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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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Diniego e negazione come tensione tra appartenenza e intimo sapere

di Laura Ambrosiano

(Milano) Psicoanalista Membro Ordinario con funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Milanese di Psicoanalisi.

“C’è molta maggior continuità fra la vita intrauterina e la primissima infanzia di quanto non ci lasci credere la cesura della nascita” (S. Freud 1925).   

“Il poeta attinge a qualcosa che è già presente in lui e al quale deve semplicemente levare il velo” (H. Henseler 1991).

 

 

Negazione, denegazione, diniego sono alcuni dei mezzi con cui accostiamo, modifichiamo e alteriamo la realtà in modo che corrisponda con i nostri bisogni e desideri. Dalle teorie sessuali infantili, fino alle convinzioni cognitive, alle opere artistiche o scientifiche, questo bisogno di corrispondenza impasta tutte le nostre percezioni di diniego.

Potremmo dire che percezione, diniego, negazione   sono come le dita di una mano che frugano tutt’intorno alla ricerca di mezzi di adattamento.

L’osservazione non è mai abbastanza vigile, la percezione della realtà non è una operazione oggettiva, essa è comunque orientata dalle interne spinte pulsionali, per cui coglie-trasforma-sottrae nello stesso movimento.  

Percezione della realtà e diniego procedono insieme per modulare l’adattamento, per forgiare in modo trasformativo l’incontro con il mondo, per appianare (nei limiti del possibile) le contraddizioni tra la percezione stessa e i nostri bisogni, alla ricerca di sopravvivenza e quiete. Insomma la stessa percezione è modulata dal principio del piacere in funzione della economia pulsionale.

Come scrive Freud, l’Es è così incurante della preponderante forza della realtà concreta da esporsi al rischio di annientamento. Contenere questo rischio è compito dell’Io che progressivamente si differenzia per volgersi verso le cose con la loro oscurità.

Ma può accadere che le dita della mano frughino tutt’intorno con l’intento prevalente di disconnettersi dalla realtà, di eluderla, ma allora viene eluso anche il lavoro psichico e il lavoro del lutto, cioè l’elaborazione della nostra inermità, della nostra ambivalenza, dell’ineludibile presenza dentro di noi di amore e odio, di vita-morte.

Quando questo intento prevale l’individuo resta in stallo, cioè si ritrova senza strumenti psichici per modulare le spinte interne, intricate di violenza distruttiva e di masochismo e la dimensione del reale che si estende e permane roccioso aldilà di tutte le nostre narrazioni.

 

Oltre la spinta pulsionale, la modulazione narcisistica                                                                                                                                                                                                                     

Diniego e negazione, dicevo, sono invocate e modulate dalle vicissitudini pulsionali, e questo appare evidente anche in analisi o in terapia, ma la nostra osservazione resterebbe monca e parziale se ci limitassimo a queste vicissitudini, cioè alle spinte del bisogno di soddisfacimento e quiete[1].

Oltre al gioco pulsionale, ben presente nei contenuti, è sempre presente una drammatica ricerca di modulazione narcisistica.

Quando pensiamo, con W. Bion, alla pre-concezione del seno non ci riferiamo soltanto alla aspettativa che il bisogno incontri un oggetto capace di soddisfarlo, ma anche alla aspettativa di trovare, nel contatto con l’oggetto, un interno gradino narcisistico, cioè di essere accolti alla vita come non alieni, come umani, come parte della specie.

Nel ricorso ai meccanismi della negazione occorre cogliere una ricerca di “ancoraggi narcisistici” più prossimi e sicuri. Un migliore ancoraggio narcisistico avvia un primo legame, promuove un senso di comunanza, di somiglianza “aldilà di tutte le nostre differenze” (Freud, 1931). Il convincimento illusorio, offerto dalla negazione, sembra poter costituire una base narcisistica capace di proteggere dai rischi di mortificazione.

Ma, quando diventa perentorio, il diniego sembra perdere la possibilità di essere via via lavorato e trasformato, si organizza razionalmente in neo-realtà offrendo al singolo un senso di armonia e di trionfo, “vendica”. La negazione indurita è   sempre impregnata di risentimento.       

L’accanimento con cui talora individui e gruppi restano incollati alle costruzioni negazioniste   è legato proprio a questo bisogno di rivalsa, alla possibilità che esse offrono di sentirsi compatti, senza buchi, solidi e saturi delle proprie conclamate diversità.                                                                           

 

 

Il gruppo di appartenenza

                                                                                                                                               

Tanto più queste sensazioni si diffondono quando, travalicano la scena psichica individuale e diventano credenze e narrazioni (pseudo-scientifiche) di una intera comunità. Diniego e negazione sono un meccanismo di difesa intrapsichico, individuale, ma sono anche un meccanismo culturale che, facilmente, promuove stati della mente condivisi e legittimati dal gruppo di riferimento.

La negazione aggrega il gruppo e intere comunità intorno a costruzioni illusorie e false, ma essa aggrega un “gruppo-massa”, omogeneo, che non lascia in campo alcun testimone. Essa slega, decompone la connessione sociale più ampia in favore delle identificazioni con sub-culture locali funzionali ai bisogni.

La negazione, il diniego, l’elusione, l’evacuazione, si installano in un territorio inter-psichico e inter-individuale, in uno spazio transizionale che, a vari livelli,  può venire contaminato dal feticcio   delle false certezze.

Nel campo gruppale e nella mente emerge allora una zona crepuscolare (né conscia né inconscia) tra il sapere e il non sapere, con una grande capacità di diffondersi, fare adepti, correre tra individui e gruppi, tra generazioni. Si scivola allora nell’ottusa routine dell’ovvio: idee illusorie scorrono, come su un tapis roulant, tra singoli e gruppi, tra generazioni.

Per questo dovremmo fare come Freud che passa di continuo dal singolo alla massa, alla specie, dal soggettivo al sociale, tenendo sempre presente la difficoltà a porre dei confini definiti là dove interno-esterno, dentro-fuori, sono embricati.

Per mantenersi, questi meccanismi duri elusivi della realtà hanno bisogno di essere continuamente riconfermati, per questo necessitano di chiamare a raccolta l’odio e la prevaricazione, che qui esprimono (urlano) la perentorietà dei bisogni narcisistici e innescano esplosioni di violenza senza significato personale.

Queste difese offrono l’illusione di una soggettivazione matura e coerente, forte, illusoria, appunto, come tutti i percorsi di soggettivazione che non emergono dal via vai, dal transito continuo tra differenziato e indifferenziato.

 

Come mai a volte non si nega?

 

Quello che mi interessa e mi intriga maggiormente di tutta questa questione è però la domanda sul come mai in talune circostanze, o taluni individui, non negano. Come accade che i singoli, i gruppi, prestino attenzione, si accorgano, riconoscano i fatti e le loro implicazioni emotive e concrete?

La risposta alla questione, evidentemente, non è univoca.

L’idea più diffusa è che non negano le persone incapaci di fare del male. Ma questa risposta dimentica che non esistono persone “incapaci” di fare del male, si tratta di una pulsione ineludibile.

Hannah Arendt (1987) sostiene che le persone che non negano sono in grado di pensare, mentre chi nega si rifiuta di pensare.

Un elemento che soccorre nel non negare è certamente una disponibilità a transitare tra l’adeguamento conformistico al sapere condiviso e le proprie intime esperienze percettive, cioè ad emanciparsi dal gruppo-massa.

Ma non basta.

Le ipotesi di risposta in letteratura si allargano ed evocano la capacità di solitudine, la capacità di avvertire la vergogna, le risorse immaginative, la volontà, l’onestà intellettuale, ecc…

La negazione è una operazione semplice: “girare la testa”, “chiudere gli occhi”, “non sentire”; anche l’accorgersi sembra un atto intuitivo, immediato; ma, al contrario, cogliere le implicazioni di eventi e accadimenti richiede un lavoro e un investimento su idee e associazioni intime e talora inedite.

La percezione, dicevo sopra, non è neutra, essa è guidata da un investimento intenzionale (anche se inconscio).

Tanti oggetti restano periferici, nella nostra percezione, non sono al centro di processi di investimento. Per esempio, se l’individuo è assorbito da qualche interesse o attività coinvolgente, investe in forma molto attenuata sulla penna con cui sta scrivendo, o sulla bottiglia dell’acqua che è sulla scrivania. Questi oggetti restano non visti a meno che la forma o il colore della bottiglia, o qualche altra caratteristica, casualmente entri in una catena associativa, ecco che allora l’individuo li percepisce, li staglia dallo sfondo, dicendosi magari: ma come sono stato stupido a non accorgermi!

L’attenzione fluttuante dà risalto a oggetti   fino a un attimo prima non percepiti. Se l’oggetto entra in una catena associativa si origina una attenzione precipua, attiva: esso viene investito emotivamente.

Immagino che un pensiero liberamente associativo possa ridurre il ricorso alla negazione, proprio perché fa entrare in gioco, distrattamente, altri livelli di attenzione, direi meglio di disattenzione, dis-trae dalle credenze condivise e lascia spazio a inattese percezioni personali.   

Anche odori, sapori, vapori nell’aria, sensazioni somatiche ci distraggono dal pensiero condiviso, in genere essi non sono centrali, ma poi, come di colpo, attirano la nostra attenzione e lasciano emergere un intimo sapere su quanto accade tutt’intorno.

Allora un contatto con la comune vitalità delle cose risveglia l’impressione che proprio non si può fare diversamente, è necessario, soggettivamente necessario, accorgersi. Entra in gioco un intimo sapere che cozza con le credenze del gruppo. Si tratta di un sapere che prescinde dalla cultura o dall’acume intellettivo: per esempio, durante genocidi, guerre, disastri, i protagonisti di slanci coraggiosi sono spesso individui “invisibili” che compiono “azioni invisibili” rispetto al gruppo, essi non immaginano di spostare le lancette della Storia, ma portano una semplice testimonianza di normale umanità (Nissim, 2011).

Forse per questo gli individui capaci di non negare sono spesso considerati dal gruppo come vagamente originali, disadattati, inaffidabili, strambi, talora stupidi, ottusi rispetto alle credenze che permeano l’insieme del gruppo, Malaparte, Wegner, Thompson o W. Churchill per esempio.

 

Durante il massacro di My Lai, nell’agosto 1968, nella guerra del Vietnam, Hugh Thompson arriva sull’elicottero di perlustrazione a sorvolare il villaggio. Nota qualcosa di strano, cadaveri dappertutto, anche donne e bambini ammucchiati, non riesce a capire… Vola più basso, vede un capitano avvicinarsi ad una donna ferita, toccarla con il piede, allontanarsi e spararle… Thompson atterra e raccoglie i feriti portandoli all’ospedale.

Tutti conoscevano la posta in gioco, a quel punto della guerra, gli ordini ricevuti erano: ripulire il villaggio dai nemici. L’indignazione di Thompson e i suoi successivi appelli alle autorità dimostrano quanto poco “afferrasse” la situazione. Pensava ingenuamente che dovesse esserci un errore. Le sue radici campagnole ne avevano   fatto un “ritardato culturale” non in grado di capacitarsi di cosa stava succedendo. Nella sua commovente convinzione che quello che vede non è comprensibile, Thompson rivela quella “pseudo-stupidità” di chi accetta di vedere qualcosa di inquietante e terribile, di accorgersi e di non condividere l’unanime diniego (Cohen, 347-348).     

 

In definitiva, un bisogno modulabile di appartenenza si accompagna ad una disponibilità a lasciarsi sorprendere dalle libere associazioni che si affacciano alla mente.                                                                                                                                                                        Questa disponibilità non è di individui con doti particolari, ma è piuttosto una funzione della mente che si apre ad accogliere, appunto, le inattese e contraddittorie percezioni nel contatto con la realtà, lasciandosi emozionare ogni volta.   

A proposito di questi individui “invisibili”, eroi capovolti, che sono capaci di non negare, immaginiamo un movimento interno che consente loro di porsi a margine non solo del conformismo del gruppo, ma anche della propria soggettività.   

Il pensiero associativo richiede una certa disponibilità ad essere un po’ più anonimi nel nostro incontro con il mondo, un po’ arretrati, un poco neutrali, una disponibilità    a sparire un po’ come soggetto separato, conscio, a sentirsi un po’ indietro, a sentirsi dire cose che non sono quelle che si aveva in mente e che stupiscono…

Disadattarsi, desolidarizzare, de-coincidere, come scrive Francois Jullien (2017). Con questo termine il filosofo francese si riferisce alla possibilità di accogliere nello scorrere delle percezioni (del mondo, interno ed esterno) uno scarto, qualcosa che rompe le aspettative di continuità e di coerenza delle cose.   Accogliere percezioni che sembrano farsi vive per caso, dettagli occasionali, incontri avventizi non allineati con le nostre aspettative.

Nella comunità contaminata di Casale Monferrato tutti si accorgono e non si accorgono di quanto sta accadendo nel corso degli anni. Vedono morti e polvere dovunque, ma “io non pensavo, dice Vincenzo, io lavoravo e basta”. L’Eternit non era un nemico, non avevano nulla contro l’Eternit.  Ma, racconta Maria Teresa, “rimasi sconvolta quando lessi un necrologio che associava la morte all’amianto… rimasi sconvolta perché si trattava di un impiegato di banca…”. Per questo particolare Maria Teresa si accorge che l’Eternit corre, non si ferma alle porte delle fabbriche né ai vestiti pieni di polvere che i dipendenti portano a casa, si accorge che è una peste (Granieri, 2016).   

Questo consente di rompere l’adattamento acquisito, di cogliere la de-coincidenza e quelle uscite inedite che essa apre.

Si tratta di percezioni che, al momento, possono apparire visionarie, un po’ folli, simili a quelle intuizioni vivide degli psicotici così bene descritte da A. Correale (2021), cioè percezioni che emergono in uno stato mentale in parte estraneo-estraniato dalla propria soggettività conscia ed esplicita.   

Tutto questo si può descrivere come una capacità di attraversare la cesura, di fare un cammino avanti e indietro tra la consapevolezza e l’inconscio, tra la soggettivazione e la dimensione interna   indifferenziata, anziché porsi come una   sentinella sulla cesura, facendo la guardia ai confini e alle differenze, come spesso fanno, appunto, i meccanismi di diniego-negazione-elusione. 

 

 

——

[1] All’esplodere della pandemia Max si prenota per il vaccino e ha una certa impazienza. Ma, con l’avvicinarsi della data dell’appuntamento, arrivano dubbi e paure, disturbi intestinali, tachicardie gli suggeriscono di rimandare. Progressivamente Max sviluppa un atteggiamento negazionista: non esiste la pandemia, è un’invezione delle aziende farmaceutiche e dei governi, proclama. Avverte un pericolo di morte, non collegato al virus, ma al vaccino. Comincia a raccogliere informazioni da Internet, l’aggiornamento del numero dei (presunti) decessi in seguito al vaccino, si costruisce intorno un gruppo virtuale solidale con i suoi timori, soprattutto medici no-vax, il suo amato dentista, “quello che gli ha salvato i denti”. Nel giro di pochi giorni non riesce a pensare ad altro, si perde in infinite elucubrazioni solitarie, la sua attenzione è tutta concentrata lì, seduta dopo seduta contesta i comportamenti altrui, “voi, siete tutti degli incoscienti, ignoranti, non vi informate, non approfondite, siete delle pecore, obbedite al governo che ha chissà quali interessi ad accreditare i vaccini, e la gente muore… negate, negate…”.   

Quanto più diventa capzioso e partigiano, tanto più Max accusa gli altri di capziosità e partigianeria, contesta le ipotesi scientifiche più accreditate e le opinioni “becere” di quelli che sono vaccinati. Max sembra preda di una fascinazione per una irrazionalità mascherata da razionalità squadrata, che lascia trionfare il pensiero magico e concreto, onnipotente. Il suo discorso, più o meno urlato, è pieno di parole che sembrano avere perso il loro senso, termini come cura, salute, autoprotezione, libertà, autonomia, ne escono stravolte.

L’enfasi, l’accanimento, il tono perentorio e violento, e la paura che lo domina, mi fanno talora temere una rottura psicotica, o una depressione annichilente.

Ma sono anche piena di dubbi e di domande sui miei dinieghi e illusioni. Penso al poco che sappiamo e alla nostra inermità.   

Inizialmente, toccata dall’angoscia di Max, cerco di sintonizzarmi su una dimensione interna di diffidenza verso il latte, che avevamo già incontrato, ma forse solo in effige, verso il cibo primario (analisi) che, in fantasia, può avvelenare e corrodere, fare letteralmente impazzire e morire (sono in assetto colomba).   

Max ascolta, si ferma un attimo, e poi torna sul tapis roulant negazionista. Progressivamente mi sembra di cogliere in seduta una dimensione di pretesa, un   ragazzino anarchico, provocatorio, saccente e magro magro, come Max è stato, e che ora entra nella scena analitica con tutto il suo impatto.              

Una razionalità-feticcio, tutta liscia e senza scarti, ottunde il lavoro del lutto dinanzi ad un evento doloroso, catastrofico, per tutti. Questa razionalità-feticcio, pseudoscientifica, veicola un transfert di squalifica, esalta la capacità di trasgredire e ribellarsi al “potere costituito” sanitario, politico, analitico… Non si tratta solo di un transfert sull’oggetto, sull’analista, ma di un meccanismo che investe tutto il contesto culturale e i suoi sforzi di ricerca. Dopo qualche tempo ho l’impressione di risvegliarmi dalla malia che questi discorsi urlati hanno su di me, pur consapevole del ruolo giocato dalla mia irritazione e indignazione, faccio un intervento duro, in assetto “falco”, che, però, contribuisce ad un viraggio. Gli dico: senta, sono tante le cose che non sappiamo, siamo tutti spauriti e confusi, ma quel suo raggranellare pezzetti di cacca da Internet o dal passaparola, quell’assemblare verità di comodo alla meglio, non serve a nulla…    

Che lo si chiami narcisismo maligno (Kernberg), sabotatore interno (Fairbairn), stato mentale fascista (Bollas), questo atteggiamento lascia emergere un narcisismo ferito e mortificato alla ricerca di riscatto.

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Laura Ambrosiano, Milano

Centro Milanese di Psicoanalisi

laura.ambrosiano@gmail.com

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