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Andrè Green

di Antonio Alberto Semi

Ricordare André Green o ricordarsi di André Green? Per noi psicoanalisti le due prospettive sono inscindibili, programmaticamente. Perché gli aspetti personali e quelli cosiddetti scientifici sono distinguibili solo a livello conscio ma sappiamo bene che già preconsciamente le cose vanno diversamente e a livello inconscio poi…

Dunque, sappiamo che qualunque sia la riflessione che possiamo compiere (su una figura, su una persona, su una questione particolare) essa acquista un significato particolare se teniamo conto dello spessore psichico che questa riflessione ha. E, quanto a spessore, André Green stava bene comunque, di per sé, il che complica inevitabilmente le implicazioni soggettive che ognuno di noi aggiunge. Spesso egli veniva considerato una persona ingombrante e qualcuno anzi ne aveva una brutta opinione “umana”, considerandolo talora quasi uno screanzato. Perché Green, se aveva qualcosa da dire, non esitava a farlo apertis verbis. Eppure credo che, se qualcuno avesse la possibilità e la pazienza di leggersi e studiare i testi degli interventi orali di Green a convegni o congressi, l’elemento che balzerebbe in primo piano sarebbe il legame stretto tra rigore e passione, non un qualcosa di distruttivo.

Rigore e passione. Se oggi ci si vuol immaginare come possa essere l’eredità freudiana, come possa essere vissuta, sentita, esplorata, ampliata, la figura di André Green può servire di esempio. Di esempio di una possibilità ossia del fatto che è possibile davvero far propria l’eredità freudiana per andare oltre, avanti, recuperando il già-pensato per inserirlo in un nuovo pensiero. Per far questo è necessario un grande rigore, perché un’eredità ingombrante quale è quella di Freud si presta facilmente a tagli, a privilegiamenti sospetti di alcune parti ai danni di altre, ad interpretazioni equivoche.

Nel percorso di Green, la preoccupazione di evitare queste tendenze “pericolose” senza perciostesso cadere in un fidelismo di stampo vagamente religioso ma anzi proprio perciò sentendosi autorizzati a percorrere strade nuove, è stata a mio avviso una nota dominante. Del resto spesso dichiarata, a partire già dalla prefazione a “Il discorso vivente” (1973) quando segnalava come nell’opera pur attraente di Lacan l’opera di Freud fosse mutilata di almeno metà della sua sostanza (e che metà: l’affetto e gli affetti) e come viceversa fosse necessario ritornare a tutto Freud per poterne portare avanti l’impresa e la sfida di ricerca e di clinica.

Il rigore richiede una capacità critica e autocritica e l’attenzione alle argomentazioni altrui per così dire prendendole sul serio, inseguendone le implicazioni e scoprendone le basi. Esemplare, da questo punto di vista, L’originaire et la pensée des origines, discussione delle posizioni di Piera Aulagnier (ora contenuta nel n.49 di Topique, 1992). Esemplare anche perché mostra come una critica anche dura, rigorosa, implica una attestazione di stima autentica verso l’autore criticato.

Ma il rigore non avrebbe gran senso se non fosse supportato, vivificato, dalla passione. Per Green, manifestamente, la psicoanalisi è un oggetto d’amore e, come tutti gli oggetti d’amore, non è mai pienamente conquistabile. Anzi. Non “meriterebbe” di essere amata se non contenesse un invito seducente a conoscerla di più e nello stesso tempo un’affermazione del tipo “non riuscirai mai a conoscermi del tutto”. Come dire se la psicoanalisi non contenesse in sé stessa, come scienza dell’essere umano, una caratteristica propria dell’oggetto che studia: la sua inafferrabilità dinamica, vitale, continua.

Da questo punto di vista, i contributi scientifici importanti recati da Green – si pensi solo a De la tiercéité, del 1989 o a La position phobique centrale avec un modèle de l’association libre, del 2000, possono essere visti come i frutti di un amore appassionato e di un rigore consapevole. Un lascito per tutti noi.

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