Nel 60° Anniversario

La tragedia del Vajont

Ascoltando la testimonianza di Marcello Mazzucco, testimone.

a cura di Patrizia Montagner

La notte del 9 ottobre del 1963 una parte enorme del monte Toc franò nel lago sottostante, formato dalla diga del Vajont.

L’onda d’acqua, spostata da quella massa, salì fino ai paesi di Erto e Casso e poi scese giù distruggendo Longarone, ai piedi della diga. Morirono più di duemila persone e l’area fu in alcune parti letteralmente rasa al suolo. Molte delle persone raggiunte dall’impatto durante il sonno non furono più trovate.

Chi, come me, è ormai anziano, forse ricorderà l’arrivo della notizia della distruzione di Longarone, Erto e Casso, e le immagini al telegiornale, in bianco e nero, di una zona desolata in cui c’erano solo macerie e persone smarrite e disperate che si aggiravano tra mucchi di pietre e fango.

Ricordo che frequentavo la scuola elementare allora, e che la maestra ce ne parlò, raccogliemmo anche del denaro per aiutare la ricostruzione.

Poi non se ne parlò più, la cosa cadde nel silenzio, come tanti eventi tragici. Contribuì a ricordarla un famoso spettacolo di Marco Paolini tenuto vicino al muro della diga nel 1997, più di trent’anni dopo.

Come sempre uno dei meccanismi che più di frequente agiscono è l’oblio.

Fu una catastrofe, per le persone singole, per i nuclei familiari, per i paesi, per le comunità che in essi vivevano: una catastrofe, cioè un evento talmente enorme e traumatico che cambiò totalmente il corso della loro storia. Nulla per loro fu più come prima.

Il ricordo è importante. Esso è dovuto prima di tutto alle vittime, ma soprattutto a tutti noi, che non possiamo perdere il filo della memoria. La psicoanalisi ci insegna quanto sia facile dimenticare per non prenderci la responsabilità del ricordare.

Ricordare ci fa riflettere su che cosa significhi essere vittime di una catastrofe, subire un trauma, cioè un evento improvviso che va al di là delle nostre capacità di pensare e di dare un senso ad esso.

Ma pensare è invece doveroso, anche se doloroso.

Pensare alle responsabilità di chi ha agito senza considerare concretamente il rischio per le persone che implicava costruire una tale struttura.

Pensare alle responsabilità di chi, già allora, (ma quanto questo si continua a fare anche adesso), non ha considerato l’impatto ambientale. L’equilibrio della natura, tutta, anche la terra e le rocce, è delicato e fragile.

Pensare anche a come tutta la tragedia è stata gestita.

Fonte DailyGreen.it

Per ricordare ascoltiamo le parole di MARCELLO MAZZUCCO, che ha generosamente accettato di condividere con noi i suoi ricordi.

Scrivo ascoltare e non leggere, perché è la sua voce, prima di tutto, che dobbiamo individuare in questo testo, una voce che parla con serietà e impegno, motivata a raccontare, ma che ogni tanto si rompe, quando la commozione diventa troppa. L’ho ascoltato di persona e il suo racconto mi ha profondamente toccata, per il coraggio e la determinazione con cui ha affrontato la vita allora e anche dopo.

 La vita che gli aveva cambiato i suoi progetti con tanta violenza.

Marcello la notte della catastrofe del Vajont aveva 15 anni e abitava a Casso.

Il resto ce lo racconterà lui.

  • Chi è e che cosa succedeva in quel periodo della sua vita, i giorni prima di quando è accaduta la tragedia?

Nel 1963 avevo 15 anni e frequentavo la scuola di Avviamento Industriale di Longarone, che raggiungevo, ogni giorno, a piedi, dal paese di Casso, distante 11 Km e con un dislivello di 500 metri. Durante l’estate del 1963, ci eravamo dedicati alla raccolta del fieno, che serviva al mantenimento di circa 500 animali, fra mucche, capre e pecore;

dal 1 ottobre avevo ripreso a frequentare la scuola a Longarone. Quasi tutte le famiglie di casso si trovavano sul versante del Toch, compreso il bestiame. Qualche giorno prima della tragedia, il Comune di Erto e Casso emetteva un’ordinanza di sgombero immediato di tutta la zona del Toch. Il 9 0ttobre, mi reco a scuola a Longarone, come tutti i giorni, quando esco , alle ore 12, per tornare a casa, passo davanti alla caserma dei Carabinieri; all’esterno ci sono due di loro con un gruppetto di persone che stavano chiedendo se c’erano notizie sulla situazione della diga, oppure segnalazioni di pericolo. I carabinieri risposero tranquillizzando, che non c’era nessun allarme e che tutti potevano stare a casa loro tranquilli.  Sono state le ultime parole che ho udito a Longarone. Il pomeriggio, a Casso ho aiutato mia madre a raccoglier le patate nei campi. Dopo cena mi sono recato al bar vicino alla piazza, gestito da una zia, per fare quattro chiacchiere con gli amici; ovviamente parlavamo anche della situazione del Toch, dove qualcuno raccontava di aver visto delle fessure nel terreno e qualche albero inclinato; comunque non si parlava mai di gravi pericoli, considerando che i tecnici responsabili in caso di eventuali crolli, avevano previsto un ‘onda alta al massimo 25/30 metri. Da alcune settimane però noi sentivamo dei rumori di frane

4 novembre 1960. Già da tempo era visibile la linea di frana del monte Toch.
  • Che cosa è accaduto quella notte?  Qual è il ricordo più vivido che lei ne ha riportato?

Quella sera, mi sono coricato verso le 21,45. Alle 22.39 mi sveglio, sentendo un rumore di frana, come se ne sentivano altre in quel periodo.

A differenza delle altre volte, però, in pochi secondi il rumore aumenta di intensità, in maniera indescrivibile, a cui si aggiunge un tremore di terremoto. Penso che, trovarsi in mezzo al fragore di mille treni che transitano contemporaneamente, non renda completamente l’idea. 

L ‘impressione che tutte le montagne intorno stiano collassando, subentra il terrore per una possibile morte imminente.

L’unico gesto di difesa che mi viene in mente è quello di rannicchiarmi nel letto, sperando che in un eventuale crollo dell’edificio, qualche travo, mettendosi di traverso, mi possa proteggere.

Un momento dopo, si avvicina mia madre che strattonandomi mi dice: “Scappiamo, sta cadendo il Toch!”.

Allora prendo in braccio mia sorella Luigina che aveva 9 anni, mia mamma prende l’altra sorella Sandra di soli 6 mesi e usciamo dalla camera. Tutto viene fatto al buio perché era già saltata l’energia elettrica.

Appena siamo sulle scale per scendere in cucina, al piano terra, sento l’acqua che mi viene in testa. Non penso ancora che sia l’acqua del lago, piuttosto la possibilità che lo spostamento d’aria abbia scoperchiato la casa e sia in corso un grande acquazzone. Scesi in cucina, accendiamo una candela.

Sul pavimento notiamo una spanna d’acqua fangosa, le finestre sfondate e a quel punto ci rendiamo conto che l’acqua è proprio quella del lago.

Usciamo sulla strada, l’acqua è già defluita data la pendenza in cui si trova il paese.

Ci rechiamo a casa di parenti che erano lì vicino e che erano un po’ più riparati dall’onda.

Ci danno qualche loro abito per vestirci e subito ci rechiamo nel bar della piazza con l’intenzione di trascorrere lì la notte.

Tutta la gente del paese era in subbuglio. Le persone che avevano dei parenti che abitavano vicino al lago cercavano di raggiungerli, però appena usciti dal paese, erano costretti a ritornare indietro, perché la strada era distrutta: trovavano solo fango e macerie. Si notava nella gente uno strano stato d’animo, la preoccupazione per la sorte incerta dei parenti e il miracolo di essere vivi.

fonte corriere.it
Longarone, i Vigili del fuoco e le squadre di soccorso lungo il letto del Piave
  • Cosa è successo nella sua vita dopo?

Alle prime luci dell’alba, abbiamo guardato verso il Toch, per cercare di capire cosa era successo. Tutta la valle era coperta da una fitta nebbia e non si intravedeva niente. Intanto il giorno si avvicinava e allora pensai di tornare in casa mia per recuperare i miei vestiti cercai di aprire la porta ma si aprì solo lo spazio necessario per infilarmi di traverso. Dietro la porta si trovava una pietra del peso di circa 70/ 80Kg, che cadendo dall’alto aveva sfondato il tetto e altri due solai prima di fermarsi. Sul momento non ho pensato al rischio che avevo corso, sicuramente la pietra sarà caduta qualche attimo dopo che ero uscito con mia sorella in braccio. Poco dopo con alcuni amici ci siamo recati sul sentiero, in direzione di Longarone, fin sul costone dove si vede tutta la valle del Piave. Dove doveva esserci Longarone,c’erano solo fango e detriti  e una grossa pozzanghera d ‘acqua sul greto del Piave. In un attimo mi vennero in mente tutti i miei compagni di scuola, gli insegnanti e tutte le persone di Longarone che conoscevo. Pensai che poche ore prima ero lì in mezzo. Mi prese un grande sgomento che mi fece vacillare la mente. Non riuscii più a sostenere lo sguardo di quella scena e tornai di corsa al paese. Intanto il sole aveva dissolto la nebbia e davanti ai nostri occhi si presentò un paesaggio lunare: tutta la vegetazione era stata cancellata, il bellissimo paesaggio del Toch era sparito e al suo posto si vedevano solo rocce e pietre che sembravano levigate. A mattinata inoltrata, sono arrivati in paese i carabinieri che, in modo perentorio, (quasi come se la montagna fosse crollata per causa nostra) ci hanno intimato di abbandonare il paese.

10 Ottobre 1963. Il Giorno dell'Esodo.
La famiglia Mazzucco attende di essere sfollata.

 Così, infilate poche cose in una borsa, siamo saliti su un elicottero della NATO che ci ha portato in Valcellina. Abbiamo passato due notti in una colonia estiva a Cimolais, poi altri dieci giorni in un albergo di Claut, dove successivamente ci siamo stabiliti in una casa in affitto.

 

 

  • Cosa è avvenuto nel suo paese e nell’ambito sociale in cui viveva, come sono cambiate le  cose per voi?

Il paese è rimasto abbandonato per quasi sei mesi, anche se in certe occasioni siamo riusciti a raggiungerlo, a piedi, per cercare di sistemare un po’alla meglio i danni provocati dall’onda sulle abitazioni. Ovviamente la comunità è stata smembrata, le famiglie sono state distribuite fra le province di Belluno e Pordenone.

Il nostro modo di vivere abituale si è interrotto, siamo stati costretti a svendere tutti gli animali che avevamo e ad adeguarci alla vita del paese che ci aveva ospitato.  A fine marzo del 1964, la maggioranza delle famiglie è riuscita a rientrare nelle proprie case.

Nel frattempo però il Governo aveva emesso un decreto di sgombero totale del paese, che è durato fino all’inizio degli anni 2000. Quindi abbiamo vissuto per quarant’anni da abusivi, nella propria casa.

Da fine marzo del 1964 fino a metà dell’estate successiva, abbiamo vissuto in paese, senza strada e senza energia elettrica, usando il lumino a petrolio per illuminare le abitazioni.

10 Ottobre 1963. Foto storica
  • A suo avviso quali gli interventi che avrebbero più aiutato appena successa la tragedia? Quali sono invece li interventi che sono mancati di più?

Sicuramente sarebbe stato necessario, nell’immediato dopo la tragedia, dare un sostegno psicologico alle persone, soprattutto a quelle più fragili e a quelle che avevano perso i congiunti.

Sarebbe stato utile anche un supporto nel cercare le abitazioni dove collocare gli sfollati. Non c’è stato nessun aiuto quando, successivamente siamo rientrati nelle nostre case. Quando c’è stata la ricostruzione dei paesi in località Vajont, vicino a Maniago, in località Nuova Erto, vicino a Ponte nelle Alpi, nonché in località Stortan , vicino a Erto, sono sorte innumerevoli difficoltà burocratiche che hanno stressato la popolazione.

Non parliamo poi dei rimborsi economici che sono stati dati per la perdita dei congiunti.

Basti dire che per un fratello scomparso il compenso era di seicentomilalire.

10 Ottobre 1963. Foto storica
  • Se se la sente potrebbe dire che cosa è cambiato dentro di lei, dopo questo avvenimento drammatico?

Spesso una sensazione di insicurezza quando mi trovo in mezzo alla gente; la paura che riemerga quella sensazione dolorosa che ho provato al vedere come era ridotto Longarone il giorno dopo.

 

  • Ora lei riesce anche a parlarne. E’ riuscito a farlo subito o invece questa cosa ha richiesto molto tempo?

Per la verità, per molti anni nessuno mi ha mai chiesto niente su questo argomento. Ora riesco a parlarne ma con grande fatica. Penso comunque che sia utile parlarne.

 

  •  A suo avviso che cosa è rimasto di tutto questo alle generazioni successive? Un trauma? Un vuoto? Un silenzio? Delle domande? Altro?

Secondo me molti recepiscono la leggerezza con cui vengono affrontate opere importanti che possono decidere il destino di molte persone. Chi invece ha la responsabilità di queste decisioni non penso che abbia tratto insegnamenti perché rimane sempre sopraffatto dall’avidità per il denaro.

Patrizia Montagner, Portogruaro (Ve)

Centro Veneto di Psicoanalisi

patmontagner28@gmail.com

Le testimonianze e il dolore dei sopravvissuti sono caduti nel silenzio per molti decenni.

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