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LA NINNANANNA TRAGICA DI JANIS JOPLIN

di Massimo De Mari

Un’adolescente degli anni ’60 non aveva le straordinarie possibilità che uno stesso adolescente di oggi ha a disposizione per ascoltare musica.

Chi oggi gira per la città con le cuffiette ascoltando la musica di Spotify sul cellulare fa fatica a immaginare che il personal computer sia stata una realtà ancora inimmaginabile così come erano ancora lontani dall’utilizzo di massa gli apparecchi elettronici portatili.

Gli elettrodomestici allora disponibili per produrre musica, giradischi e radio, erano rigorosamente legati con un filo alla corrente elettrica.

Se pensiamo che il primo programma radiofonico della RAI (unica emittente esistente sul territorio nazionale) pensato per trasmettere musica gradita ad un pubblico giovanile è stato “Per voi giovani” nel 1966, il nostro povero adolescente aveva come unica alternativa l’ascolto dei dischi.

Certo, esistevano i registratori, anche se piuttosto ingombranti, a bobina, con un nastro magnetico destinato ad una durata limitata nel tempo.

Il più famoso era il Geloso, che ebbe un larghissimo seguito all’epoca, ma ce n’erano altri di marche meno celebri (in casa mia era arrivato un imponente Telefunken) tutti antichi precursori, oggi di sapore preistorico, di apparecchi diventati nel tempo sempre più ridotti di dimensioni, che avrebbero permesso di registrare su supporti portatili, le audio cassette, più pratiche e maneggevoli che avrebbero tenuto banco per molti anni prima dell’avvento dei CD.

Il problema dei registratori dell’epoca era che non si potevano collegare all’unica fonte sonora disponibile, cioè la radio, con un cavo, ma bisognava utilizzare un piccolo microfono, di qualità riproduttiva mono e anche piuttosto scadente.

La registrazione doveva avvenire in rigoroso silenzio e bisognava essere pronti a farla partire subito dopo che il pezzo era stato annunciato in radio.

Si capisce come diventassero preziose quelle cassettine cariche delle proprie musiche preferite “rubate” alla radio, che poi si consumavano, per pomeriggi interi, sui rudimentali lettori di allora, che avevano il nome piuttosto sinistro di “mangiacassette”.

L’anniversario della nascita di Janis Joplin, grande e sfortunata cantautrice statunitense dalla voce inconfondibile, mi ha fatto venire in mente quel periodo perché una delle sue interpretazioni più celebri, una versione graffiante a drammatica di “Summertime”, era contenuta in una delle prime audio cassette che ero riuscito in quella maniera così pioneristica a registrare dalla radio.

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Janis Lyn Joplin nasce il 19 Gennaio del 1943, quindi negli anni sessanta, quando divenne famosa, aveva 21 anni e registrò i suoi primi brani musicali con una di quei registratori a bobine, insieme ad un chitarrista, Jorma Kaukonen, che diventerà famoso in seguito come chitarrista dei Jefferson Airplane.

Non avrà una vita lunga Janis, perchè morirà il 4 ottobre 1970 per overdose di eroina a 27 anni, come Jimi Hendrix (poco prima) e Jim Morrison (un anno dopo), che avevano caratterizzato come lei quello straordinario periodo musicale.

Più avanti, a questo tragico gruppo si uniranno anche Brian Jones, Kurt Kobain ed Amy Winehouse, anch’essi artisti geniali accumunati dal dolore mentale e dalla conseguente dipendenza dalle droghe che li porterà a cercare, più o meno consapevolmente, la morte alla stessa età, 27 anni.

A 24 anni Janis è già entrata nella leggenda partecipando al Festival pop di Monterey del 1967 ma è nel 1968 che incide un paio di canzoni che, insieme a Me and Bobby McGee (pubblicata postuma nel 1971), resteranno memorabili, Piece of my heart e, appunto la sua versione di Summertime di Gershwin.

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Janis era una donna fisicamente minuta, scarmigliata, la sua adesione al movimento hippy la rappresentava sempre in abiti eccentrici e colorati, avvolta da collane, grandi occhiali  e cappelli a larghe falde ma se si chiudono gli occhi e si ascolta la sua voce, corrosa dall’abuso di alcool e droghe, si è catturati da un timbro graffiante e seduttivo che trascina l’ascoltatore in un abisso di passione e sofferenza che non può che nascere da un dolore profondo.

Grazie alla sua voce la cantante texana era diventata uno dei simboli del rock al femminile, e, a dispetto di un fisico non proprio da top-model, perfino un sex-symbol.

La sua sensualità selvaggia la rendeva infatti l’alter ego femminile di ciò che erano, in quegli anni, Jim Morrison o Mick Jagger.

Lo confermava un articolo apparso su “The Village Voice”: “Pur non essendo bella secondo il senso comune, si può affermare che Janis è un sex symbol in una brutta confezione”.

Durante l’adolescenza, Joplin fu pesantemente maltrattata dai compagni del liceo a causa della sua scarsa avvenenza e dei suoi ideali di uguaglianza fra bianchi e neri.

All’università fu addirittura votata come “uomo più brutto del campus”.

Le continue vessazioni subite e lo scarso sostegno dei genitori le provocarono ferite che si portò dietro tutta la vita e furono tra le cause principali sia del suo spasmodico bisogno di accettazione e riscatto che dell’abuso di alcool e droga. 

“Summertime” fa parte della colonna sonora di un’opera teatrale firmata da George e Ira Gershwin su libretto di DuBose Heyward, “Porgy and Bess” scritta nel 1935.

Nel tempo è diventato uno standard talmente eseguito e riproposto in chiavi e stili diversi da far perdere di vista il significato originale che riveste all’interno dell’opera.

La canzone infatti è una ninnananna che una delle protagoniste canta nel primo atto dell’opera alla propria bambina, una ninnananna che invita la bambina a non piangere perché il suo papà è ricco e la sua mamma è bellissima e finché saranno al suo fianco la sua vita sarà facile.

Le cose andranno diversamente per quella bimba perché crescerà orfana per una serie di tragedie che coinvolgeranno la sua famiglia, quindi l’atmosfera delicata e solare della canzone è in realtà un preludio ad un futuro incerto e triste.

           

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La versione di Janis è un rock-blues su una base ritmica semplice di basso e batteria, caratterizzato da un celebre intro di chitarra che precede la voce roca e inizialmente soffiata di Janis che diventa poi gradualmente un urlo, prima trattenuto e poi sempre più libero, in duetto con la chitarra che diventa anch’essa sempre più distorta e graffiante.

La seconda strofa ha la stessa sequenza, in partenza delicata e struggente e poi sempre più tesa e disperata in un crescendo di voce e chitarra che finiscono insieme in un accordo maggiore che si tronca bruscamente, lasciando senza fiato l’ascoltatore.

Come ha riportato la rivista Rolling Stones, nel cinquantesimo anniversario della sua morte, Janis Joplin non è stata solo una cantante straordinaria ma ha rappresentato anche “una figura di donna che ha espresso liberamente la propria bisessualità in tempi molto più patriarcali, misogini e omofobi di oggi (e quindi si immagini quanto fossero patriarcali, misogini e omofobi).

Che ha imposto la sua carica sessuale e il suo fascino senza conformarsi al modello di bellezza standardizzato dello show business.

Che è stata leader assoluta in un gruppo di uomini in un momento in cui le donne in una rock band (con qualche eccezione come Grace Slick, l’amica-rivale leader dei Jefferson Airplane) potevano al massimo ambire a suonare il tamburello.

Ma anche una donna lasciata sola, in vita e anche dopo, ostaggio di un mito che ha rischiato di offuscarne il lascito artistico”.

Pensando al suo percorso di vita non si può non pensare che quelle ultime parole del testo di “Summertime”, cantate con quella voce spezzata e roca, fossero una consolazione anche per sé stessa per una vita che non è stastatastata”facile” ma che l’ha fatta entrare nel mito: “So hush, little baby, don’t you cry”.

Massimo De Mari, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

massimodemari@gmail.com

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