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Trieste è bella di notte

recensione di Patrizia Montagner

Trieste è bella di notte

Titolo: Trieste è bella di notte.

Dati sul film: Regia di Matteo Calore, Stefano Collizzolli , Andrea Segre, Italia 2023, 75’.

Trailer:https://www.dailymotion.com/video/x8h5dcp

Genere: documentario

Approfondimenti:  Intervista a Stefano Collizzolli, uno dei tre registi

 

Questo documentario è stato girato in alcuni luoghi cruciali della migrazione attraverso la Rotta Balcanica. Esso mette in luce, con determinazione e grande umanità, l’orrore e la disperazione di un viaggio, in cui la fatica è nulla rispetto alla tragedia dei “respingimenti”.

Ai migranti e i profughi viene impedita la presentazione delle domande di asilo quando arrivano in Europa e vengono ricacciati indietro, nel totale non rispetto delle leggi nazionali e internazionali e dei diritti umani di cui sono portatori. Queste operazioni vengono chiamate “riammissioni informali”.

Alcuni migranti intervistati, nella loro lingua madre, parlano di sé, della loro esperienza, mentre sono accolti un Centro di Accoglienza al confine con la Slovenia a ridosso del Valico di Fernetti, sul lato italiano. Altri sono colti in conversazioni che si svolgono dentro una catapecchia nei pressi del confine tra Bosnia e Croazia dove sono rifugiati otto profughi in attesa di partire per il game.

Game è come viene chiamato ogni tentativo di attraversare i confini e di arrivare in Italia, ed è questo il titolo che doveva avere il film. Poi, racconta uno dei registi, Stefano Collizzolli, durante le riprese qualcuno ha chiesto ai migranti se potevano raccontare qualcosa di bello successo loro durante il viaggio. Tutti erano stupiti e perplessi, infine uno ha detto che il momento più bello è stato quando ha potuto vedere Trieste dall’alto, così bella con tutte le luci della notte che si riflettono sull’acqua! Il titolo rievoca dunque questa speranza.

Nel film è messa in luce sia la sofferenza fisica sia quella psichica che il game, tentato anche trenta, quaranta volte, comporta.

Un migrante racconta che il viaggio per arrivare in Italia è durato sei anni, altri aggiungono che sono partiti che erano ragazzi e arrivati ormai uomini con la barba. Anche chi è già in Italia è ancora terrorizzato dalla paura di poter essere nuovamente “ricollocato”, cioè rimandato indietro in Slovenia, poi in Bosnia e Croazia. E dover riprovare il game, ancora e ancora.

È rassicurato dai compagni che sono arrivati, con cui resta in contatto telefonico, che gli dicono: “Quando sei arrivato dimentichi tutto”. Ma è vero?

In chi è arrivato restano sicuramente le cicatrici fisiche del viaggio. Alcuni camminano per giorni, con scarpe totalmente inadatte, che formano vesciche e poi ferite profonde che causano un dolore insopportabile, sulle spalle un peso fino a quaranta chili per portarsi cibo e acqua, vivono all’addiaccio, facilmente si ammalano, attraversano luoghi impervi, scalano pareti montane senza nessuna sicurezza. Quando i viveri finiscono, si adattano anche a mangiare foglie e a bere acqua di pozzanghere. Quando qualcuno si fa molto male, gli altri sono costretti a lasciarlo per poter proseguire. Se qualcuno muore — e qualcuno muore — allora i compagni lo seppelliscono alla meglio sotto le foglie e vanno avanti.

Ma le ferite peggiori sono quelle psichiche: i poliziotti e le guardie mascherate, soprattutto Croati — dicono i migranti — li picchiano, li torturano, vengono spogliati e privati di tutto, e rimandati indietro. Viene loro sottratto anche il cellulare, che è il legame con la storia, con il proprio mondo, con la famiglia, che ha bisogno di sapere che “sei ancora vivo”, con cui tengono il contatto con chi è già arrivato, con gli altri che viaggiano in gruppi diversi.

Passano mesi prima che si possano rimettere in piedi e ritentare, ricomprando tutto.

L’insensatezza, la disumanità, oltre che l’assoluta ingiustizia e illegalità dei respingimenti, si colgono continuamente nelle parole degli intervistati. Così come emerge la complessa rete dei trafficanti che supporta queste operazioni e la quantità di denaro che essa muove.
Dall’altra parte, sul confine bosniaco, la paura, l’angoscia, ma anche il coraggio e la speranza sono vive nei dialoghi del gruppo che sta per partire per il game. Ce la faranno stavolta? Non si parte senza aver pregato e raccomandato se stessi alla benevolenza e alla protezione di Allah.

Ciò che più colpisce è, oltre all’impensabile orrore a cui queste persone sono sottoposte, atti di violenza mostruosi, la scoperta dell’esistenza di un male quotidiano che annienta l’umanità, talvolta la fine della speranza nell’umanità.

Uno di loro dice: “Ma questi non sono umani; c’è stato un momento nel game in cui non volevo più vivere, e quando sono stato respinto dopo che mi avevano già portato in Italia, quel giorno per me è stata l’Apocalisse”.

Ci chiediamo che futuro avranno coloro che ce la faranno, come riusciranno a collocare dentro di loro questa parte della loro vita e convivere con essa? Come gestiranno la rabbia e l’odio che hanno sentito? La sfiducia e la paura degli altri uomini?

E noi come ci poniamo di fronte a tutto questo?

Domande fatte a noi, ma soprattutto alle Istituzioni.

Dopo una causa intentata da un migrante più volte respinto, sostenuto da alcune ONG e accolta da un giudice coraggioso, Silvia Albano, i “ricollocamenti” siano cessati. Ma è così? Questo cambiamento nella disposizione dell’accoglienza è effettivo? Continuerà?

Senza dubbio il film si interroga di fronte al fenomeno della migrazione che non possiamo fermare, ma suggerisce che possiamo forse iniziare a gestire, innanzitutto rispettando le leggi che già ci sono.

Le partenze continuano. Nonostante tutto. Sostenute dal sogno di una vita almeno accettabile in un luogo umano.

Patrizia Montagner, Portogruaro (Ve)

Centro Veneto di Psicoanalisi

patmontagner28@gmail.com

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