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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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André Green e la mia telecamera, nel corso del tempo…

di Daniel Friedmann*

Nel 1983 filmai un certo numero di psicoanalisti; molto prima di queste riprese avevo scoperto l’analisi sul lettino di uno psicoanalista.

Fino ad allora, nei miei lavori di sociologo, mi ero accontentato di prendere degli appunti a penna o di registrare le parole sul registratore e presi la decisione di filmare gli psicoanalisti anche se, paradossalmente, il viso, il tono e la postura di uno psicanalista che parla della psicoanalisi non hanno niente di spettacolare.

Le interviste furono realizzate presso gli analisti, nello spazio che si erano dati. La semplicità dei contesti faceva emergere attraverso l’arredo, i quadri e altri oggetti manipolati durante l’intervista -tra cui le sigarette e le pipe, le volute di fumo e i suoni del quotidiano (squilli telefonici, rumori di macchine, abbaio di cani, lavori nello stabile…) – una varietà di informazioni.

Le riprese della prima serie di interviste ebbero luogo nel 1983, due anni dopo la morte di Jaques Lacan. Tra i tredici psicoanalisti filmati c’era André Green, uno degli psicoanalisti più conosciuti sia in Francia che a livello internazionale.

Alla mia domanda iniziale (Cos’è, per lei, essere psicoanalista?) rispose:

– Bisognerebbe aggiungere alla sua domanda: in Francia, nel 1983.

Compresi che completando così la mia domanda, aveva appena collocato la psicoanalisi e la nostra intervista in un contesto storico. Poi continuò:

– Essere psicoanalista è il sentimento di appartenere a un movimento che fino a oggi ai miei occhi rappresenta la conoscenza più avanzata che si si possa avere dello psichismo umano, sebbene essa faccia molta fatica a proseguire nel suo sviluppo. Gli psicoanalisti, tempo fa, rappresentavano un gruppo di marginali che lavoravano più o meno nella clandestinità e che avevano una certa aura rivoluzionaria. La psicoanalisi, oggi, è malata del suo successo.

Perché, domandai, accontentarsi di filmare il discorso degli psicoanalisti e non la seduta stessa?

Egli non si limitò a definire il metodo della cura come una relazione duale che esclude ogni presenza terza, nemmeno se sotto forma dell’oggetto telecamera, strumento visivo e sonoro che capta la scena duale tramite uno sguardo esterno; egli obiettò che filmare una seduta non sarebbe servito a granché poiché l’essenziale non sono le parole scambiate e registrate ma quello che avviene nel silenzio e nell’inconscio di ciascuno durante lo scambio tra analista e analizzante1.

Il contesto storico fece ritorno quando Green menzionò quello che egli chiamava il “disagio del secolo”, terminologia che sembra iscriversi nel disagio della civiltà proprio agli anni ‘80. Questo disagio del secolo era per lui la droga o, più esattamente, la tossicofilia nella quale egli metteva anche l’alcool e il tabacco. Quando nominò il tabacco stava fumando una sigaretta: senza dire una parola, la sollevò davanti all’obiettivo della telecamera e, con un’aria di ironica commiserazione, scosse la cenere.

Questo gesto inatteso e spettacolare rompeva il suo discorso distaccato, facendomi entrare nella sua soggettività, includendo il male del secolo nella sua persona. Riconosceva di essere lui stesso colpito da questa tossicofilia come gli altri figli del secolo … immagine di improvvisa complicità e di autoderisione che significava che anche lui era portatore di un sintomo.

Il cinema, captando il movimento della mano che scuote la cenere ardente della sigaretta, esibiva senza dire una parola un aspetto dell’essere di Green.

Il viaggio dialettico tra distanza delle parole e il sorgere delle emozioni segnalava il modo di procedere della cura ed André Green terminò l’intervista facendo della relazione analitica una apoteosi: godimento sublimato.

– C’è un gioco di vai e vieni tra la sensibilità all’inconscio e la presa di distanza necessaria per non   lasciarsi travolgere dalle proprie reazioni e da quelle dell’analizzante, cosa che comporta – per il lavoro analitico – tanto affrontare momenti difficili da sopportare quanto momenti di grazia.

Penso che nessun analista continuerebbe a essere analista se l’analisi fosse solamente questa cosa faticosa che ho detto, anche facendo intervenire il suo masochismo.

Bisogna comunque che ci siano delle soddisfazioni e dei momenti straordinari che portano a pensare, di volta in volta, che si fa il più bel lavoro del mondo.

Questi sono momenti in cui c’è una felicità di funzionamento nel paziente e nell’analista, in sintonia  col paziente, dove le cose si concatenano le une con le altre, dove i pensieri del momento, i ricordi, le impressioni, le emozioni, le cose si mettono a posto e dove, dal lato dell’analista, vi è parimenti la possibilità di seguire le  proprie associazioni, i  propri affetti, i propri ricordi della cura e si ha l’impressione di una specie di incontro culminante che, scusi la banalità del paragone, è qualche cosa come un rapporto sessuale che culmina nel godimento reciproco, in quella specie di godimento sublimato che è il rapporto analitico; allora lì io direi che l’analista arriva ad una dimensione dove il sentimento di verità si muta in qualche cosa che è dell’ordine della bellezza; questo non arriva tutti i giorni ma, se non arrivasse mai, credo che non faremmo questo lavoro.

Durante i dibattiti che ebbero luogo nelle sale cinematografiche alla fine della proiezione dei miei film del 1983 la prima domanda posta agli analisti dagli spettatori era: Direbbe la stessa cosa oggi? Come psicoanalista lei è cambiato?

Questi dibattiti mi persuasero che dovevo ritornare a trovare gli analisti che avevo filmato 25 anni prima per intervistarli di nuovo. È così che nacque il progetto di filmare di nuovo gli psicoanalisti del 1983; nel 2007 – 2008 tornai da Green. Era sprofondato nella stessa confortabile poltrona dell’altra volta. La sua voce era diventata più lenta:

– Per quello che riguarda la conoscenza dello psichismo umano non vedo assolutamente niente da modificare del mio giudizio di un tempo. Le dirò, certamente con sorpresa di molti colleghi, che ritengo che le neuroscienze e le scienze cognitive non abbiano portato niente di più di quanto non abbia portato la psicoanalisi.

Non sono un uomo che cambia facilmente idea o, più esattamente, che cambia idea con lo spirito del tempo.

Io sono uno di quelli, senza dubbio molto ostinati, che ritengono che – dal punto di vista in cui si colloca lo psicoanalista – non si è imparato nulla di più.

Cosa pensa dell’apporto di Lacan?

– “L’inconscio strutturato come un linguaggio” era solo un vago paragone che poteva accordarsi con la patologia della nevrosi ma, non appena si entra in strutture più complicate come gli stati limite, le cose non si presentano più così.

Il discorso analitico si interessa a ciò che non è riducibile al linguaggio, all’altro del linguaggio. C’è qualcosa che gli psicoanalisti conoscono bene: la pulsione, che non si accontenta di essere ridotta a ciò che il linguaggio ne dice.

Oggi direi che il male del secolo è la violenza cieca, la violenza di cui ci si appropria per farsi giustizia. E qui siamo nel campo della pulsione:

_sì, puoi sopportare una caricatura di Maometto.

_non voglio saperlo, la rivelazione non si discute.

A cosa tiene di più in quello che ha fatto e scritto come psicoanalista? Qual è la cosa più importante?

– La follia è la cosa più importante su cui ho scritto, la follia umana, cioè ciò che rende gli uomini folli ad opera delle loro passioni, i loro investimenti, le loro scelte; e la follia è anche una malattia, ciò si chiama psicosi. Ci convivo.

Ultima domanda: come vede il futuro della psicoanalisi?

– Chi vivrà vedrà.

 

[Traduzione di Mariagrazia Capitanio]

Note

* Daniel Friedmann è sociologo, professore presso l’EHESS (École des Hautes Études en Sciences Sociales – Parigi).

[1] . [N.d.T.: Analysant: analizzante/analizzando].

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