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"Qualcuno in qualche luogo" di Donna Williams

recensione di Marina Montagnini

Qualcuno in qualche luogo ( Donna Williams,1994)

I tre libri autobiografici di Donna Williams necessitano di una premessa perché ne possiamo fruire come psicoanalisti, benché sembrino confermare le teorie di Francis Tustin.

Pertanto, cercherò di riassumere i punti centrali del pensiero e della evoluzione teorica di questa grande analista. Tustin si era formata alla Tavistock e aveva una formazione Kleiniana. Fu analizzata a lungo da Bion; ciò non le impedì di assumere una posizione autonoma e innovativa quando si rese conto che le sue osservazioni cliniche non sempre si armonizzavano con la sua formazione, tanto è vero che non prese parte al lavoro del gruppo di analisti supervisionati da Meltzer (Meltzer, 1975). 

Nel trattare il suo primo bambino autistico, John, fu sorpresa di scoprire che le intuizioni di Melanie Klein non sembravano utili nelle prime fasi del lavoro con i bambini autistici, poiché le interpretazioni premature, essendo vissute come intrusioni, ostacolavano il processo.

In seguito, si avvicinò al pensiero di Winnicott, ai suoi concetti relativi al “mirroring” e alla depressione psicotica. Sulla base di quanto le dicevano i bimbi in trattamento quando il lavoro terapeutico era sufficientemente progredito, Tustin ipotizzò che l’autismo derivasse dal trauma di una consapevolezza brusca e precoce della separazione corporea dalla madre, che spinge il bambino nella depressione primaria: “il buco nero con la puntura cattiva”, come si espresse uno dei bimbi in terapia (Tustin, 1981, 103). Cadendo nel buco nero, di cui parla moltissimo Donna Williams, il bambino, anche se manca del senso di sé, ha il terrore di perdere il suo senso di esistere. Per evitare il terrore il bimbo autistico ricrea una fusione illusoria, delirante, di essere tutt’uno (at one-ness) con ciò che lo circonda, a costo di vivere in un mondo devitalizzato, deumanizzato. La madre stessa diventa una protesi meccanica di sé stesso, a sua volta altrettanto devitalizzato. Donna e Tito descrivono ad esempio un rapporto con lo specchio in cui lo specchio fa parte del “me”. E a Tito lo specchio racconta “storie in verde e rosso” (“verde” come le tende alle finestre e “rosso” come il pavimento della sua stanza) (Mukhopadhyay, 2008). Tustin ritiene che il bimbo produca delle forme auto-sensuali protettive, talora estasianti. Il bimbo ricrea una continuità tra la sua bocca e il capezzolo, per esempio succhiando la lingua o l’interno delle guance o effettuando altre manovre auto-erotiche spesso nascoste.

Queste manovre protettive sono destinate a fallire col tempo e il bimbo sarà costretto ad affrontare la crisi della dualità (“two-ness”) spontaneamente o proprio a causa del processo terapeutico.

In altre parole, dovrà sperimentare ancora e ancora la consapevolezza traumatica della propria separatezza e ancora tenterà di difendersene. “La frustrazione del seno assente, della gestalt incompleta è sperimentata come un agente tangibile ed irritante, come un attrito bruciante – come ‘ruvidezza’. L’attrito irritante ingenera rabbia e panico e, quando si raggiunge l’acme d’intensità, ciò sfocia in un accesso di rabbia (tantrum) – un attacco di collera, come viene spesso definito” (Tustin, 1981, 103, corsivo nell’originale).

E’ forse utile ricordare che Spitz invitava a riflettere come il neonato esce da un ambiente acquoso e nel suo nuovo mondo sperimenta soprattutto la secchezza, sulla cute e le mucose, nella bocca; difatti probabilmente la sua prima sensazione è la sete, piuttosto che la fame.

Ricordo che un mio paziente Asperger adulto diceva che quando era bambino non c’era nulla di peggiore della sabbia bagnata che gli entrava nei sandali, durante le vacanze al mare, retro-significando forse le prime sensazioni neonatali. Spitz utilizza il contributo di Isakower, secondo il quale i pazienti in dormiveglia gli riferivano: “vaghe sensazioni di qualcosa di rugoso, o forse di sabbioso e di secco […] che riempie la bocca e può essere sentito anche sulla pelle e le dita” (Spitz, 1983, 241).

Sarà questa l’origine di tanto interesse per la sabbia nei bimbi autistici? (Montagnini, 2014).

 

Donna Williams è per me ‘la filosofa’, nel gruppo dei suoi compagni d’arte, per la profondità e la complessità del suo pensiero; ma Donna Williams scrive soprattutto per capirsi e non per essere compresa. Nei suoi scritti il motore dell’autismo è una paura senza nome che può essere evitata solo tenendo il sé lontano dalla autoconsapevolezza. Beninteso Donna è intenzionata a raggiungere sé stessa, anche di fronte al pericolo di morire per sovraccarico emozionale.

Il bimbo autistico non può affrontare il sovraccarico emozionale di una presa di contatto con sé stesso, il mondo e le persone. Fin dall’inizio si rifugia in uno stato di pre-consapevolezza, uno stato di trance; concentrandosi sui bagliori, sulle macchie di colore, sul pulviscolo dorato di cui si anima ogni lama di luce.

Donna elabora delle strategie mentali per entrare in contatto con il mondo reale proteggendo la vulnerabilità del suo vero sè. Nulla deve lasciar trapelare una identità emotivamente coinvolta.

Donna costruisce dei personaggi, dissociandosi: Carol per comunicare con il mondo esterno e Willie  per sviluppare la sua intelligenza. Lei stessa conosce molto poco il suo vero sé ma il suo obiettivo è farlo crescere perché alla fine possa schiudersi.

Il degrado, la follia del suo ambiente familiare è una fortuna paradossale perché la bambina fa le esperienze più estreme e disparate, vivendo quasi sempre sulla strada, all’avventura. 

Donna ha capito che, per raggiungere sé stessa, ogni cosa significativa deve essere fatta facendo finta che non lo sia. 

Ha dei talenti musicali savant. Al piano deve solo evitare di guardare cosa stanno facendo le sue mani, cioè evitare, come sempre, la consapevolezza cosciente. “Sembrava che io fossi eccezionale in qualche area e molto in ritardo in altre. Ero un genio ma anche una ritardata” (41).

I suoi risultati scolastici sono disastrosi o brillanti. Compie un giro di boa quando incontra sul marciapiede di una stazione “lo sconosciuto gallese”, esperto delle sue stesse comunicazioni oblique. All’impazzata, come sempre, decide di prendere il treno che lui prenderà. Seduti uno di fronte all’altra, sanno come scherzare con il cuore in gola, fronteggiando la paura di morire, tremando entrambi, controllando a stento la voglia di scappare. Loro due autistici esistono, stanno, e questo fatto è una conquista sconvolgente. Camminano nella notte, arrivano al mare, camminano verso le colline, si guardano sconvolti, sono attraversati dal vento, muoiono di paura, vanno in stato ipnotico, stanno seduti e ciascuno parla per sé, ascoltano il frangersi delle onde, finché arriva mezzogiorno del giorno dopo: tra un’ora il treno di Donna parte, non si abbracciano, non si salutano, non si guardano, Donna se ne va di corsa senza voltarsi, corre fino al treno e parte.

Lui si ubriaca, suda e lacrima e scrive, strappando e lacerando la carta troppo umida di sudore, tremando telefona e balbetta, parla in poesia: si è innamorato e questo lo ucciderà. Sparisce. Sparisce dalla realtà e dal libro.

Nelle sue peripezie lavorative, Donna infine incontra Robbie, un “campione nell’ arte di non esserci” di 23 anni. Nella casa di cura, insaccato in un pannolone, viene imboccato e lascia che la pappetta per neonati sbrodoli su naso e mento; le sue mani sono come gelatina: non trattengono il cucchiaio. Donna ha il compito di portarlo alla toilette a intervalli regolari, ma Donna sa cosa fare: gli porge uno ad uno oggetti insignificanti: una forchetta di plastica, una pallina…  non lo guarda e non dà alcun accento significativo ai suoi movimenti. Guarda lontano, oltre via, come fa lui.

Con stupore lo staff vede Robbie tenere in mano gli oggetti che Donna gli porge. Per un secondo Donna lo ha visto abbassare gli occhi su di un libro e sorridere; sa che per un secondo Robbie c’è stato, è stato presente. Robbie ha richiamato sé stesso alla presenza di sé perché Donna ha fatto in modo di non esserci.

– Era possibile che il mio “non esserci” permettesse a lui di esserci, abbastanza da tenere in mano l’oggetto che gli avevo dato? Elimina la consapevolezza del mondo e diminuirà il sovraccarico sul sé. Il sé potrà osare di tornare… Non risvegliare la mente. Non dire ciò che stai facendo, altrimenti alla mano non sarà permesso di afferrare, né agli occhi di guardare. Non mostrare espressività, né avere un tuo pensiero o la tua mente saprà che sei lì e manderà onde di marea per affogarti” – (1994, 27). 

Donna sa che qualsiasi partecipazione emotiva travolgerebbe Robbie nel panico.

“Robbie aveva osato interessarsi a qualcosa; anche se soltanto per un secondo, aveva osato avere un sé. Anche per un solo giorno della sua vita, ne valeva la pena” (ibidem, 27).

Il costo della autoconsapevolezza è l’orrore del “grande nulla nero”, delle onde di marea, (la metafora che usa anche Temple Grandin),  peggiore della morte, in cui si precipita quando si entra in contatto con le proprie emozioni in forma consapevole.

 

 

Bibliografia

 

Baron Cohen S. et al., (2009) Talent in autism: hypersistemizing, hyperattention to detail and sensory hypersensitivity Philosofical transaction: biological sciences  364, 1377-1383.

 

Damasio A. (1994) L’errore di Cartesio. Milano: Adelphi.

 

LeDoux J. (1998) The emotional brain: the mysterious under pinnings of the emotional life. Touchstone books: New York.

 

Meltzer D. Hoxter S, Weddel D, Wittenberg I (1975) Exploration in autism: A psychoanalytical study. Strath Tay: Clunie.

 

Montagnini M (2014) La sabbia. Cenni sul caso di un Asperger adulto. Rivista di Psicoanalisi LX, 3

 

Mukhopadhyay R T (2008) How can I talk if my lips don’t move? Inside my autistic mind. New York Arcade Publishing 2011.

 

Spitz R. (1983). Dialoghi dall’infanzia. Roma: Armando, 2000.

 

Tustin F. (1981). Stati autistici nei bambini. Roma: Armando, 2000.

 

Williams D. (1994). Qualcuno in qualche luogo. Roma: Armando, 2005.

 

Williams D. (1998). Il mio e loro autismo.  Roma: Armando,2004.

 

Williams D. (1999). Nessuno in nessun luogo. Roma: Armando, 2006.

 

 

Marina Montagnini, Venezia

Centro Veneto di Psicoanalisi

 m.montagnini@iol.it

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