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La TRILOGIA della PIANURA di Kent Haruf

Recensione di Anna Trevisan

La  TRILOGIA della  PIANURA

Benedizione

Canto della pianura

Crepiscolo

Kent Haruf

NNEditore

2016, 904 pp.

Leggere Kent Haruf è stato un fatto sorprendente che mi ha aperto alla conoscenza di quella parte della letteratura americana che parla, racconta e descrive l’esistenza nei grandi Stati intorno alla parte sud delle Montagne Rocciose; zone costellate di piccole cittadine dove le persone vivono a contatto stretto e diretto con la natura e la sua forza potente, si abita vicini ai grandi allevamenti di bestiame, al centro di distese enormi da coltivare a cereali, ci si diverte e rallegra con feste campestre di rodei e gare a cavallo. Sono Stati con stili di vita molto diversi da quelli che si affacciano sia sull’Atlantico che sul Pacifico, dove l’esistenza delle persone è più simile a quella dell’Europa con ricchezza monetaria, ricchezza artistica nei Musei, città enormi con milioni di abitanti.  

  1. Haruf, nato e vissuto in questa parte centrale degli U.S.A., figlio di un Pastore Metodista, è arrivato tardivamente ad essere noto tra gli scrittori, è stato tradotto in italiano solamente una decina di anni fa. Scrittore straordinario, dalla vita molto simile a quella che descrive nei suoi romanzi. Figlio del tempo della ribellione, è stato un obiettore di coscienza negli anni della guerra nel Vietnam e farà tanti e diversi lavori semplici, bracciante, operaio, pur avendo una laurea. Riuscirà a pubblicare i suoi primi libri dopo i 40 anni. La Trilogia è composta da tre libri che sono: “Il canto della Pianura” “Crepuscolo” e “Benedizione” e che ho letto in questo ordine cronologico che tuttavia non rispetta quello della pubblicazione, anche se, a parer mio, questa sequenza ha un senso logico e cronologico legato ai personaggi che si incontrano nei testi. A leggere questi romanzi si entra, ma nel senso che quasi ci si immerge, e quasi si evoca con la mente, la produzione pittorica di Peter Brugel, il Vecchio: “La mietitura”, “Giochi di bambini”, “Paesaggio invernale con pattinatori”, “Giornata buia”, “Il ritorno della mandria”. I dipinti di Brugel e i libri di Haruf ci introducono in un mondo antico, diverso, strettamente legato agli eventi atmosferici e naturali, cui è necessario adattarsi. Altro non si può fare! Si vive una vita sempre uguale, rigidamente scandita e aspra, in una terra rurale, curata e amata per le ricchezze che dona, ma anche tanto violenta e primitiva che lascia sgomenti: la descrizione dell’autopsia del cavallo morto, il parto della giovenca e gli allevatori-veterinari che capiscono i vissuti dolorosi dell’animale come fossero quelli di un essere umano. E poi il vento, forte, impetuoso, sferzante, gelido che accompagna tutti i momenti dell’esistenza e insieme la neve e il freddo che paralizza ogni attività, sono scene che incontriamo sia nelle tele del pittore olandese ma che incontriamo anche nel “Canto della pianura” laddove si assiste ad una lotta continua per la sopravvivenza sia per gli animali che per gli esseri umani. La vita è dura! La vita è battaglia: a volte si vince, a volte si perde! Si impara presto che l’esistenza non è un giro di valzer, ce lo mostrano i due ragazzini figli di Guthrie, insegnante di scuola superiore, che vengono bullizzati dagli allievi del padre che è da loro ritenuto un insegnante troppo severo; imparano a diventare grandi assistendo, senza battere ciglio, alla pericolosità del governo delle mandrie. Leggendo proprio queste pagine mi sono chiesta: “può essere un evento traumatico per dei ragazzini assistere a tali scene così violente”? Franco De Masi, in un suo scritto (2020), ci fa osservare come il vissuto di forza dirompente del trauma e il danno che ne può conseguire, a qualunque età e in qualunque fase dello sviluppo dell’individuo, dipendono fondamentalmente dalla naturale capacità riparativa del soggetto che lo subisce e dalle circostanze in cui ciò avviene. Questi fattori possono limitare gli effetti patogeni del trauma. Teniamo allora conto che questi bambini sono accompagnati dal padre, imparano la vita a Holt sotto agli occhi del padre che insegna loro la modalità di affrontare l’esistenza che è assolutamente necessario conoscere in quelle terre. In “Crepuscolo” troviamo la descrizione della morte proprio di uno dei fratelli allevatori, i Mcpheron, che viene incornato da uno dei suoi enormi e pesantissimi animali; il romanziere ci fa partecipare alla fatalità, al senso di precarietà e casualità che il quotidiano vivere richiede agli abitanti di Holt, dove la natura è madre generosa e oblativa ma anche matrigna, dura e arcigna: non è mai possibile prescindere da queste leggi di natura.  Esistono sempre entrambi queste forze potenti, faccio riferimento ai concetti freudiano di “pulsione di vita” e di “pulsione di morte”, alla loro distinzione e alla loro contemporaneità in ogni percorso esistenziale. Qui, il luogo della scena si chiama Holt, in Colorado, è un paese che non c’è, è il nome fittizio di un borgo in cui tutti si conoscono, sempre uguale a sé stesso come dal tempo dei pionieri. In questo posto si lavora, si lavora tanto e sempre, il lavoro legato all’ambiente è fatica e la si legge nei visi, rugati, stanchi, arrossati dei personaggi sempre impolverati come il suolo che calpestano. Anche l’ultimo volume, “Benedizione” mantiene queste tracce forti, tuttavia qui il tema fondamentale è la malattia e il percorso, breve, verso la morte, di Dad Lewis. La scrittura di K. Haruf è scarna ed essenziale. Ciò che mi affascina in questo romanziere è la capacità di descrivere le cose semplici del quotidiano vivere con poche parole perfettamente adeguate e che riesce, incredibilmente, a trasmettere, in queste descrizioni, i vissuti interni dei protagonisti. Non scrive di pensieri, fantasie, sogni ma tratteggia ciò che fanno i protagonisti con le loro mandrie, con i loro attrezzi agricoli, con le asciutte ed essenziali parole che si scambiano tra concittadini nel territorio selvaggio e ventoso dove trascorrono gli anni. A parer mio, K. Haruf è come se scrivesse riprendendo con la cinepresa quanto succede dentro a Holt e dentro ai suoi abitanti. Allora mi tornano in mente il film “Nomadland” i cui protagonisti a causa della Recessione sono costretti a vivere una vita da nomadi moderni, spostando continuamente la loro casa, che altro non è che un furgone-roulotte; oppure “Tre manifesti a Ebbing” in cui i rapporti umani sono all’insegna della “giustizia fai da te” e della vendetta necessaria per placare il dolore di un torto subito. In “Benedizione”, forse il più lirico e poetico dei romanzi, molto interessante è anche la figura del Reverendo Lyle che non è accettato da diversi fedeli perché vorrebbe vivere seriamente le Sacre Scritture e “porgere l’altra guancia” e “amare il prossimo come te stesso” comandamento che Freud definisce ‘irrealizzabile’. Questo atteggiamento evangelico è assolutamente negato e rifiutato da una parte della piccola comunità di Holt. Le figure di questi personaggi oppositori sono tratteggiate a tinte forti, personalità che non hanno raggiunto un adeguato equilibrio interiore, figure con stati d’animo estremi. E’ la rappresentazione degli Stati Uniti Occidentali, che abbiamo visto anche nei vecchi film sui pionieri.

Eppure, nonostante questa ambientazione, a tratti, così violenta sia della natura e sia dei personaggi narrati, penso che, se vogliamo andare un poco più in profondità, attraverso l’uso del pensiero psicoanalitico, dobbiamo dare risalto agli aspetti più benevoli e caldi che pure esistono come sottotraccia in tutti e tre i testi; senza negare la concretezza dell’ aggressività agita, possiamo cogliere un grande senso di solidarietà tra gli abitanti di Holt, una grande capacità di compassione (con-patire), e un grande valore dato alla famiglia.  Gli abitanti di Holt si sorreggono a vicenda anche nel dolore, cui partecipano, senza vergogna, senza ritrosia. Compartecipano alla sofferenza degli altri e bonariamente la accolgono, non la negano, mettono in atto la benevolenza verso l’altro, tengono conto dei limiti di ciascuno. Laggiù, a Holt, i tempi dell’esistenza non sono troppo veloci e marcati dalla aridità del narcisismo che separa l’uno dall’altro, ed è rispettato anche il momento della sofferenza, soprattutto c’è un tempo, nella giornata, da dedicare anche a chi abita vicino, con un sorriso, una visita di cortesia, un gesto di condivisione. Le piccole e grandi tragedie umane che i protagonisti si portano dentro sono attraversate senza andare oltre le righe, senza pretese eccessive, a volte con grande tolleranza. Mi pare di poter dire che si riesce ad assaporare la gratitudine, che è un sentimento elevato, difficile da raggiungere, nel senso che è difficile da provare con pienezza, senza ambivalenze. Ci sono tanti tipi di “famiglia” in questa Trilogia: quella di Victoria, sedicenne, buttata fuori da casa dalla sua propria madre perché rimasta incinta, che trova la protezione famigliare nei fratelli Mcperon, soli e anziani ma di animo gentile e delicato che comperano il corredino e la culla per il neonato; oppure la famiglia di Dad Lewis che se ne sta andando a causa di un cancro; moglie e figlia sono vicini al marito e al padre, se ne prendono cura amorevolmente, occupano molte ore per stare accanto a lui che accetta, rassegnato, il suo fato: un destino che diventa un percorso catartico attraverso cui espiare anche i propri possibili errori. Sappiamo da Grinberg (1990) che in ogni lutto o perdita noi riviviamo la catena dei lutti e delle perdite precedenti e raggiungiamo la consapevolezza che una parte del Sé è andata perduta per sempre, eppure è proprio questa consapevolezza che ci può dare un senso di pace. Dad Lewis, per esempio, ricorda continuamente i suoi nascosti segreti: un commesso del negozio licenziato, per aver manipolato i conti, finito poi suicida e un figlio mandato via da casa perché omosessuale, di cui non si sa più niente.  Nelle famiglie di Holt esiste sempre un problematico rapporto tra padri e figli, ne è coinvolto anche il Reverendo Lyle e suo figlio John Wesley, quest’ultimo ritiene il padre un inetto e lo disprezza proprio perché predica l’inutilità della guerra e crede nella pace e nel dettato evangelico. Infine, vorrei osservare, quella che mi pare proprio una lezione esistenziale di K. Haruf (probabilmente derivante dalla storia della sua famiglia di origine) e cioè che i tanti diversi personaggi della Trilogia sono persone che non si arrendono, prendono in mano il loro destino e la condizione cupa in cui possono essere caduti, ma procedono con tenacia e forza, come la natura forte e selvaggia che li circonda. Pur con le loro vite difficili, i protagonisti della esistenza a Holt non cadono in depressione, non si lasciano travolgere da un tragico fato, sembrano non soccombere sotto al trauma, sanno che bisogna resistere alle avversità. Il lettore può respirare questa sottile atmosfera di speranza e sentirsene pervaso: è una Trilogia terapeutica. Vale la lettura!

 

 

Bibliografia

De Masi F. (2020). Trauma emotivo e sviluppo psicopatologico. In Psicoterapia psicoanalitica, 2, 72-90.

Freud S. (1920). Al di là del principio del piacere. O.S.F., 9.

Freud S. (1929). Il disagio della civiltà.  O.S.F., 10.

Grinberg L. (1990). Colpa e Depressione. Roma, Astrolabio.

Haruf Kent: “Canto della pianura” (2015) Milano, Enne Enne Editore

Haruf Kent: “Crepuscolo” (2017) Milano, Enne Enne Editore

Haruf Kent: “Benedizione” (2015) Milano, Enne Enne Editore

Anna Trevisan, Mestre (Ve)

Centro Veneto di Psicoanalisi

trevisanna49@gmail.com

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