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"Spazi e limiti psichici" di Marco La Scala

Recensione di Elena Galliera 

Spazi e limiti psichici

Autore: Marco La Scala

Titolo: “Spazi e limiti psichici. Fobie spaziali, funzionamento borderline, la vergogna, la melanconia”

Editore: Franco Angeli

Collana: Le vie della psicoanalisi/Clinica

Anno pubblicazione: 2012

Pagine: 160

Il libro “Spazi e limiti psichici” di Marco La Scala (edito per i tipi de “Le vie della psicoanalisi. Clinica”,Vol. 13) è un testo “prezioso” in quanto clinicamente utile.

 

Possiamo infatti pensare che il lavoro psicoanalitico si svolga sempre su un limite la cui esistenza o inesistenza orienta la qualità e le modalità della relazione analitica. Sempre più accade che nel lavoro clinico ci si confronti con patologie che soffrono di una disorganizzazione dei limiti. Per questo l’analista, come l’autore più volte mette in evidenza nel testo, è sollecitato ad un’attenta osservazione del transfert del paziente, un profondo ascolto del proprio controtransfert ma anche ed un preciso adeguamento tecnico a partire dai limiti intrapsichici ed interpsichici.

Nucleo centrale, quindi, da cui prendono vita le riflessioni proposte da La Scala, sono i limiti.

 

Limiti che, a partire dalla loro costituzione, definiscono l’apparato psichico: da una parte differenziando un esterno, dall’altra delimitando il riconoscimento di uno spazio interno che, a sua volta, “di dentro”, si articola in aree di funzionamento differenziate. Questa articolazione rimanda alla seconda topica freudiana in cui il fondatore della psicoanalisi “mostra” come l’Io nasca dall’Es in seguito al contatto con la realtà esterna ed “è inteso da Sigmund Freud come un essere di frontiera per il suo articolarsi al limite tra la realtà esterna e quella interna, tra il corpo e la psiche, come anche tra il principio di piacere e quello di realtà, tra processo primario e quello secondario” (p. 13). Il concetto di limite, però, come l’autore sottolinea, è qualcosa di più di una semplice linea di demarcazione, separazione. Esso infatti svolge “…una funzione basilare e regolatrice della vita psichica garantendo nello psichismo ciò che nel mondo biologico è riconosciuto come semipermeabilità delle membrane” (p. 28). Il limite rappresenta, quindi, una delicata zona di passaggio, di filtraggio, di cambiamento.

 

Di qui la possibilità di considerare il limite come un’interfaccia, capace di un’importante funzione di collegamento, che mette in comunicazione realtà interna e realtà esterna, regolando e proteggendo selettivamente gli scambi che da entrambe le direzioni possono provenire. Ne consegue che il limite sia, allo stesso tempo, area di elaborazione psichica e luogo privilegiato per la creazione dei legami: “L’esplorazione dell’area del limite e la sua metaforizzazione spaziale – scrive La Scala – hanno il pregio di offrirci elementi che si situano a ponte tra l’intrapsichico e l’interpsichico. Infatti nell’area del limite, ciascuno di questi due ambiti si riflette coerentemente nell’altro e ne è rivelatore: un intrapsichico e un interpsichico a confronto e nello stesso tempo intimamente connessi.” (p. 28-29).

Nel testo l’autore propone diverse modalità in cui il limite viene ad organizzarsi e ad articolarsi nel mondo psichico del paziente e mostra, anche attraverso delle esemplificazioni cliniche, come ciò guiderà il lavoro psicoanalitico.

 

Secondo La Scala, infatti, è prioritario un lavoro a partire dal confine nelle situazioni in cui il confine tra due, sé e altro, non si è costituito.

Come l’etimologia della parola “confine” racchiude una paradossalità, essendo composta da “cum” (insieme) e “finis” (termine), così originariamente madre e bambino vivono un indifferenziato “corpo a corpo” (cum) da cui gradualmente prende forma un “finis” che li distingue. Il processo di soggettivazione ed il riconoscimento oggettuale dipendono dalla capacità dell’oggetto di lasciarsi improntare e modificare, pur mantenendosi affidabile e saldo contenitore. Questo è ciò che possiamo ipotizzare essere mancato in quelle situazioni in cui “…è necessario privilegiare il lavoro sul confine come primitiva fonte di coesione e di senso di identità e come motore di importanti e successive trasformazioni. La strada da percorrere deve passare necessariamente attraverso il fantasma di un confine comune, di un Io-pelle comune (Anzieu, 1985) per poter successivamente permettere l’investimento di un confine individuale. È questa un’area dell’attività clinica in cui dominano aspetti fusionali…” (p. 18)

Proprio da quest’area possono avvenire quelle che La Scala indica come trasformazioni a partire dai confini: “Nel lento processo di esposizione e di definizione del Sé, e dei suoi confini, nel corso dell’analisi, il paziente può avvertire e realizzare particolari senso-percezioni connesse a delle e vere e proprie trasformazioni delle configurazioni spaziali connesse al limite. Si tratta di aspetti fondamentali del sentire che nella loro semplicità, essenzialità, ovvietà, hanno a che fare con nuove realizzazioni e riconoscimenti del sentire, e quindi dell’Io che sente e che viene di conseguenza trasformato” (p. 20). Quando nella clinica ci si trova in quest’area, l’analista avverte nel paziente un inconsistente senso d’esistenza e si trova a sospendere le abituali modalità di lavoro impegnandosi, piuttosto, in un lavoro di rispecchiamento dove “all’analista è richiesto di porsi come elemento riflettente la particolare forma del sentire del suo paziente, nel cui interno si vanno definendo sensazioni e affetti, e si sviluppano stati, che vengono avvalorati dal fatto di essere percepiti in atto e di non dover subito essere modificati. Lo scopo del definirsi di queste senso-percezioni nel paziente è anche quello di incidere sull’altro, l’analista, modificandolo in modo da poter poi trovare sé nell’altro” (p. 19). Per l’analista “farsi specchio” significa “poter rimandare l’immagine dell’altro “arricchita” del proprio sguardo” (Racalbuto, 2010, p. 534), ma i due tempi: quello di lasciarsi improntare (rispecchiare) e quello delle trasformazioni (riflettere un’immagine arricchita del proprio sguardo) non devono per forza coincidere. Anzi, in certe situazioni il paziente può per molto tempo aver bisogno di rispecchiarsi nell’analista per ritrovarsi nella logica di un identico.

 

Nelle situazioni cliniche in cui, invece, un confine che separa e unisce sé e l’altro è costituito e si     riattualizza nel transfert, diventa possibile un lavoro sulla frontiera soggetto/oggetto. Nella clinica questo lavoro può essere in continuità con il precedente ed è possibile quando il paziente avrà introiettato la funzione rispecchiante dell’analista (rispecchiante il suo stesso prendere forma). Sé ed altro vengono riconosciuti nella loro distinzione (due), ma anche nella loro potenziale sovrapposizione, che darà vita ad uno spazio terzo (tre), area transizionale (Winnicott) in cui diventano possibili fenomeni transizionali quali: il gioco, l’illusione, il “come se…”, la capacità di simbolizzare, la creatività. Dai casi clinici in cui, con molta fatica e solo parzialmente, si giunge ad accedere all’area transizionale, il dottor La Scala arriva a definire l’esistenza di un’area di transizione, uno spazio di separazione sè/altro da sé, luogo di contatto e distacco che può preparare l’accesso alla transizionalità.

 

Nei casi, invece, in cui prevale una profonda insicurezza rispetto i propri limiti con conseguente continuo stato di tensione in difesa del confine stesso, divenuto per questo rigido ed ostruente, l’area di transizione non accederà alla transizionalità, bensì si fisserà costruendo “una barriera psichica impenetrabile a protezione dell’Io” (p. 22). Una barriera psichica patologica che, per difendere i fragili confini dell’Io, li deforma, li irrigidisce esercitando uno “strettissimo controllo doganale”, fino a  precluderne l’attraversabilità, proteggendo l’Io dalla traumaticità della realtà esterna e dalla forza delle pulsioni (interno). L’attivarsi della rimozione è impossibile, così come la possibilità di accedere ad una conflittualità intrapsichica. Le difese rimangano collocate alla periferia dell’Io sul fronte della percezione costituendo “quella che potremmo chiamare un’ipertrofia della pellicola paraeccitatoria posta nella parte più esterna dell’Io” (p. 24). Il lavoro clinico si fa in questi casi particolarmente arduo e richiede un lungo lavoro preliminare che si auspica possa portare all’allentarsi della barriera psichica patologica e all’attraversamento del confine sul fronte della realtà esterna e delle pulsioni. Nel lavoro analitico il pericolo che si corre nell’aprire o forzare anticipatamente una barriera può essere di esporre “il paziente a quanto deve ancora rimanere indefinito inducendo così in lui condizioni di angoscia talora insostenibili, condizioni che possono innescare reazioni terapeutiche negative” (p.54).

 

Il valore e l’utilità clinica del testo del dottor Marco La Scala sono, quindi, racchiusi nella capacità di farsi lente d’ingrandimento che ci permette al contempo di ampliare lo sguardo e approfondire la comprensione, creando una sorta di “mise en abyme”, su patologie che nella loro espressione clinica coinvolgono, a pieno titolo, l’organizzazione del limite. Agorafobia e claustrofobia, stati limite, la depressione (nella forma borderline e melanconica), la vergogna, vengono, quindi, riviste in questo lavoro nella loro organizzazione psichica e vengono rivalutate nei loro effetti sul paziente, offrendo infine al clinico strumenti utili per l’ascolto, la comprensione e la cura.

Elena Galliera, Trento

Centro Veneto di Psicoanalisi

elena.galliera@gmail.com

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