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Stereofonia dell’identificazione proiettiva

di Béatrice Ithier

Alcuni concetti psicoanalitici sono estremamente versatili, la ricchezza e la ramificazione delle loro connessioni sembra inesauribile. E se è vero che M. Klein ci ha cantato la canzone del linguaggio materno – senza la quale la psicoanalisi non sarebbe diventata ciò che è oggi – con il suo concetto di identificazione proiettiva, ci ha regalato il concetto cardine tra l’antico ed il nuovo mondo analitico. E’ per questo motivo che, se scelgo nella sua opera così feconda – dalla comprensione e dalla tecnica del gioco alla profondità e all’articolazione dell’angoscia per dirla in breve – di soffermarmi su questo concetto, è innanzitutto in virtù del suo inevitabile utilizzo nella pratica clinica. L’identificazione proiettiva non si manifesta unicamente nell’interazione intensamente evacuativa che tipicamente genera il funzionamento psicotico e borderline, ma essa compare anche sotto forma di comunicazione non verbale e come presupposto per lo sviluppo di una sorta di “proto-rêverie”, che ne garantisce a sua volta la realizzazione secondo l’approccio analitico intersoggettivo contemporaneo.                                               

Userò come riferimento le Lezioni sulla tecnica (2017), scritto dichiaratamente tecnico, brillantemente introdotto da John Steiner, affiancandolo alla trascrizione dei Seminari dedicati al controtransfert ed affidati ad alcuni giovani analisti della Società britannica due anni prima della morte di M. Klein, nel 1958. Entrambi i lavori mi consentiranno di interrogarmi sui possibili collegamenti tra identificazione proiettiva, controtransfert e rêverie. Come possiamo pensare, ad esempio la rêverie, concetto imprescindibile oggi, senza prendere in considerazione l’identificazione proiettiva in quanto base sulla quale si dispiega il tessuto onirico stesso e in quanto garante dell’intima condivisione che prende corpo tra i due membri della coppia? “Noi camminiamo su una suola kleiniana anche se i tacchi bioniani guardano a nuovi orizzonti”. [1]

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Il concetto di identificazione proiettiva

L’identificazione proiettiva compare nel lavoro di M. Klein del 1946, in Note su alcuni meccanismi schizoidi. Si tratta di una fantasia inconscia nella quale gli aspetti del sé o di un oggetto interno sono scissi e proiettati su un oggetto esterno. Incontriamo l’identificazione proiettiva nella prima parte dell’opera di Rosenfeld a proposito della psicosi fino a quando non si definirà come una comunicazione primitiva, prima nella sua teorizzazione, (Rosenfeld 1973, Ithier 2021) e poi in quella di Bion (1962) che assumerà la mutazione del concetto in questo senso. Ricordiamo che l’identificazione proiettiva era allora strettamente correlata al concetto di controtransfert dell’analista, nonostante ci fosse su questo una certa riserva sia nella Klein che in Bion, in particolare in merito al controtransfert come rivelatore della psiche del paziente. M. Klein infatti scriveva: “Non ho mai riscontrato che il controtransfert mi avesse aiutata a capire ulteriormente il mio paziente; ma se mi è consentito formulare la questione altrimenti, direi che mi ha aiutato a meglio comprendere me stessa” (Klein, 2017, 123). Dichiarazione che sancisce l’esordio di questo concetto come strumento analitico impareggiabile nei confronti del paziente.

Se facciamo riferimento a uno dei derivati della teoria del contenitore-contenuto di Bion (1970), osserviamo che il suo concetto di attività onirica, attività che permette di sognare la seduta rinunciando a qualsiasi ricordo e desiderio, bypassa lo sviluppo del controtransfert come strumento analitico. A tal proposito, sarebbe mai possibile immaginare per un solo istante l’esistenza di questa comunicazione stereofonica che caratterizza l’intersoggettività contemporanea nei suoi sviluppi più recenti, senza l’espressione delle diverse modalità di identificazione proiettiva, ancorata al controtransfert nell’attimo nella rêverie? Questo è il territorio che mi propongo di esplorare.

 

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Differenza tra identificazione proiettiva, controtransfert e rêverie

Per trattare questo argomento farò riferimento allo studio di James Grotstein (2007) che definisce con particolare chiarezza le correlazioni e le differenze tra l’identificazione proiettiva e la rêverie. Egli inizia ricongiungendo il controtransfert al transfert definendoli come l’insieme dei sentimenti e delle emozioni nell’analista, mentre la rêverie riguarda l’assetto mentale dell’analista che “abbandona memoria, desiderio e comprensione” al fine di rendersi ottimamente intuitivo e recettivo al proprio inconscio nei confronti dell’analizzando. “Quando l’analista sembra identificarsi del tutto con l’immagine creata dall’analizzando, questa identificazione può essere un’identificazione parziale o un’identificazione di prova (Robert Fliess, 1942), che funziona da strumento analitico intuitivo.” “Mi piace pensare, dice Grotstein, che l’identificazione totale corrisponda al controtransfert e l’identificazione parziale alla rêverie” (p. 108).

Grotstein proseguirà secondo l’idea che quella “folie à deux” segnalata da Mason (1994) è una funzione normale dell’intuizione e dell’empatia dipendente dalla strutturazione della psiche umana di un oggetto che può accordarsi con quella di un soggetto. Questo lo condurrà alla concettualizzazione della trans-identificazione proiettiva, nel corso della quale l’analista avverte ciò che egli chiama “lo stimolo induttore” proveniente dall’analizzando, che può essere una attivazione automatica conscia o inconscia, di natura sensoriale, ultrasensoriale o addirittura extrasensoriale e che suscita nell’analista dei fantasmi simmetrici corrispondenti a quelli dell’analizzando. Mi sembra di trovare qui i presupposti della mia concezione di chimera (Ithier, 2017, 2020) di cui darò un esempio più avanti.

Possiamo dunque pensare che la risonanza all’identificazione proiettiva del paziente di cui ci parla Joseph Sandler (1987), nella quale l’analista si offre alle emozioni proiettate in lui dal paziente, faccia riferimento in Bion a un aspetto dell’analista a lui stesso sconosciuto. Ma a ben pensarci, non era di questo che parlava M. Klein quando preferiva una concezione del controtransfert come strumento di comprensione di sé per l’analista, diversamente da Paula Heimann che lo considerava uno strumento di comprensione del paziente?

E siccome abbiamo ormai oltrepassato le premesse bioniane sull’identificazione proiettiva, desidererei menzionare le condizioni necessarie, secondo M. Klein, per una buona qualità del lavoro analitico: compassione, tolleranza ed empatia che ritroveremo sviluppati nell’ “at-one-ment” di Bion, ma che in M. Klein sono arricchiti da una buona dose di curiosità dotata di comprensione e di riferimenti a specifici momenti della storia del paziente, aspetti al contrario scartati da Bion. A tal proposito, Herbert Rosenfeld avanzava l’ipotesi di un modello relazionale, in cui sin dalle prime sedute con il paziente, fosse possibile costruirsi una rappresentazione iniziale delle sue relazioni con le figure significative del suo ambiente infantile e adolescenziale. Egli pensava la storia in termini di processi di transfert, autentica architettura originariamente vuota, arricchita progressivamente da materiale diversificato, destinata a costituire una sorta di strategia interpretativa modulabile e modificabile nella dinamica del processo (Ithier, 2021). Ciò si armonizza particolarmente con quanto afferma M. Klein quando, a proposito del paziente, scrive: “Se teniamo in considerazione la sua storia personale, possiamo individuare delle circostanze che hanno esacerbato la sua sofferenza. A quel punto dobbiamo comprendere in che misura il suo stato di dolore abbia determinato in lui la sensazione di non poter tollerare di essere con qualcuno che gli fosse superiore” (Klein, 2017, 118). M. Klein considerava che questo, ad esempio, potesse influenzare la comprensione da parte del paziente della sua invidia nei confronti dell’analista attraverso il ricorso alla sua storia infantile, l’unica capace, nel presente, di rendere accessibile la comprensione delle fantasie inconsce.

Ricordando dunque il ruolo primordiale della conoscenza della psiche del paziente, di cui secondo lei l’analista dovrebbe tenere conto, M. Klein non mancava di aggiungervi quello dell’identificazione proiettiva dell’analista nel paziente, “fino ad un certo punto”, al fine di arrivare ad una valutazione temperata della sua realtà psichica, unica via che garantisce il profitto di interpretazioni a lui adattate. Tuttavia, il fulcro per la Klein restava la comprensione del paziente e non la centralità del ruolo delle emozioni sul quale insiste la psicoanalisi bioniana e postbioniana di oggi. M. Klein non rifiutava la condivisione dell’emozione che permette l’accettazione dell’identificazione proiettiva, essa si rifiutava di esserne controllata. A tal proposito evoca un paziente schizofrenico che le era stato affidato per la durata dell’assenza della sua analista che si trovava in vacanza e che suscitava in lei una forte angoscia. Nonostante questo, riuscì ad analizzare il paziente sottolineando però il fatto che se si fosse sentita completamente invasa dall’angoscia, non sarebbe stata certo in grado di aiutarlo.

Attraverso questo esempio possiamo dedurre il ricorso alla comprensione dell’identificazione proiettiva stessa secondo M. Klein: arrivo dell’angoscia massiva del paziente e successivo ripristino in après-coup dell’identità dell’analista. E’ fondamentale che sia chiaro il suo rifiuto di usare all’interno dell’interpretazione le emozioni del controtransfert non ancora comprese. Tornando alla problematica del paziente psicotico prima descritto, M. Klein nel processo di identificazione proiettiva accetta di provare la paura del paziente. Riconosce di essere molto spaventata, senza per questo perdere di vista il materiale. È in questo che insiste sulla necessità di gestire la sua comprensione del paziente. Bion invece ricuserà questa comprensione come una posizione anti-emotiva, affermando la necessità di porsi, come abbiamo visto in precedenza, a un livello del pensiero simile al sogno: senza memoria, senza desiderio, e senza comprensione. Annullerà il ripristino dell’identità dell’analista auspicato da M. Klein prolungando la ricezione in condivisione e poi in divenire nel momento in cui la realtà emotiva del paziente, diviene la realtà emotiva dell’analista, una delle accezioni di O. Bion tuttavia aveva individuato anche una posizione intermedia dell’identificazione proiettiva, proponendo una sorta di ripresa disintossicata da parte dell’analista dei materiali dell’identificazione proiettiva al paziente, che si effettua con un uso fluido della rêverie che permette la recettività. Ho ripreso questa sorta di preambolo teorico di una concezione della chimera perché mi sembra permetta di far emergere, al di sotto di un processo di rêverie, un’esperienza di O, nella quale si rivela la fusione delle tracce traumatiche inconsce dei due protagonisti di cui vorrei dare ora un esempio clinico.

 

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Jacques[2]

Nel corso di una seduta, Jacques aveva iniziato a parlarmi della ristrutturazione del suo giardino e delle casette per uccelli. Commentava dicendo che “tutto ciò ruota intorno all’habitat del vivente e delle piante.” Gli avevo detto che mi sembrava stesse facendo riferimento alla sua capacità di prendersi cura di ciò che vivo, così come aveva l’impressione che io mi prendessi cura di aspetti di lui piccoli, che trovavano il loro nido nelle casette del giardino dell’analisi. Aveva successivamente iniziato ad associare su una telefonata fatta alla madre in occasione della festa della mamma, dicendo di non avere più l’età per farle gli auguri. Mi sembrava che facesse riferimento alla madre cattiva, ma anche senza dubbio mi stava parlando del suo rifiuto di accettare di prendere in considerazione questi suoi aspetti di bambino. Alla fine gli dissi: “forse è difficile per lei sentirmi parlare di questi aspetti piccoli?” Senza respingere questa ipotesi, tornando alla madre, disse: “Devo chiamarla. Le ho detto “buona festa” (niente di più). Già quando le parlo faccio fatica. Così però si infantilizza la relazione: ci si presenta come un bambino”.

Precisò che non sapeva ben definire cosa gli fosse mancato durante l’infanzia, aggiungendo che si sentiva un po’ anestetizzato, confermando la mia linea di pensiero. Aveva associato con un esame previsto in anestesia generale. Io gli avevo detto che mi sembrava dire che anche noi avremmo potuto esaminare qualcosa di lui, e che prenderlo in considerazione avrebbe comportato il rischio di provocare un dolore che avrebbe cercato di anestetizzare.

È a questo punto che gli venne in mente l’intervento di tonsillectomia che aveva subito da piccolo. “Ero uscito dalla sala operatoria. Ricordo le infermiere vestite di bianco, io che vomito sangue. Avevo due anni e mezzo, tre circa, non di più, e c’era un anziano signore pieno di medicine vicino a me. Mia madre mi ha abbandonato. È andata via. Il vecchio signore di fronte a me era molto malato, ed io vomitavo sangue. È un ricordo di abbandono”.

Il suo ricordo mi riporta al mio stesso intervento di tonsillectomia da bambina, avvenuto in modo piuttosto casalingo, in una stanza della casa, senza mia madre. Rivedo i due medici avvolti in drappi bianchi. Io sento l’improvviso senso di soffocamento del cloroformio. Al risveglio, ho la bocca piena di sangue. Poi una delle mie zie è entrata nella stanza.

“Quando i miei figli sono stati ricoverati, non li abbiamo mai lasciati soli. Siamo stati sempre con loro. – prosegue – È un po’ emozionante, (Si corregge), è una forte emozione. C’è questa immagine di mia madre che se ne va e mi lascia (…) da piccolo mi sono costruito intorno a questa angoscia di abbandono.” Gli dico: “La stessa che mi sta portando oggi”. Mentre si interroga sulla comparsa di questa angoscia, chiedendosi se questo possa avere a che fare con il recente incontro con l’anestesista, e pur riconoscendo in fondo che era lì e che tutto sommato non gli dispiaceva far fronte alla sua angoscia, dice: “E’ un’attesa perenne”. Io gli dico: “Sì, e questa volta, accade qui, con me”. Mi risponde: “Vorrei poter essere sicuro che Lei non mi abbandonerà come ha fatto mia madre”. Tace poi ricorda la domanda fatta da sua figlia dopo un intervento. Io gli dico che, in questo momento, sua figlia potrebbe anche rappresentare il bambino lasciato solo dopo l’intervento. All’improvviso, come in un sogno, in uno stato quasi allucinatorio, ho la sensazione di tenere in braccio un bambino di due anni, due anni e mezzo circa, e sento la sua guancia contro la mia. Questo contatto è talmente reale ed emotivamente intenso da interrompere il sogno. Affidandomi al mio vissuto così travolgente, gli dico: “Nonostante tutto, qualcuno deve averla presa tra le braccia”. Riflette e mi dice a quel punto che “sì, è vero, dev’essere stata una delle infermiere”. Aggiungo: “Come quella che sono io, stasera”. Eravamo entrambi sconvolti.                       

Come è stato possibile per lui allentare le difese anestetizzanti nel momento in cui prevaleva nella relazione con me la sua angoscia di abbandono? Le interpretazioni sembrano aver segnato il cammino verso il riconoscimento del significato, dando prova del fatto che io non lo abbandonavo, offrendogli uno spazio per permettere a degli aspetti sepolti di esprimere il loro dolore e la loro deprivazione. La chimera si è incarnata nell’infermiera della quale ciascuno di noi ha fatto una differente esperienza: per lui direi in modo personalizzato, e per me dapprima in un modo depersonalizzato nell’identità del bambino anestetizzato, e poi nell’infermiera rimossa dalla coscienza, ma che sovrapponendosi alla mia identità aveva reso possibile mettere in parole il significato dell’esperienza. Ero stata dunque depersonalizzata fino a questo punto? Sì, nel momento in cui la sua esperienza è diventata la mia, meno nel momento in cui me l’ha fatta condividere e io sono ridiventata la piccola bambina operata che ero stata. Vediamo come questo va e vieni, già presente in M. Klein, permette un accesso alla profondità di sentimenti che sottostanno a difese anestetizzanti e che riemergono nel letto della chimera.

                  

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Per concludere

Concluderò con le parole di M. Klein che, ripensando ad un suo paziente che si riteneva molto distruttivo ed incapace di amare (molto simile a quanto Jaques diceva di sé nelle sue sedute), scriveva a proposito dell’aggressività proveniente dai suoi colleghi della Società britannica: “Ero decisamente disperata. Tutto ciò che proveniva dai seminari e dalle riunioni (…) era aggressività, aggressività, aggressività. Il mio pensiero – aggiungeva – è che l’aggressività non può essere tollerata se non quando essa è modificata ed attenuata, e questo avviene nel momento in cui affiora la capacità di amare, l’unica capace di integrare e di garantire un futuro” (Klein 2017, 133). 

 

Bibliografia

Bion W. R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando Armando, 1972.

Bion W.R. (1970). Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico: saggi e riconsiderazioni. Presentazione e note di S. Bordi. Roma, Armando, 1970.

Fliess R. (1942). The Metapsychology of the Analyst. Psychoanalytic Quarterly, 11:211-227.

Grotstein J. S. (2007). ‘Transidentificazione proiettiva’: un’estensione del concetto di identificazione proiettiva. L’Annata Psicoanaltica Internazionale 3:95-113. 

Grotstein J.S. (2007). Un raggio di intensa oscurità. Milano, Raffaello Cortina, 2010.

Ithier B. (2017). The Arms of the Chimeras, Int. J. Psychoanalysis, Vol. 97, 2, London, Wiley.

Ithier B. (2021). Facteurs thérapeutiques et anti-thérapeutiques de l’analyste selon Herbert Rosenfeld. Revue française de psychanalyse, vol. 85, 4.

Klein M. (1946). Note su alcuni meccanismi schizoidi. In: Scritti 1921-1958, Torino, Boringhieri, 1978.  

Klein M. (2017). Lezioni sulla tecnica. Milano, Raffaello Cortina Editore, 2020.

Mason, A. A. (1994). A psychoanalyst looks at a hypnotist: A study of folie à deux. The Psychoanalytic Quarterly, 63(4), 641–679.

Rosenfeld H. (1973). Stati psicotici. Roma, Armando Armando, 1984.

Sandler J. (a cura di) (1987). Proiezione, identificazione, identificazione proiettiva. Torino, Bollati Boringhieri, 1988.

Steiner J.  (2017). Introduzione. Descrizione e lettura critica delle lezioni e dei seminari sulla tecnica di Melanie Klein. In Lezioni sulla tecnica. Milano, Raffaello Cortina Editore, 2020.

                 

Tradotto da Ilenia Caldarelli e Franca Munari

 

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[1] Antonino Ferro, “la suola kleiniana”. Comunicazione personale, 2017. 

[2] Propongo qui una versione riassunta di questo caso esposto in Les bras des chimères, IJP, 1017

Béatrice Ithier, Parigi

Société psychanalytique de Paris (SPP)

Società Psicoanalitica Italiana

beatriceithier@yahoo.fr

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