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“La figlia unica” di A.B. Yehoshua

Recensione di Antonio Alberto Semi

2021-A.A. Semi-Yehoshua-La figlia unica_IMG
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Chi ha letto un po’ dei romanzi di Yehoshua, a cominciare da L’amante (1977) e giù giù Un divorzio tardivo (1982), Il signor Mani (1990), La sposa liberata (2001) Il responsabile delle risorse umane (2004) fino a Il tunnel (2018) – solo per citarne alcuni – ha potuto anche accorgersi che man mano e senza mai dichiararlo questo grande scrittore descriveva una sua autobiografia o perlomeno un arco esistenziale proprio e contemporaneamente comune a tutti. 

Con La figlia unica, appena pubblicato, questo arco sempre allude ad una conclusione possibile e, com’è nello stile di A.B.Y., ad una altrettanto possibile apertura sul problema della continuità individuale e metaindividuale, riferendosi anche alla questione dell’identità. Dell’identità in se stessa, che sia quella ebraica di contro a quella araba o palestinese, quella ashkenazita di contro a quella sefardita, quella eterosessuale di contro a quella omosessuale, quella religiosa di contro a quella agnostica o anche atea, infine quella adolescenziale di contro a quella adulta o addirittura senile: di tutte queste manifestazioni del problema identitario Yehoshua fa intravvedere la necessità e la altrettanto necessaria superabilità, pena il fallimento personale. In quest’ultimo romanzo – o meglio racconto lungo, perché la struttura è quella di un racconto che nell’edizione italiana occupa poco più di 150 pagine – il problema dell’identità è giocato in modo così esplicito da obbligare il lettore a chiedersi cosa l’autore stia nascondendo. In una grande città italiana Rachele Luzzatto, una ragazzina delle scuole medie cui il padre – che pure non è granché religioso ma ci tiene al fatto di essere ebreo – ha vietato di interpretare la parte della Madonna nella recita che la scuola sta organizzando per il Natale, oscilla tra il desiderio di recitare trasgredendo il volere paterno e invece ritrovare i suoi affetti per i nonni, che la accolgono con grande slancio quando i genitori si assentano, come capita abbastanza spesso. In prima linea balzano man mano un quasi coetaneo molto attraente, Enrico, e poi una malattia del padre che viene rivelata e nascosta a Rachele ma che motiva poi una serie di scelte che i genitori compiono per lei. Tra queste scelte, l’invio di Rachele presso la nonna paterna in una città di mare che per alcuni aspetti può ricordare Venezia. Leah, la nonna, le vuole molto bene ma a modo suo, cercando cioè di spingere Rachele ad essere come lei. La nonna è intrigante ma generosa, si occupa troppo della nipote ma anche si preoccupa davvero per lei, fino a trovare il modo di combinarle un appuntamento con l’insegnante che aveva raccomandato a Rachele di leggere durante le vacanze una parte almeno del Cuore di Edmondo de Amicis e di parlarne poi con lei, anche se lei andava in pensione. Sullo sfondo si delinea anche il problema degli adulti di comunicare ad una ragazzina la gravità della malattia del padre: chi e come troverà le parole giuste per dirglielo? Ma per dire cosa? Yehoshua mostra con grande abilità quanto Rachele sappia e non sappia, quanto voglia sapere “davvero” come stanno le cose e quanto quel “davvero” possa esserle comunicato solo attraverso il suo linguaggio interiore, intessuto di affetti intensi e acerbi. Per noi analisti è inevitabile pensare a quanto intenso sia stato il rapporto di A.B.Y. con Rivkà, la moglie psicoanalista scomparsa pochi anni or sono.

Il libro si conclude – ma non dico come – in modo tragico e insieme tenero, duro e commovente. Soprattutto, si conclude lasciando al lettore il compito di immaginarsi un seguito. Cosa sta dunque nascondendo Yehoshua dietro alla questione dell’identità e a quella della differenza di generazione? Rispondere a questo quesito – sembra dire Yehoshua – ci rende più umani. Da leggere.

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