassalto in piena notte per sincerarsi che non sia solo un sogno, o tenere gli occhi chiusi da svegli per paura di vedere svanire l’incantesimo” (118).

Per loro il “piccolo esercito internazionale di artisti in bilico sul burrone della storia […] tutto stava per precipitare, ma loro continuavano a essere idealisti, innovatori, anticonformisti, pacifisti e romantici. Sempre appassionati di qualcosa o innamorati di qualcuno, pronti a provare con slancio qualsiasi esperienza erotica, professando un’audacia a noi oggi sconosciuta” (118) in un’atmosfera di “pacifica e sensuale quiete prima della tempesta” (125).

 

Poi, finalmente, Freud trova l’immagine e porge a Lee il cartoncino originale. Anzi, a dire le cose come stanno, l’aveva già trovata da un pezzo ma aveva tardato nel darlo a vedere per consentire a lei il piacere di parlare e a sè stesso quello di ascoltarla. Quella donna, così diversa dall’intellettuale Breton e dall’evidente problematicità di Dalì, lo stava davvero incuriosendo moltissimo.

 

La vista dell’ovoide suscita in lei la stessa reazione che Portrait of Space aveva suscitato in Freud. Silenzio. Per un attimo, Lee, viene attraversata dal pensiero che il professore abbia ormai perso un po’ del suo smalto; non capisce come una foto così suggestiva e a suo modo struggente possa avergli fatto venire in mente quello schema così arido e asettico. Poi, superata la delusione iniziale, decide di dire apertamente che le sfuggono tanto il significato quanto la somiglianza con la sua foto. 

Freud allora, concedendosi il lusso di alcune libere associazioni a voce alta (peraltro così care ai surrealisti), comincia con il dire che il titolo e l’enigmaticità di Portrait of Space gli fanno venire in mente quasi in automatico quel risultato, quell’idea che, dopo decenni di elaborazioni, l’anno prima era riuscito a sintetizzare in una sola frase “La psiche è estesa, di questo non sa nulla” (1938).

Formulazione enigmatica, semplice solo in apparenza, capace di racchiudere in nove parole e una sola virgola, una teorizzazione che lo accompagnava si potrebbe dire da sempre; un’idea, un risultato che sicuramente avrebbe continuato a creare qualche problema alle future generazioni che su questo (come su altro) si sarebbero a lungo interrogate.

Ma anche un pensiero che, in modo quasi lapidario, apre la questione di una psiche che, originata dal corpo, si estende ben oltre la (qualità) della Coscienza sino a coinvolgere il mondo esterno.

In fondo, aggiunge Freud ritornando a L’Io e L’Es (1922), non si dovrebbe mai prendere troppo sul serio la questione della rappresentazione spaziale, topica, dell’accadere psichico perché essa pone sempre delle difficoltà, meglio affidarsi all’idea di alcune “aree cromatiche sfumanti l’una nell’altra, come nei pittori moderni. Dopo aver distinto dobbiamo lasciar confluire di nuovo insieme quanto è stato separato” (1932, 190).

Distinguere e lasciar confluire di nuovo, dunque; un’antica attenzione o, meglio, un’attenzione di sempre già espressa a Lou Salomè nella lettera del 30 luglio 1915  

– “Quel che mi interessa è la separazione e l’articolazione di ciò che, altrimenti, finirebbe per confluire in una specie di calderone originario” –

e capace di aprire al futuro “prefigurando quel prioritario interesse alle zone di scambio, ai transiti e alle trasformazioni che caratterizzerà gli sviluppi post-freudiani” (Ferraro, 2006, 672).

 

Idea, questa, che la foto ben rappresenta attraverso l’ambiguità dei confini tra interno ed esterno; ambiguità che sembra risolversi solo nel punto in cui si trova appesa quella cornice, unico elemento capace di indicare la presenza di una divisione “reale” e che – per forma e posizione – richiama il berrettino acustico (1922), quell’organo sensore posto sullo strato più superficiale dell’ovoide e destinato ad accogliere le percezioni provenienti da ambo i lati. Ma mentre le percezioni esterne sono sempre coscienti, quelle interne[4] – di cui quel poco che si sa è riconducibile ancora al modello piacere-dispiacere (484) – lo diventano solo quando si collegano alla rappresentazione verbale e vengono percepite come pensieri.

Un bel grattacapo, quindi, soprattutto se si tiene conto che proprio la percezione – elemento per definizione cosciente – “non è – come scriverà Semi parecchi anni dopo – un procedimento obiettivo: da un lato, infatti, essa ci fa percepire la realtà secondo determinate regole (che spesso distorcono la realtà stessa), dall’altro […] è un’attività in qualche modo sempre tendenziosa. È il desiderio che ci spinge a tastare l’ambiente per cercare qualcosa di soddisfacente e il desiderio deforma la percezione e addirittura qualche volta la percezione di qualcosa di interiore, di uno stato d’animo, di un pensiero, di qualche cosa di inconscio, viene proiettata – corsivo mio – sull’esterno per poterla raffigurare coscientemente” (Semi, 2007, 21). 

 

A questo punto, Freud, desiderando proseguire nel suo omaggio alla regola fondamentale, accenna alcune caratteristiche di quell’Io e di quell’Es  a cui tanto pensiero ha dedicato anche dopo la pubblicazione dell’omonimo lavoro; un testo che contiene numerose indecidibilità (Ferraro, 2006, 661) in buona parte dovute all’inevitabile ambiguità dell’inconscio (Freud,1922, 479) e il cui titolo – cosa davvero curiosa – non accenna in alcun modo alla terza istanza di cui si compone la seconda topica, quel Super-io a cui, comunque, viene dedicato un importante capitolo e che, dieci anni dopo, verrà finalmente inserito nel secondo schema dell’apparato psichico (1932, 189).

 

 

——

[1] Durante il massacro di Guernica, un piccolo villaggio basco interamente abitato da civili, l’aviazione tedesca e gli alleati fascisti al servizio del generale Francisco Franco diedero prova generale della ferocia del nazismo (Wikipedia).

[2] L’Esposizione Internazionale di Parigi (1937) “Arts et Techniques dans la Vie moderne” organizzata in un momento storico di grandi tensioni politiche tra i paesi europei, doveva servire nelle intenzioni degli organizzatori a favorire un clima di distensione tra gli stessi, ma il futuro mostrò che tale nobile scopo non venne raggiunto (Wikipedia).

[3] Ai fini della propaganda del Terzo Reich – Joseph Goebbels – organizzò la Mostra di Arte Degenerata che mise al bando i capolavori di artisti geniali tra cui, ovviamente, Picasso. Le loro opere rappresentavano per il regime nazista un’inaccettabile espressione di libertà che andava immediatamente stroncata, un’estetica decadente, malata, capace di esaltare l’impurità razziale. (Wikipedia; Dandini, 2020).

[4] “La percezione interna fornisce sensazione relative a processi appartenenti ai più svariati strati, e certamente anche dei più profondi. Di tali sensazioni poco si sa; la cosa migliore è ancora rifarsi al modello costituito dalla serie piacere-dispiacere. Queste sensazioni sono più primordiali, più elementari delle sensazioni provenienti dall’esterno e che possono prodursi anche in stati di coscienza crepuscolari. […] Sono sensazioni plurilocalizzate al modo stesso delle percezioni esterne, e possono provenire contemporaneamente da luoghi diversi, per cui le loro qualità possono essere diverse e perfino tra loro opposte” (Freud, 1922, 484- 485).

(Freud, 1932, 189)

Poi, però, distratto dall’improvviso pensiero del coincidere temporale del lavoro di articolazione tra le due topiche e la nascita di quel movimento artistico che tanta passione ha mostrato nei confronti delle sue teorie, decide di dare lettura a qualche passaggio rendendo così omaggio alla signora Miller.

 

“Georg Groddeck […][1] insiste nel concetto che ciò che chiamiamo il nostro Io si comporta nella vita in modo essenzialmente passivo, e che – per usare la sua espressione – noi veniamo “vissuti” da forze ignote e incontrollabili. […] Propongo di chiamare Io quell’entità che scaturisce dal sistema P e comincia col diventare Prec; ma di chiamare l’altro elemento psichico in cui l’Io si continua e che si comporta in modo Inc, L’Es nel senso di Goddreck. […] Un individuo è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio, sul quale poggia nello stato superiore l’Io, sviluppatosi dal sistema P come un nucleo […] l’Io non avviluppa interamente l’Es, ma solo quel tanto che basta a far sì che il sistema P formi la sua superficie [dell’Io]. […] L’Io non è nettamente separato dall’Es, ma sconfina verso il basso fino a confluire con esso. […] Ma anche il rimosso confluisce con L’Es, di cui altro non è che una parte. Il rimosso è separato nettamente soltanto dall’Io, mediante le resistenze della rimozione; può tuttavia comunicare con l’Io attraverso l’Es. Possiamo subito renderci conto che quasi tutte le linee di demarcazioni che abbiamo tracciato traendo spunto dalla patologia riguardano soltanto gli strati superficiali dell’apparato psichico, i soli, peraltro, che ci sono noti” (486-487).

 

“Non useremo più il termine “inconscio” in senso sistematico, ma daremo a quanto finora così designato un nome migliore, che non si presti più a malintesi. Adeguandoci all’uso linguistico di Nietzsche e seguendo un suggerimento di Georg Groddeck, lo chiameremo d’ora in poi ES. Questo pronome impersonale sembra particolarmente adatto a esprimere il carattere precipuo di questa provincia psichica, la sua estraneità all’Io. Super-Io, Io ed Es sono dunque i tre regni, territori, province, in cui noi scomponiamo l’apparato psichico della persona (1932, 184)

 

“A parte il nuovo nome, non aspettatevi che abbia a comunicarvi molto di nuovo sull’Es […]. È la parte più oscura, inaccessibile della nostra personalità […) si lascia descrivere solo per contrapposizione all’Io. (…) lo chiamiamo un caos, un crogiolo di eccitamenti ribollenti. Ce lo rappresentiamo aperto all’estremità verso il somatico, da cui accoglie i bisogni pulsionali i quali trovano dunque nell’Es la loro espressione psichica. […] Attingendo alle pulsioni, l’Es si riempie di energia, ma non possiede un’organizzazione, non esprime una volontà unitaria, ma solo lo sforzo di ottenere soddisfacimento per i bisogni pulsionali nell’osservanza del principio di piacere. Le leggi del pensiero logico non valgono per i processi dell’Es, soprattutto non vale il principio di contraddizione. Impulsi contrari sussistono uno accanto all’altro, senza annullarsi o diminuirsi a vicenda. […] Non vi è nulla nell’Es che si possa paragonare alla negazione, e […] nulla si trova nell’Es che corrisponda all’idea di tempo, nessun riconoscimento di uno scorrere temporale e (…) nessuna alterazione del processo psichico ad opera dello scorrere del tempo. Impulsi di desiderio che non hanno mai varcato l’Es, ma anche impressioni che sono state sprofondate nell’Es dalla rimozione, sono virtualmente immortali, si comportano dopo decenni come se fossero appena accaduti […]. L’Es non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo, strettamente connesso al principio di piacere, domina ivi tutti i processi. Investimenti pulsionali che esigono la scarica: a parer nostro nell’Es non c’è altro. Sembra persino che l’energia di questi moti pulsionali si trovi in uno stato diverso che nelle altre sfere psichiche, che sia assai più mobile e idonea alla scarica. […] Altrimenti, infatti, non avrebbero luogo quegli spostamenti e quelle condensazioni che sono caratteristici dell’Es e che prescindono così totalmente dalla qualità di ciò che è investito (di ciò che nell’Io chiamiamo una rappresentazione)” (186).

 

E la signora, allora, abituata com’è a cogliere al volo il lato misterioso delle cose, si concede il lusso di interrompere quel fluire di pensieri (di entrambi) e afferma:

“Dopo tanto sentir parlare di lei, sono venuta a farle visita per il solo piacere di incontrarla ma l’ascolto delle sue stesse parole mi ha colpito al punto che ora mi ritrovo nella condizione di avere anch’io qualche pensiero su questo … se posso.”

 

Per lei, dice, la realtà esterna è sempre stata una sorta di amica generosa e riparatrice; l’unico spazio capace di fornirle ambienti e circostanze che parevano fatti apposta per compensare antiche ferite[2] o consentirle, almeno, di dimenticare nel continuo susseguirsi di eventi… a partire da una famiglia (ambiguamente) pronta a concederle tutto pur di attenuare il suo dolore e continuando con il susseguirsi di una serie di eventi casuali e fortunati; eventi il cui magico accadere delinea – agli occhi degli altri – un destino del tutto particolare, quello di trovarsi sempre nel luogo giusto al momento giusto.

Di esempi a questo proposito ne potrebbe farne moltissimi[3] ma ora, dopo aver ascoltato e accolto questo fluire di pensieri, può soltanto dichiarare la sua confusione; una confusione in buona parte originata dal pensiero che il ripetersi di “eventi fortunati” non sia solo da attribuire al caso ma possa essere, anche, conseguenza di un ignoto movimento interno, di un qualcosa che nascostamente/segretamente le appartiene e che ricompare all’esterno, magari attraverso un estraneo inatteso.  Forse, aggiunge Lee, l’unica sua vera dote potrebbe essere “semplicemente” quella di lasciarsi attraversare dal caso, di cogliere e accogliere l’inatteso, di lasciarlo interagire con parte del suo Io che non conosce, parti inconsce, mai pensate e comunque in attesa di trovare espressione, tante espressioni diverse sino a costituire il suo Io… un Io complesso, contraddittorio, fratturato e che solo quel genio di Picasso – in quella famosa estate del 1937 – ha saputo fondere in un ritratto; un ritratto che scompone e ricompone, separa e converge; un ritratto che può piacere o meno ma che posiziona il simbolo dell’infinito a livello dell’orecchio… il nostro organo sensore sempre aperto all’esterno.

 

—–

[1] “Un Es, una forza da cui veniamo vissuti, mentre crediamo di essere noi a vivere”. Goddrek, 1923.

[2] Antony Penrose, nella biografia a lei dedicata, scrive che la madre – a sette anni – contrasse la gonorrea a seguito di un abuso di cui non si conoscono le circostanze e che, appena adolescente, perse il suo primo amore per un tragico incidente in barca. “Le cicatrici lasciate da questi due eventi accompagneranno Lee fino alla tomba” (Penrose, 2022, 16).

[3] A chi fosse interessato ad approfondire questi aspetti si consiglia la lettura di Le molte vite di Lee Miller (Penrose, 1985, 2022), biografia scritta dal figlio e corredata di un’ampia selezione di foto e lettere tratte dal Lee Miller Archives.

Ritratto di Lee Miller (Picasso, 1937)
Ritratto di Lee Miller (Picasso, 1937)

L’artista – scrive Breton nei Vasi comunicanti – è colui che “sa fondere l’azione al sogno”, “confondere l’interno con l’esterno”, “trattenere l’eterno nell’istante”, “trovare il generale nel particolare” indicando così – come ben sottolinea L. Preta (2018; 2023) – che per i surrealisti la produzione artistica non è legata solo alle dinamiche di rimozione, inibizione (saggio su Leonardo) e sublimazione; indicazione che rischia(va) di sconvolgere tutte le ipotesi sull’origine del fenomeno artistico e di liberarlo da una situazione di conflitto, di nevrosi, di alienazione introducendo il potere del caso .

 

Nel frattempo, Freud, ascolta ed annuisce. Purtroppo l’avvicinarsi della seduta di uno dei suoi ultimi pazienti interrompe un incontro non casuale che entrambi avrebbero voluto prolungare; davvero un peccato non avere tempo per continuare a riflettere insieme su questo.

 

Conclusioni

E ora, al termine di questo incontro di fantasia, proveremo ad applicare il procedimento del “distinguere e articolare” – asse portante della teorizzazione de L’Io e l’Es (Ferraro, 2006) – al tema del destino; un distinguere per poi lasciar confluire di nuovo (Freud, 1915 ) che in questo preciso contesto si alimenta tanto del pensiero che L’Io e l’Es (1922) sancisca il passaggio dalla concezione di un “inconscio popolato di fantasmi e rappresentazioni” (prima topica) a quella di un “Es sede di moti pulsionali, crogiuolo di eccitamenti ribollenti alla ricerca di una scarica”(Ferraro, 2006, nota, 667) quanto dalla “necessità di integrare tra loro la prima e la seconda topica”, ovvero, la “visione microscopica legata alle dinamiche delle rappresentazioni” con la “prospettiva più ampia che riguarda l’individuo” (Semi, 2020).

L’Es – scrive Semi, 2009 – può presentare un confine mancante che è quello con la realtà esterna. Ed è proprio questa assenza di confine tra l’Es e la realtà che fa sì che l’individuo risulti non solo incompleto, non solo fratturato o scisso ma anche indefinito” (Semi, 2009, 45).

A tal proposito è interessante osservare che nello schema del ’32 l’Es presenta un confine mancante con esterno di cui Freud stesso non fa menzione; una stranezza, questa, per certi versi paragonabile a quella osservata nello schema del ’22 all’interno del quale il Super-Io – pur ampiamente descritto nel testo – non solo è assente ma dovrà attendere dieci anni prima di fare la sua comparsa.

 

In base a questi presupposti potremmo quindi pensare che la già citata formulazione freudiana “La psiche è estesa, di questo non sa nulla” (1938) ben si presti a descrivere – come sostiene Balsamo, 2001 – quel meccanismo centrifugo e aspecifico che anziché riportare quel che accade a sé, al proprio inconscio, lo getta all’esterno, lo espelle nel reale perché il soggetto non vuole conoscere nulla del suo desiderio; condizione classica della psicoanalisi ma anche porta di ingresso nel campo delle fobie e nell’impersonale territorio del destino dove l’oggetto o la situazione significativa si configurano rispettivamente come l’incontro da evitare ad ogni costo o l’evento comunque inevitabile ed estraneo alla propria intenzionalità.

Diversamente, la stessa formulazione letta alla luce della seconda topica e del suo configurarsi come continuazione/punto di partenza di un’elaborazione teorica che racchiude una progressiva estensione dello psichico[1], ci consente di osservare il “territorio” del destino da diversa angolazione; non più come spazio esterno e impersonale che accoglie l’indesiderato o l’indesiderabile ma anche come area che accoglie qualcosa di attinente all’Es – alle forze dell’inconscio dell’ Es, agli investimenti pulsionali (Freud, 1932, 186 ) che lo compongono – e all’oggetto. Ed è proprio all’incrocio tra il carattere indeterminato e impersonale dello psichico originario – all’interno del quale si collocano la componente biologica e la relazione potenziale dell’individuo con le generazioni precedenti (Le Guen, 407- 408) – e l’oggetto che interviene il caso.

Quel “caso” che – tolta qualche rara eccezione – è sempre espressione di una causalità interna (Freud, 1901); una causalità a sua volta derivante dall’interazione tra pulsione, rappresentazioni e oggetto; quell’oggetto che, per definizione, costituisce la parte più “variabile” ed esterna della pulsione ma anche quell’oggetto (investito di aspettative e rappresentazioni) che a sua volta – attraverso il proprio inconscio – invia comunicazioni che in parte sfuggono al sistema Percezione-Coscienza e, dunque, all’Io.

E non è un caso se questi pensieri si sono presentati a chi scrive durante la visita di una mostra dedicata a Lee Miller e Man Ray (Venezia, Palazzo Franchetti, novembre 2022 – aprile 2023). E non é un caso, io credo, se nel corso dell’ultimo anno a Venezia, in Italia e all’estero sono fiorite mostre e manifestazioni che omaggiamo il surrealismo.

 

[1] Il progressivo ampliamento dell’estensione dello psichico non si ferma con la formulazione dell’Es ma continua fino all’incompiuto Compendio (1938).

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Freud S. (1915). Metapsicologia. O.S.F, vol. VIII.

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Silvia Mondini, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

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