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Come onde del mare

La testimonianza dei volontari di OPEN ARMS

di Patrizia Montagner e Anna Cordioli

Riflessioni a partire dall’incontro del 19-12-2022 del ciclo Violazioni dei Diritti Umani in cui sono intervenuti Valentina Brinis e Lorenzo Leonucci, referente e Operatore di Open Arms Italia

“Come onde del mare” è anche il titolo del libro testimonianza di Valentina Brinis

Considerazioni preliminari

di Patrizia Montagner

Il diritto di muoversi da un paese all’altro è senz’altro un diritto umano. Questa non è una cosa in discussione. Esistono leggi che lo sanciscono.

Il problema è rappresentato dalla necessità di regolamentare tale diritto. E qui entra in gioco tutta la complessità nella sua attuazione.

Le vicende italiane ed europee di questo periodo, ce lo evidenziano. È chiaro che si tratta di una faccenda che implica aspetti sociali, politici, storici, istituzionali e anche psichici.

La migrazione implica un viaggio. A volte il viaggio è molto molto lungo, altre volte meno. La gran parte di coloro che arrivano sulle nostre coste percorre la “rotta mediterranea”. E in quest’area molto pericolosa sappiamo purtroppo che molti ogni anno perdono la vita. Come ci ricordano i volontari di Open Arms il mediterraneo è ormai divenuto una enorme fossa comune.

Vorremmo far osservare che il viaggio in mare può durare anche molto poco, se paragonato alla lunga tragica vicenda di attraversamenti dell’Africa, tuttavia esso rappresenta un momento particolare e significativo.

Senza dubbio è il momento clou del viaggio, non a caso coloro che arrivano traumatizzati hanno frequenti flash back proprio del periodo in mare. Esso è per antonomasia il momento della sospensione, non si è né in un posto né nell’altro, non si poggiano i piedi su nessuna terra, né la propria, né quella straniera. È la rappresentazione più intensa dello stato di incertezza, di fragilità, di inconsistenza, di non legame da nessuna parte, in una parola di non-esistenza.

Una delle cose che la maggior parte di coloro che affrontano il barcone fanno è quella di chiedere a qualcuno vicino di informare i familiari se succede loro qualcosa. Di lasciare un cellulare a cui chiamare per dire almeno che cosa è successo. Il bisogno primario è quello di mantenere un legame per esistere. L’angoscia terribile è quella di poterci non essere più senza che qualcuno di familiare lo sappia. Senza che nessuno possa almeno piangere la perdita. Il terrore è quello di sparire, senza consistenza, senza che nessuno se ne accorga. La verità è che questo rischio esiste.

25 Maggio 2022 Il naufragio di una imbarcazione che, pur avendo lanciato il Mayday non è stata soccorsa dalle autorità. Fonte Open Arms
25 Maggio 2022 Il naufragio di una imbarcazione che, pur avendo lanciato il Mayday non è stata soccorsa dalle autorità.
Fonte Open Arms

Paradossalmente è proprio su questo passaggio in mare che si centra la diatriba anche sociale e politica: per una parte gli sforzi si concentrano proprio sull’impedire che lo sbarco avvenga, e cioè che la persona (anche se considerata magari un numero, ma comunque sempre un essere vivente) metta piede a terra, che sia ancora, nuovamente, da qualche parte. Le cronache dei telegiornali e dei giornali insistono sulle immagini dei barconi e degli sbarchi, muovendo taluni a compassione e in talaltri ostilità.

Perché è tanto importante? Solo per problemi politici (e non è poco)? O c’è dell’altro, più profondo e difficile, da individuare?

 Noi pensiamo che il senso del passaggio in questa zona, in cui non si è in alcun posto, sia assolutamente da approfondire. Esso rimanda da angosce primitive, in cui il Non-posto, cioè una non cornice, un non-contenitore dove qualcosa avviene o non avviene, ha a che fare con i rischi della disumanizzazione.

Lo abbiamo ben capito in questi giorni in cui il tema della responsabilità di chi sbarca è diventato un conflitto fra gli Stati. Conflitto tra la responsabilità dello stato in cui avviene lo sbarco e lo stato in cui può avvenire la collocazione. Dunque dal non-posto ad un qualche posto, ma quale?

Il nostro interesse di psicoanalisti e di esseri umani si incentra su questo momento: su quanto avviene durante il viaggio fino allo sbarco. Ci interessa capire che cosa succede nella mente e negli affetti di chi transita attraverso questo passaggio, e anche in chi lavora a far sì che questo passaggio avvenga in sicurezza.

Perché è un momento così importante? tanto che non solo il singolo ma l’Organizzazione, piuttosto che lo Stato stesso, centrano la loro attenzione su di esso? Ci piacerebbe provare a dare qualche risposta in tal senso

Pensiamo che quando sono in gioco aspetti profondi dell’esistenza umana, che hanno a che fare che con il movimento di angosce primitive e forse impensabili, scattino facilmente l’evitamento e il diniego. Certo è molto più facile voltarsi dall’altra parte. Pensiamo anche che profondi movimenti interiori siano suscitati anche in chi accoglie, oppure non accoglie e non vuole accogliere.

Nella serata organizzata assieme a Valentina Brinis e Lorenzo Leonetti di OPEN ARMS abbiamo potuto parlare di migranti. L’esperienza e la testimonianza di due persone che si occupano di salvataggio e accoglienza da molti anni, lavorando in una ONG è per noi preziosa. I nostri due ospiti hanno la capacità di raccontare che cosa vivono e che cosa vedono e sentono.

Come abbiamo detto loro, non ci interessa né lo scoop giornalistico, né mostrare la bontà di una certa posizione, o discutere se sia più o meno legale. Grazie a loro abbiamo però potuto mettere a fuoco ciò che ci interessa, l’aspetto umano, cercando di ascoltare anche una nuova narrazione.

Esperienze e vissuti di due Life-Guard

di Anna Cordioli

Valentina Brinis - Referente Open Arms Italia
Valentina Brinis - Referente Open Arms Italia

“Non c’è umanità senza professionalità”

Valentina Brinis e Lorenzo Leonetti cominciano a raccontare.

Una delle prime cose che vogliono sottolineare è che Open Arms è una ONG nata da un gruppo di esperti di salvataggio catalani che, di fronte all’ecatombe in mare dei rifugiati siriani del 2015, si sono attrezzati e sono partiti verso l’isola di lesbo per soccorrere le persone che stavano disperatamente fuggendo dalla guerra.

L’attenzione di Valentina fa risaltare l’importanza di essere in effetti capaci di fare delle operazioni di salvataggio.

Noi ricordiamo bene i racconti traumatizzati e compressi dei pescatori siciliani che avevano cominciato a pescare cadaveri con le reti e che si prodigavano a dare soccorso ai naufraghi che incontravano. Quel tipo di salvataggio, provvidenziale e benedetto, comporta però anche una incapacità di dare un soccorso competente ai migranti e ai naufraghi. Il messaggio che ci arriva da Valentina è che non si può pensare che un soccorritore non sia anche una persona che si è preparata, tanto per le operazioni pratiche quanto per le esperienze che attraverserà in missione.

Noi, operatori della salute mentale, sappiamo bene l’importanza di questa preparazione: come psicoanalisti affrontiamo la formazione più lunga e più profonda possibile per saperci esporre al dolore e alle speranze dei nostri pazienti. Siamo dei professionisti della cura non solo perché ci prepariamo per l’incontro con il nostro paziente ma anche perché dobbiamo saper essere d’aiuto anche a quello dopo e a quello dopo ancora. 

Il racconto di Valentina Brinis parlava proprio dell’importanza di avere una preparazione, di non raccattare volontari spinti dal furor salvandi che poi bruciassero la propria disponibilità all’aiuto, dopo la prima missione. In mare si affrontano situazioni di vera emergenza sia prima che dopo il salvataggio dalle acque. I volontari vedono e ascoltano persone che hanno passato l’inferno, talvolta  hanno subito stupri, torture, perdite gravissime. Non ci si può accostare a tutto questo senza aver preparato le spalle larghe e un solido piano d’intervento: sarebbe solo vanità.

 

Il capitano e il capo missione hanno come obbiettivi la sicurezza e il benessere tanto dei naufraghi recuperati quanto dell’equipaggio”. Questa sottolineatura non è una forma retorica ma ha racchiusa in sé una consapevolezza: salvare qualcuno comporta esporsi a enormi pericoli. C’è il mare, ci sono i bisogni primari di tutti, c’è di aver visto la morte, c’è il fatto di essere tutti fisicamente vicini magari per giorni e, non ultimo, c’è l’euforia di chi realizza di essere vivo.

Non si può partire per un salvataggio senza avere comprensione delle dinamiche umanissime che nascono da questa miscela di vissuti. Mentre parla mi accorgo che Valentina  è abituata alla gente. Parla spesso in pubblico, è il suo lavoro, e da come costruisce il racconto mi accorgo che evidentemente le persone pensano che sia scontato ciò che si fa per salvare un essere umano: tendi una mano fuori dalla barca e il grosso è fatto. Non è così. Il momento del recupero delle persone (e dei cadaveri) è centrale ma non è certo l’unico momento delicato di una missione. 

Valentina ci tiene a dirlo ma non per arrivare a glorificare gli sforzi dei volontari. Valentina ha in mente una cosa più complicata. La gente può avere una immagine del salvare una persona dalla morte  ma non ha la minima idea di cosa significhi salvarla perchè viva.

Durante un incontro preparativo su Zoom, era avvenuta una cosa interessante: dopo i primi scambi su cosa avremmo chiesto loro durante la serata del 16 dicembre, vedevamo Valentina e Lorenzo un po’ tesi. Pensai che fossero stanchi di ritrovarsi di nuovo davanti a colletti bianchi, in fondo c’era il rischio di sembrare gente che vive al sicuro ma vuole sentirsi raccontare una bella storia edificante di salvataggi e bontà. Ma era mai stato questo che volevamo sapere da loro? C’era forse in noi qualcosa che diceva “Rassicurateci, commuoveteci e fateci sentire buoni perchè vi ascoltiamo“?

In un attimo è stato possibile dircelo: dirci che non ci interessava la favoletta di Natale e che sapevamo molto bene quanti luoghi interni, anche amari o inaspettati, si devono saper frequentare se si ha intenzione di aiutare gli altri. 

Se qualcuno nella vita vuole sentirsi buono e santo deve rinunciare ad incontrare gli altri esseri umani, soprattutto se li si incontra nel momento del bisogno.

 

Diteci quello che non immaginavate e che avete incontrato”, abbiamo chiesto loro. Questa è stata la stella polare del nostro incontro con Valentina e Lorenzo.

Lorenzo Leonetti - Cuoco Open Arms
Lorenzo Leonetti - Cuoco Open Arms

Quello che non immaginavo

Lorenzo Leonetti nella vita fa il cuoco, ha un ristorante a Roma, e fa il formatore di cucina anche per richiedenti asilo, ma non solo. Sulle navi di Open Arms va a fare esattamente il suo lavoro: fa da mangiare. Ad oggi, ha fatto 7 missioni di salvataggio, alcune delle quali anche molto lunghe.

Lorenzo racconta le cose che non si sarebbe mai aspettato e appena inizia a parlare siamo noi che restiamo sorpresi.

Quando salgono in nave, appena ripescati dal naufragio, educatissimi, molti chiedono dove è il bagno”.

Gli occhi di Lorenzo di fermano su questo dettaglio. Ce li immaginiamo con le dita ancora raggrinzite dal mare che scendono sotto coperta per andare alla toilette. In effetti non era forse la prima immagine che pensavamo ci avrebbe offerto Lorenzo. 

Ci lascia sorpresi ma ci invita anche a salirci su quella nave, a trovare anche queste cose che non ti raccontano mai nei film. 

Ma Lorenzo ci spiazza subito ancora. E commenta la scoperta, inaspettata, della propria strisciante xenofobia. “E come me li immaginavo? Che non usassero il bagno? Che non fossero così educati?”. Già… forse anche dentro la nostra sorpresa c’era qualche stilla di alienazione. Personalmente mi ero chiesta cosa fosse mai una pipì in confronto alla morte scampata ma a pensarci bene ha ragione Lorenzo: forse, senza averne consapevolezza, me li immaginavo tramutati in esseri ridotti ai moti più basilari, in fondo senza più sovrastrutture…

Il diavolo sta nei dettagli e quando te ne accorgi ti senti subito molto meno buono.

 

 

Un’altra cosa che colpisce Lorenzo è che, quando i naufraghi vengono ripescati, zuppi fradici, vengono dati loro dei vestiti asciutti. Sono due le cose che nota. La prima è il pudore che queste persone hanno nello spogliarsi lì in mezzo a tutti (e di nuovo si chiede perché lo colpisca tanto questo dettaglio, perché non aveva pensato che fosse più ovvio così) e poi lo trafigge una sensazione dolorosa: “Gli diamo vestiti asciutti ma tutti uguali e mi vengono in mente le immagini dei lager”.

 

E allora, di nuovo, te li vedi coi vestiti bagnati, magari a dicembre, che peggiorano l’ipotermia. Queste persone hanno passato anche giorni stando stretti in un barcone eppure l’idea di spogliarsi davanti agli altri è subito un troppo. E poi quei vestiti tutti uguali, asciutti ma anonimizzanti…

Mentre ascoltiamo Lorenzo raccontare, diventa distantissima l’immagine del salvatore che è illuminato da un raggio di sole mentre “fa la cosa giusta”. Abbiamo invece di fronte un uomo che, proprio mentre aiuta il prossimo, sente di quante continue effrazioni è fatto un aiuto.

La Aulagnier (1975), quando parlava della “violenza fondamentale”, poneva esattamente l’attenzione lì: sul fatto che prendersi cura di qualcuno ci mette a contatto col l’esercizio di un potere che è “fondamentale” per la vita ma che non è privo di intrusione.

Chi non si accorge di questi dettagli non ha l’assetto adatto a prestare aiuto: finirà per fare gesti effrattivi, forse necessari ma sgraziati nei modi. E noi sappiamo quanto, nel momento di difficoltà, sia vitale avere modi fermi ma pieni di rispetto e gentilezza. 

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 Vivi dopo il salvataggio

Lorenzo e Valentina ci raccontano per episodi il loro incontro con un’esperienza che è diversa da come viene raccontata sui media.

Si trovano di fronte a persone provate ma anche piene di speranza, di progetti e di una forza che merita ascolto.

La narrazione a cui ci hanno abituato i media impoverisce e appiattisce queste persone: sono raccontati solo i traumi, il dolore che spezza, l’annientamento lasciato dal terrore. Pare quasi che il migrante possa essere accolto nel nostro paese e nel nostro immaginario solo se ce lo raffiguriamo come estenuato, infragilito, fin anche azzerato. 

Non che queste cose non ci siano ma i naufraghi sono anche altra cosa: sono coloro che sono riusciti a sopravvivere a viaggi lunghi mesi e a carrette fatte per non reggerli tutti in mare. Non sono superstiti: queste persone sono quelli che ce l’hanno fatta e questa è una evidenza enorme per chi li soccorre e passa con loro i primi giorni.

L’esperienza di essere sopravvissuti al viaggio e di essere scampati al mare muove negli animi un senso di grande felicità. Ci sono momenti di festa, di canto, di voce alta che grida.

Goethe diceva che là dove il sole è più forte l’ombra è più scura ma questo vale anche al contrario: là dove si è conosciuto lo sprofondo più vertiginoso, la salvezza allora appare come un’illuminazione piena. La vita è bruciante. Diremmo forse maniacale, noi, che, con rispetto, sappiamo che la mania è proprio l’angosciata risposta ad un mortifero che incombe.

 

 

I soccorritori, dunque, non hanno solo a che fare con la cura del trauma, che c’è ed è grande, ma anche con questo sentimento vitale che si imbarca sulla nave e che la gente a terra non vuole sentire.

Durante la discussione, un collega psicoanalista ricorda le brutte polemiche seguite al salvataggio di una naufraga, anni fa, che era stata trovata in mare aperto, da sola, a galleggiare assieme a due cadaveri. Qualche giorno dopo, allo sbarco, qualcuno notò che aveva lo smalto sulle unghie. Sui giornali e nel web, si scatenò una bagarre sdegnata per il fatto che una persona che aveva rischiato la vita non poteva avere lo smalto e che dunque era stata tutta una messa in scena.  

Il nome di quella naufraga è Josefa e a salvarla era stata proprio una missione di Open Arms in cui era imbarcato Lorenzo.

 

Lorenzo ricorda quel giorno. Il capitano aveva sentito dell’intervento della “guardia costiera” libica su un gommone in mezzo al mediterraneo. Il gommone era affondato e la nave di Open Arms decise di rifare il tracciato di navigazione dei libici a ritroso, per andare a cercare eventuali superstiti. “Nel centro assoluto del mare aperto c’erano tre corpi che galleggiavano. Uno era un bambino, uno era un uomo e uno era lei, allo stremo ma viva.” 

Le foto del salvataggio fecero il giro del web in un istante. Tutti ricordiamo lo sguardo perso di quella donna.

Foto del salvataggio di Josefa
Foto di Pau Barrena/AFP - Fonte Open Arms

Alla nave non fu accordato un porto sicuro in Italia e ci vollero 5 giorni per poter sbarcare Josefa. In quel lungo tempo, sulla nave,fu accolta, curata e fu aiutata a riprendere contatto con la speranza di essere salva. Valentina Brinis aggiunge “Ai bambini diamo i colori e i fogli per disegnare. Certe volte li diamo anche agli adulti. Ma diamo anche attenzione al loro corpo. Alle donne certe volte mettiamo lo smalto. Lo smalto non è diverso dai colori per i bambini”.

Eppure evidentemente la cosa che non si può tollerare è che queste persone siano in effetti salve e che possano essere riconosciute come donne, uomini, bambini vivi. Dopo la marea d’acqua rischiano dunque di affogare tra i flutti di una ipocrisia che li può accettare solo a patto che restino sempre lì lì per sparire.

Valentina e Lorenzo cercano invece di raccontare la forza di queste persone che hanno affrontato viaggi estenuanti e portano con sé un profondo attaccamento alla vita. È amaro accorgersi di come l’opinione pubblica, anche quella più benevola, tenda a fiaccare questa vitalità.

Il pensiero dei volontari va anche a tutte quelle strutture di accoglienza a medio e lungo termine in cui i migranti vengono parcheggiati e infantilizzati, invece che aiutarli subito ad incanalare la loro grande forza umana e la loro voglia di rinascita. “Non possono neppure cucinarsi da soli il pasto: arriva precotto e preconfezionato.  Queste persone sono capaci e forti, perché renderli inetti?”

Foto del 25 Agosto 2022- 99 persone a bordo della nave OpenArmsUno attendono da 9 giorni che venga assegato loro un porto sicuro
Foto del 25 Agosto 2022- 99 persone a bordo della nave OpenArmsUno attendono da 9 giorni che venga assegato loro un porto sicuro.
Fonte Open Arms

Cibo e nutrimento

Una volta imbarcati i naufraghi, inizia la navigazione verso il porto sicuro che spesso non arriva e tarda per precise volontà politiche. I giorni in mare fiaccano le forze dei naufraghi e dei soccorritori.

In una missione, passata alla storia per la lunghezza spropositata del tempo che ci è voluto per poter sbarcare i naufraghi, Lorenzo era a Roma. Ad un certo punto fu chiamato a sostituire il cuoco della missione che non si era sentito bene. Prese le sue cose e andò sulla nave sequestrata in mare. Il clima era molto teso. I naufraghi e l’equipaggio allo stremo delle forze. La gioia del salvataggio si era trasformata in esasperazione e per il nervosismo non mancavano le risse. Possiamo immaginare una situazione più claustrofobica e confusa?

Venni chiamato anche perché nelle missioni ho imparato a cucinare i piatti di varie parti dell’Africa”. Il cibo è un potente calmante, ci sostenta ma, come sappiamo, ci fa sentire avvicinati e protetti. Freud (1905) ci ha insegnato a dare valore alla funzione d’appoggio: là dove un bisogno è soddisfatto si creerà un investimento erogeno e vivificante, attorno al quale si struttura e ricompatta la sensazione di esistenza.

Lorenzo forse non ha letto Freud (o forse sì, chissà) ma questa cosa la sa molto bene. “Ogni giorno andavo in mezzo ai migranti e raccoglievo ricette del loro paese. Un giorno cucinavamo un piatto di un posto, l’altro giorno quello di un’altra parte dell’Africa. E così gli animi si calmavano e guadagnavamo qualche giorno in attesa che ci lasciassero sbarcare”.

Il cibo è anche un potente segnatempo, è il primo vero orologio che abbiamo conosciuto e che ci ha sottratto dalla marea. 

Mi viene in mente Winnicott (1958) quando, osservando il pianto disperato del bambino, dice che in quel momento il bambino “reagisce” ad un dolore. Secondo Winnicott quel “reagire” non permette di accedere all’esperienza di esistere. 

L’esistenza è un’esperienza che nasce dalla coesione del sé, quando il terrore si è allontanato, il bisogno è stato placato e si può finalmente essere a cospetto di sé stessi e dell’altro che era con noi in quel momento.

Quando qualcuno salva un essere umano non solo dallo stato di pericolo imminente ma riesce anche toglierlo dalla condizione di “reagire e basta” ecco che quel salvataggio si occupa davvero dell’esistenza dell’altro.

Lorenzo, sulle navi di soccorso, fa un uso estremamente consapevole del cibo come strumento di coesione interna e di comunità. Ci parla di una pratica di aiuto in cui nessun dettaglio viene sottovalutato. Questo perché L’idea di salvataggio che Lorenzo e Valentina ci raccontano tende a recuperare l’interezza delle persone che hanno davanti: il corpo e le emozioni, la vita e il trauma, la gratitudine e la frustrazione, il presente e la storia.

Ascoltandoli ci si chiarisce sempre di più come i migranti non corrano solo il rischio di essere numeri di una statistica ma di diventare figurine bidimensionali, indistintamente grigie e senza sfumature, a cui non accordiamo nessuna qualità umana al di fuori del potere di farci sentire buoni, se li salviamo, o di farci spaventare, se li pensiamo come una minaccia.

 

Spesso, parlando del tema dello straniero, ci chiediamo perché abbiamo così tanta paura. Il ragionamento va istintivamente verso la paura di essere aggrediti e che lo straniero abbia intenzioni distruttive. Ciò che temiamo è che lo straniero sia il vettore di thanatos.

 Vale la pena di accorgerci, invece, che i gesti della nostra società parlano chiaro: ciò di cui abbiamo più paura è la vita che queste persone portano con sé. Temiamo la forza che li ha condotti fuori dai loro paesi, la loro determinazione a sopravvivere o a migliorarsi, la propulsione che gli dà essere riusciti a scampare, a incontrare una nave amica, a toccare una nuova terra.

 

Valentina e Lorenzo ci hanno posto questo ordine di questioni e ci hanno dato la speranza che potremo anche noi accettare che, al netto di tutto il dolore, migra chi è portatore di vita.

Fonte Open Arms
Fonte Open Arms

Bibliografia

Aulagnier P., ( 1975) “La violenza dell’interpretazione“, Borla, Roma, 1994

Freud S. ( 1905) “Tre saggi sulla sessualità infantile”,  Opere 4 volume, Bollati

Winnicott D. ( 1958) “Dalla Pediatria alla Psicoanalisi”, Martinelli editore, 1975

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