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“Bi Roya” ("Without her").

di Ilaria Binotto

“Bi Roya” ("Without her")
“Bi Roya” ("Without her")

Titolo: “Bi Roya” (“Without her”).

Dati sul film: regia di Arian Vazirdaftari, Iran, 2022, 111’.

Presentazione Biennale di Venezia su raiplay.it

Genere: drammatico

 

Questo film, presentato alla 79° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Orizzonti Extra, mi ha incuriosito dal titolo. Mi sono chiesta cosa significasse “Bi Roya” e, lasciandomi trasportare dal suono bi, mi son trovata a pensare al verbo essere (to be) e al due (prefisso “bi”: due, che ha due, composto di due).

Con la visione del film si capisce che porta come cardine il tema dell’identità, dell’essere, dell’identità bis, dell’essere in due ad avere la stessa identità, finché delle due ne rimane solo una. Tante sono le aperture proposte dal film che meriterebbero una riflessione: il tema del doppio, la condizione della donna in Oriente e i condizionamenti sociali da parte del sistema. Focalizzo il pensiero sul furto dell’identità: il soggetto è costretto ad acquisirne un’altra perché al mondo “nessuno” non si può essere, si deve essere qualcuno, quello che si decide di essere o quello che l’altro o il gruppo decide che si sia.

Difficile trattare una questione così complessa come l’identità, mi limito così a seguire il tema caro a questo giovane regista iraniano, quello dell’identità negata, dell’impossibilità a realizzarsi per quello che si è e si desidera.

Roya è una giornalista messa al bando dal governo e, su insistenza del marito, si sta preparando per emigrare in Danimarca. Mancano due settimane alla partenza quando si imbatte in una ragazza che non parla e la guarda con due grandi occhi sbarrati. Roya comprensibilmente pensa che abbia perso la memoria e, dopo un primo tentativo di liberarsene, la prende con sé e le dà addirittura un nome, Zhiba. La protagonista non può sapere che la sconosciuta è stata costretta ad abbandonare la propria vita precedente, che non esiste più per nessuno e che, per acquisire una nuova identità, sceglie di rubare proprio quella di Roya, di rimpiazzarla e di viver la sua vita.

Roya all’inizio si presenta come una donna sicura si sé, con una propria progettualità che sembra condivisa col mondo esterno e in particolare col marito: poter finalmente immigrare in Danimarca da una città non ben specificata del Medio Oriente. La prima scena la vede impegnata nell’imparare ad andare in bicicletta, solo per far contento il marito, e andare insieme verso il paese delle biciclette. Trovo che quest’incipit, che può sembrare una scena di leggero tempo libero, racchiuda il tema del film, in cui l’essere è legato all’essere in grado di, in questo caso di diventare cittadino danese, acquisirne l’identità con relativi usi e costumi.

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Ecco che l’identità attiene a una struttura della personalità che contiene i caratteri culturali più significativi di un popolo e che viene interiorizzata in termini intrapsichici (Lombardozzi, 2015). Il concetto di identità che emerge dal film è che essa viene data dall’altro, dal fuori da sé, dal gruppo, dalla società di riferimento.

Ma così come l’identità viene data, perché il soggetto viene visto e riconosciuto dal gruppo famigliare o lavorativo, così viene tolta e trasferita a un altro come atto necessario, poichè è presente in ogni essere umano, il bisogno di mantenere una qualche esistenza. Non basta l’auto-affermazione, il darsi un proprio valore e definizione per essere ed esistere.

L’identità appare invece garantita soprattuto dalla contiguità col mondo esterno, con la società di appartenenza e dal rispetto delle regole del sistema societario stesso, proprio perché il soggetto è assoggettato/dipendente dallo stesso.

Roya prima di espatriare deve fare un intervento agli occhi che le permetterà così poi di vedere senza occhiali. Anche questa mi piace pensarla come una scelta che la sceneggiatura fa per dar forza al film, che sottolinea quanto l’immagine che il soggetto ha, anche di sè, sia di riflesso all’immagine che l’oggetto da al/del soggetto stesso.

Ecco che to be Roya per Zhiba è l’unico modo per riprendere ad esistere. Troverà progressivamente il modo di vestire i panni di Roya, fino a diventare lei, possedendone anche il passaporto. A questo punto le protagoniste sono due e l’identità di una transita in un crescendo di suspance nell’altra. 

Da questo punto in avanti il regista usa il codice del thriller per portare avanti la storia che vedrà la prima Roya dubitare della propria sanità mentale vedendo che nessuno intorno a sé la riconosce più. Si percepisce la sofferenza di Roya che perde la propria identità, ma che continua a lottare per i propri spazi e ideali, ma che presto percepisce che non si ha più nessun valore se è il sistema di riferimento che ti definisce a tutti i costi.

“O cambi te stesso o ti adegui, o vieni eliminato per essere rimpiazzato da coloro che invece lo fanno”, afferma il regista. Sembra una riflessione senza speranza, ma è Roya stessa a dare un’apertura a quello che sembra solo sottomissione e passiva accettazione facendo un ponte tra la vita esterna, il mondo della cultura nella quale vive e l’esperienza della propria interiorità. 

Concludendo propongo un passaggio dal concetto di identità a quello di sentimento di identità che, come affermano i Grimberg (1975), è alla base di un buon sviluppo della persona e che, quando è deficitario, espone a patologie confusive dell’identità. Il sentimento di identità si baserebbe così sull’integrazione di spazio, tempo e dimensione del gruppo. Si tratta di rapporti d’integrazione che consentono la differenziazione tra Sé e non Sé, la percezione di un senso di continuità del Sé, e la relazione tra aspetti di sé e oggetti esterni (Lombardozzi, 2015). L’individuo che accede al sentimento di identità sa di essere se stesso nel succedersi dei cambiamenti che sta sperimentando anche nel corso del tempo.

Questo accade a Roya, che riesce a preservare la sua integrità anche con una nuova identità e riesce a mantenere la percezione del senso di continuità dell’esistenza anche se esposto, nel corso dell’esistenza stessa, a transitori vissuti ed esperienze di frammentazione e dispersione. Ricordo Kohut (1985), che afferma che l’oggetto Sé ha una valenza culturale ed è in stretta relazione con le componenti ambientali e sociali che costituiscono proprio il sentimento di identità.

La soluzione migliore, proposta anche dal film – che speriamo prima o poi di poter vedere in sala o in streaming – sembra trovarsi nel mezzo, in un gioco di somiglianze e differenze tra Sè e l’altro, in cui l’altro può essere concepito come un altro che è anche, e soprattutto, simile a Sè.

 

Bibliografia

Grinberg L. & Grinberg R. (1975). Identità e cambiamento. Armando, Roma, 1976.

Kohut H. (1985). Potere coraggio e narcisismoPsicologia e scienze umane.Astrolabio, Roma, 1986.

Lombardozzi A. (2005). Limperfezione dellidentità. Riflessioni tra psicoanalisi e antropologia. Alpes, Roma.

Ilaria Binotto, Padova e Treviso

Centro Veneto di Psicoanalisi

ilariabinotto@gmail.com

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