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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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Intervista a Michele Vannucci

Regista di "Delta"

di Silvia Mondini

DELTA
Intervista al regista Vannucci.
di S. Mondini

Titolo: “Delta”

Dati sul film: regia di Michele Vannucci, Italia, 2023, 105.

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=mbClF9gcNM0&ab_channel=FilmIsNowTrailer%26ClipinItaliano

Genere: drammatico

Leggi la recensione del film “DELTA” di Silvia Mondini

Ho avuto la fortuna di assistere alla proiezione di Delta, interamente girato nell’inverno 2021 e presentato al Festival di Locarno, in presenza di Michele Vannucci.

Di lui — romano, classe 1987 e già autore di comprovato talento — colpisce la spontaneità con cui condivide la perdurante fascinazione per la bellezza del Delta del Po e le misteriose storie dei fantasmi che lo abitano.

È una fascinazione che lui trasmette attraverso la gestualità e i toni, autentici e pacati, con cui racconta il percorso di costruzione del film e la scelta, più volte rimarcata, di non essere troppo direttivo, di lasciare spazio all’inatteso, convinto che la storia si crei nell’area di transizione tra sé e l’altro.

E così, per conoscerlo un po’ più da vicino, mi son decisa a chiedergli un’intervista, e lui ha generosamente accettato l’invito. 

 

Mi ha molto colpito l’autenticità con cui condividi l’idea che ciò che rappresenti è un viaggio in direzione delle parti più oscure, di quello che non si vorrebbe conoscere

È il motivo per cui amo questo lavoro che mi consente di fantasticare vite che non sono la mia, di integrare aspetti altri e di entrare in contatto con gli spettatori.  

 

Lasci spazio a quel che non conosci, all’inatteso, convinto anche che la storia si crei proprio tra te e l’altro. Mi sono domandata se conosci la teoria di Winnicott sullo spazio transizionale, ma … non credo. 

Sì che conosco Winnicott, ho anche letto un suo testo di cui però non ricordo il titolo. È bello pensare il cinema come un gioco, un mettersi in gioco, anche quando si avverte la spinta ad esplorare un conflitto. Pensandoci a posteriori mi rendo conto che l’elemento centrale, quello che ha messo in moto tutto il racconto, era proprio il conflitto tra il personaggio più istintuale e quello più normatore. Quel conflitto che poi si condensa nell’immagine del riflesso e dello specchio. 

È per questo che a me piace pensarlo come un “western psicoanalitico” che ruota intorno alla questione freudiana dell’Io. Quell’immagine sembra indicare che l’unico modo per fronteggiare adeguatamente la realtà coincida con il ricongiungimento delle parti. 

La violenza non scompare se ci giriamo da un’altra parte, dobbiamo imparare ad affrontarla, magari insieme agli altri, anche se fa paura. Il cinema in questo aiuta, ci sono film che restano proprio perché hanno la capacità di condurti in un luogo in cui da solo non avresti il coraggio di andare.

Scrivendo, costruendo via via il personaggio di Osso, ho scoperto che la rabbia può essere uno strumento positivo perché aiuta a difendere la propria persona, a mettere dei confini.

Osso non ha questa rabbia, né la capacità di sentire i confini tra sé e l’altro, è completamente dissolto nell’altro. In ogni caso ho la sensazione che le storie mi capitino.  

 

In che modo ti capitano? 

Sono molto curioso, ascolto i racconti delle persone e quando mi accorgo che ad una particolare storia sto pensando da mesi capisco che mi ha toccato in un punto che mi appartiene.

Il film nasce così anche se poi è necessario che essa si inserisca in un genere – dramma, commedia, erotico – che mi dia la possibilità di appoggiarmi ad una narrazione classica.

La storia che ha ispirato Delta aveva a che fare con il rapporto tra me e la violenza tanto da domandarmi: “Fino a che punto riuscirei a sopportare la violenza (mia e dell’altro) prima che questa prenda il sopravvento?”; “In che modo posso non soccombere, mantenere il controllo sui miei istinti peggiori?”.

Me l’aveva raccontata una guardia ittica di Ferrara. Quando mi sono accorto di questa risonanza son tornato a cercare quella persona spinto dal desiderio di capire me stesso.

Ci siamo frequentati per tre anni e da questo gioco tra intervistatore e intervistato e dai sentimenti che in esso si sono creati è nato il film.

Il film non è un elemento statico, è vivo, ti segue nel percorso, muta con il mutare della domanda iniziale e quando, finalmente, arriva il momento della presentazione ti accorgi di aver trovato la risposta.

Nel mio primo film (“Il più grande sogno”, 2016) questo era ancora più evidente perché la persona il cui racconto ha ispirato il film è diventata il protagonista del film.

Si trattava allora di un uomo uscito di galera in concomitanza con la nascita del terzo figlio e l’elezione a presidente di quartiere, di quello stesso quartiere in cui lui era stato il “cattivo”.

Questa particolarissima circostanza lo aveva aiutato a ritrovare quella fiducia in se stesso che le cattive condotte avevano distrutto tanto da creare in lui il desiderio di essere davvero padre.

Ricordo l’intervista durata sedici ore, la necessità di capire che cosa mi sarebbe piaciuto raccontare di quella storia e il timore che il protagonista si sentisse tradito perché quel che doveva interpretare era la mia fantasia sulla sua storia.

Non è facile accettare che qualcun altro fantastichi sulla nostra vita, ma tutto andò per il meglio.

Le persone capiscono che il cinema è un gioco che serve anche ad affrontare temi più universali e quando questo accade si riacquista fiducia nel mondo.

E il personaggio di Elia come nasce? 

Con Elia ho fatto un altro tipo di percorso.

Nella prima stesura cercavo di spiegare il suo passato ma poi mi sono reso conto che non serviva a nulla, rischiava di essere fuorviante rispetto a quel che di nuovo avrei voluto dire.

Io volevo raccontare la sua ferocia senza doverla giustificare al pubblico.

Non amo i film in cui si spiega troppo, preferisco di gran lunga il mistero, le cose lasciate in sospeso, il vedo e non vedo.

Del resto quando mi innamoro non so mai dire qualcosa di preciso sulla persona di cui sono innamorato.   

 

Quando parli del tuo sogno di creare un “nuovo immaginario cinematografico italiano” ti riferisci a questo modo di creare il film? 

Non precisamente. Nel caso di Delta mi sono riferito soprattutto all’immaginario di quel luogo, di quel fiume, di quel territorio.

Un’area completamente dimenticato dalla mia generazione e che compariva qualche volta nella generazione dei miei genitori attraverso Mazzacurati o in quella dei miei nonni nei film di Dall’Ara e di Leoni.

Ho trovato molto bella l’idea di uno spazio vergine in cui l’uomo, proprio come nei western, è molto piccolo rispetto alla natura.

In questo luogo ho voluto costruire una nuova narrazione e dei nuovi personaggi in cui si parla di crisi ambientale, migrazioni, detenzione impropria di armi…  un western contemporaneo.

A poche persone viene data la possibilità di dire qualcosa di nuovo e di autentico, semmai ci si aspetta che venga detto in altro modo quello che è già stato detto da altri.

L’elemento che più preferisco nei film di altri è la possibilità di capire chi ha scritto i personaggi.

 

Molto interessante. Ti chiederei ora un’ultima cosa sulla fotografia, bellissima. Com’è nato l’incanto di alcune immagini, chi è il direttore della fotografia, che rapporto hai con lui?

 Matteo Vieille è un mio compagno di liceo che poi ho ritrovato alla Scuola Nazionale di Cinematografia dove lui studiava montaggio.

Abbiamo iniziato a lavorare insieme con i documentari e poi con il mio primo film.

Io giro senza monitor mettendomi accanto a lui per osservare la scena e cercare insieme a lui le inquadrature migliori.

Alla fine è come se anche lui diventasse un attore.

Per Delta è stato fatto un lavoro lunghissimo sul territorio insieme agli amministratori locali e quando abbiamo cominciato a girare sul set, sei anni dopo l’idea iniziale, ero arrivato a sentirmi di casa in mezzo a quella natura d’inverno.

Ho sempre immaginato Delta come film invernale perché il freddo e la nebbia, oltre che convincermi di più sul piano emotivo e narrativo, rendono più essenziale la recitazione.

 

 Sei anni sono un tempo davvero lungo … quasi il tempo di un’analisi

 

Buono a sapersi… lo dirò a chi spetta, mi sono sempre chiesto quanto possa durare un percorso personale … dopotutto, come già detto, anche il film ti segue nella vita e durante la preparazione cambia.  

 

Silvia Mondini, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

silvia.mondini@spiweb.it

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