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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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1983/2007 - Intervista ad André Green

di Daniel Friedmann

Brani scelti da Patrizio Campanile tratti da:

Friedmann (2009) Etre Psy. Editions Montparnasse et CNRS.

Riprodotti nel sito del C.V.P. per gentile concessione dell’Autore

 

TRADUZIONE a cura di Mariagrazia Capitanio

 

 

1983

– Cos’è, per lei, essere psicoanalista?

– Bisognerebbe aggiungere alla sua domanda: in Francia, nel 1983. Perché penso che uno psicoanalista non ha, probabilmente, affatto lo stesso sentimento relativamente alla propria identità in altre epoche de eventualmente in altri Paesi. Per cominciare le dirò che [essere psicoanalista] è innanzi tutto il sentimento di appartenere a un movimento che fino a oggi ai miei occhi rappresenta la conoscenza la più avanzata che si possa avere dello psichismo umano. Nessuna altra conoscenza dopo la scoperta della psicoanalisi mi sembra abbia apportato più luce della psicoanalisi stessa, sebbene essa faccia molta fatica a proseguire nel suo sviluppo.

Io credo che la ragione che fa sì che io sia psicoanalista e che continui a esserlo nel 1983 è – se si rifiutano il dogmatismo, il fanatismo, l’indottrinamento – di assumere una certa incertezza.

Dopo la morte di Freud la situazione si è molto evoluta: alla psicoanalisi non sono mancati spiriti talentuosi, solo che il risultato è stato una esplosione della psicoanalisi. Opere così diverse e così opposte sotto molti aspetti – come quelle di una Klein, di un Lacan, di un Winnicott, di un Bion, di un Hartmann, di un Kohut per citare solo i nomi più conosciuti della letteratura psicoanalitica contemporanea – rappresentano, direi, l’effetto di uno scostamento dal pensiero freudiano che si coagula attorno a polarità molto poco compatibili tra loro. Quindi delle due l’una: o si sceglie il proprio campo  e si dice: “Io sono kleiniano, io sono lacaniano, io sono  winnicottiano” e in questo caso,  bene, si rigettano gli altri nelle tenebre esterne ; oppure si cerca di avere uno sguardo un po’ più aperto, ci si  fa delle domande, ci si chiede se comunque le loro opere non racchiudano almeno una parte di verità e, anche se sono portatrici di deformazioni considerevoli o di distorsioni teoriche o di opzioni discutibili, la loro forza e  la loro  ripercussione possono spiegarsi comunque grazie a questo nucleo di verità che –  malgrado tutto – racchiudono. Allora, a questo punto, non si tratta affatto di cadere nella trappola dell’ecclettismo ma in una cosa infinitamente più difficile da fare che è l’articolazione di questi diversi sottoinsiemi teorici.

Questo è accettare l’incertezza: accettare l’incertezza è in primo luogo rendersi conto che l’opera di Freud è incompleta e, in secondo luogo, che lo sviluppo del pensiero post-freudiano fa sì che non si sappia chi ha ragione. E che c’è un compito di raccolta e di articolazione [da fare] che domanda molto sforzo.

Perché è così? Non solo perché la preoccupazione di originalità o il bisogno di notorietà, di celebrità ha spinto degli psicoanalisti a fare un’opera originale che si distinguerebbe da Freud solo per il piacere di farsi un nome, ma effettivamente anche perché la pratica dell’analisi ci porta ora sempre di più, più di prima, pazienti che si collocano male nell’inquadramento teorico di Freud. Bisogna andare oltre. E’ più difficile, ci sono più cose che ci sfuggono e che bisogna cercare. Assumere questa incertezza non è sempre una posizione comoda ed evidentemente è sempre più facile scegliere sopprimendo in questo modo un certo numero di problemi.

Penso, ora, di averle spiegato quella che è forse la posizione dello psicoanalista in Francia nel 1983.

 La teoria di Freud è costruita intorno alla nevrosi e a quelle che sono state chiamate le psiconevrosi di transfert: fondamentalmente l’isteria, la fobia, la nevrosi ossessiva. Oggi, se lei interroga gli analisti e domanda quanti pazienti hanno, tra la loro clientela, che corrispondono ai casi di nevrosi descritti da Freud, risulta che sono estremamente rari. Certo, Freud ci ha dato contributi molto illuminanti sulla psicosi ma, per sua stessa ammissione, egli non amava gli psicotici. Direi che trovava la psicosi troppo distruttiva e, sebbene la psicosi manifestamente lo interessasse, non era il tipo di uomo da affrontare, in una relazione terapeutica psicotici o pazienti con una struttura psicotica.

Non dico che oggi abbiamo a che fare solo con questo. Ma quello che è sicuro è che lo spettro si è spostato: pazienti tipicamente nevrotici, con una sintomatologia nevrotica ce ne sono ma sono più rari. In secondo luogo molti, fra questi che arrivano da noi, danno piuttosto l’impressione di una copertura nevrotica che offre una debole protezione. Detto in altri modi, dietro questi segni nevrotici per i quali vengono a chiedere l’aiuto dell’analista, esiste una grandissima fragilità che lascia sospettare dei punti di fissazione ben anteriori a quelli della nevrosi e delle possibilità regressive molto più importanti di quelle della nevrosi.

C’è tutto un insieme di persone che viene per sintomi apparentemente molto banali, poco gravi, per un sentimento di fallimento della vita professionale o amorosa, per una impressione di inibizione, di disagio. Tutto questo, che sembra essere molto banale, nasconde in effetti molto spesso problematiche molto complicate e difficili da analizzare e che in una scala approssimativa nell’ordine della salute e della malattia – è sempre un modo di parlare che all’analista non piace usare ma per comunicare con gli altri bisogna ben utilizzare criteri comuni – diciamo che sono tra virgolette “molto più malati”. D’altra parte, tra la clientela degli analisti, si riscontrano sempre più frequentemente  quelli che chiamiamo casi limite, cioè strutture spesso mal definite, mal differenziate, ibride, che mostrano un rapporto con la psicosi senza d’altra parte che si possano dire psicotici;  che hanno una vicinanza, una specie di rapporto di marginalità rispetto alla psicosi per cui nel lavoro psicoanalitico a quel punto non ci si può più appoggiare alla teoria di Freud ma si è obbligati ad appoggiarsi agli apporti post-freudiani; si è soprattutto obbligati a basarsi su se stessi, su  ciò che si  si sta vedendo, scoprendo e inventando e su ciò che non è già stato descritto. Ho chiamata questa la ‘follia privata’ perché sono persone che – nei rapporti con gli altri – più i rapporti sono superficiali, ebbene, più sono facili; e, più i rapporti le mettono in contatto con le persone importanti della loro esistenza, più in quel momento le cose vanno molto meno bene. E’ sul divano che esse possono mostrare l’estensione della loro, tra virgolette, “follia”. E’ per questo che la chiamo follia privata, proprio perché non è assolutamente giustificabile il trattamento che si applica agli psicotici. Cosa che mi porta a dirle l’ultima caratteristica dell’analista: è un mestiere dove si fa un grande sforzo. Un grande sforzo non a causa di ciò che si è obbligati a fare quanto proprio per quello che ci si proibisce di fare. E’ proprio questa situazione di attesa e di non risposta alle provocazioni del paziente, non risposta alle sue aggressioni, non risposta alla sua distruttività. O una risposta che è non è altro, sempre, che un mezzo per elaborare questa distruttività e per restituirgliela dandole un senso nello scambio transferale. Per poter aiutare un paziente che ha manifestazioni di regressione molto importanti e, direi, molto lontane dal nostro modo abituale di funzionare, bisogna pur che ci sia in noi una potenzialità di questo tipo per poter entrare in comunicazione con lui. Proprio questo è quello che è cambiato. Freud ha fatto fare un passo considerevole quando ha avuto il coraggio di dire: “Io stesso sono un nevrotico. Riconosco in me dei tratti, delle tendenze nevrotiche” e per conseguenza il rapporto normalità/nevrosi era in un rapporto di scarto ottimale per permettere a un nevrotico normale come era Freud di aiutare un nevrotico. La differenza tra loro, Freud l’aveva fatta cadere: aveva fatto uscire il medico dallo status di prestigio: “Io sono normale, lei è anormale, lei non deve fare altro che quello che le dico”. Questo gli ha permesso di scoprire la psicoanalisi come qualche cosa che non concerneva solo i nevrotici ma concerneva lo psichismo umano in generale, normale e patologico; per questo egli è passato per la via del sogno. Bene. Ma oggi questo rapporto di tolleranza alla devianza è molto aumentato perché implica che i “normali”, tra virgolette, come noi siamo, siano obbligati a comprendere e ad analizzare persone il cui scarto dalla normalità in rapporto alla nevrosi è ancora più grande e, per conseguenza, che lo psicoanalista riconosca lui stesso le sue potenzialità, cioè che egli si riconosca in fondo molto più malato di quello che si suppone sia.  Attenzione: non si tratta affatto di dire: “Molto bene, tutti sono pazzi, tutto va bene”. No! Si tratta per l’analista di utilizzare qualche cosa, la potenzialità di follia che egli può avere in se stesso per comprendere l’altro e permettere all’altro di uscire dall’alienazione in cui è preso. Soprattutto non mi si faccia dire: “Benissimo. Gli analisti …”: non ricadiamo nella vecchia battuta del diciannovesimo secolo secondo cui gli psichiatri erano più pazzi dei loro pazienti; non si tratta di questo. Si tratta invece di mostrare che ciò impone un enorme lavoro psichico all’analista. Anche la questione dei limiti diventa la questione dei limiti di un particolare analista. Ultima caratteristica dell’analista – di cui oggi non si può non tener conto – è che, contrariamente a quello che si dice, egli ha una enorme responsabilità. Ha una enorme responsabilità perché la maggior parte del tempo, anzi sempre, egli è solo.

La famiglia patriarcale all’epoca di Freud era certamente un fattore favorente lo sviluppo della nevrosi. L’atteggiamento della società nei confronti della sessualità, l’atteggiamento dei genitori nei confronti della sessualità infantile, tutto ciò costituiva certamente delle condizioni per far fiorire una nevrosi. Adesso non siamo più in quella situazione. L’autorità patriarcale ha perso molto del suo lustro e il mondo come appariva al tempo di Freud dava ancora l’illusione di un ordine. Era un ordine illusorio. Ma ci si è disillusi da questa illusione relativamente tardi, quando le cose erano già successe e richiedevano un atteggiamento del tutto differente. E poi c’era Dio, c’era la religione e l’ordine che essa dava. Il tempo è passato, e non sto prendendo posizione per dire: “Era meglio prima, è peggio adesso”. Dico: “Ecco quello che c’era prima, ecco quello che c’è adesso”. Non si tratta di tornare indietro. Quello che è fatto, è fatto.  Non basta decretare che domani si ristabilirà l’autorità patriarcale perché questo cambi qualche cosa. Perché ad ogni modo direi che l’illusione di ordine si perde molto presto. Al tempo di Freud dove era il male del secolo? L’isteria e la sessualità. Da quel lato c’è stata una liberalizzazione. Dove è il male del secolo oggi? Non più nella sessualità: è nella droga. Non è solo nella droga, è nella tossicofilia. Cioè è nella droga come pure negli atteggiamenti sociali, nell’alcoolismo, tabagismo, calmanti. Questo vuole semplicemente dire una cosa: quando si sopprime un problema se ne crea un altro e non è affatto sicuro che nello scambio si guadagni. Non sto affatto dicendo che sia peggio di prima; quello che viceversa trovo è che attualmente vi è una lucidità come non c’è mai stata. C’è una autenticità come non c’è mai stata. C’è – come posso dire – non tanto una ricerca ma un rapporto con la verità, un rapporto che i bambini hanno molto più presto … Perché i bambini quando vedono alla TV un uomo politico, hanno capito. A sei anni! Hanno capito che quando si parla così non si sta dicendo la verità. Ma allora?  Su cosa appoggiarsi? C’è una specie di gioco di va e vieni   tra la sensibilità all’inconscio e la presa di distanza necessaria, di indietreggiamento, per rendersi conto delle tentazioni, che si possono avere, di lasciarsi sopraffare dalle proprie reazioni inconsce stimolate da quelle dell’analizzante1 e dunque questo gioco è sia di apertura che di arretramento, cosa che comporta – per il lavoro analitico – tanto affrontare momenti difficili da sopportare quanto momenti di grazia.

Penso che nessun analista continuerebbe a essere analista se l’analisi fosse solamente questa cosa faticosa che ho detto; anche facendo intervenire il suo masochismo, bisogna comunque che ci siano delle soddisfazioni e ci sono effettivamente dei momenti straordinari che portano a pensare, di volta in volta, che si fa il più bel lavoro del mondo.

Questi momenti straordinari sono quelli in cui c’è una felicità di funzionamento nel paziente e nell’analista, in sintonia col paziente, quando tutto assume un andamento di sviluppo, dove le cose si concatenano le une con le altre, dove i pensieri del momento, i ricordi, le impressioni, le emozioni, le cose vanno a posto. E dove, dal lato dell’analista, vi è parimenti la possibilità di seguire le proprie associazioni, i  propri affetti, dove i propri ricordi della cura  si mettono egualmente  a posto e si ha l’impressione di una specie di incontro culminante che, scusi la banalità del paragone, è qualche cosa come un rapporto sessuale che culmina nel godimento reciproco, in quella specie di godimento sublimato che è il rapporto analitico; allora in quei momenti direi che l’analisi arriva ad una dimensione dove il sentimento di verità si muta in qualche cosa che è dell’ordine della bellezza; questo  succede, non tutti i giorni  ma, se non arrivasse mai, credo che non faremmo  questo lavoro

 

 

2007 

– A cosa tiene di più tra ciò che ha fatto e scritto come psicoanalista? Qual è la cosa più importante?

– La follia. La follia umana, ciò che rende gli uomini folli, tutti, ad opera delle loro passioni, i loro investimenti, le loro scelte; e la follia è anche una malattia, ciò si chiama psicosi. Ci convivo.

– Come vede – ammesso che lo si possa vedere – l’avvenire della psicoanalisi?

– Chi vivrà vedrà

 

 

 

Note

  1. [N.d.T.: Analysant: analizzante/analizzando].

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