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“Dove erano allora i vostri nonni? E i vostri genitori?” Il Ventennio e i suoi discendenti: segreti e fantôme.

di Mariagrazia Capitanio

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Il mio passato non è quello di chi ha avuto nonni o zii o genitori partigiani. Io, a differenza loro, non sono nata partigiana […] non ho avuto questa fortuna” (Marzano M., 2021,185-187[1]).

Così dice con rammarico Michela, la protagonista del romanzo[2] di M. Marzano Stirpe e vergogna, dopo aver scoperto pochi anni fa – a quasi 50 anni – un segreto familiare: il nonno, Arturo, era stato un fascista della prima ora. Solerte magistrato del Regime nel Meridione, dispensato dalla magistratura alla fine del ’44, venne poi riassunto all’inizio del ‘49 sull’onda lunga dell’amnistia Togliatti. Nello stesso anno si presentò alle elezioni comunali del suo paese nelle liste del MSI e nel 1953 si candidò alla Camera nelle file del Partito Nazionale Monarchico. Divenuto parlamentare, nel 1958 durante un comizio fu colto da ictus: rimasto invalido, lasciò la politica. Questa, in estrema sintesi, una parte della storia del nonno che la protagonista ricostruisce, nell’arco di circa due anni di ricerche, con determinazione, coraggio e sofferenza.

Determinazione e coraggio: Michela vuol fare i conti con le vicende delle generazioni precedenti per capire parte delle sue scelte, impuntature, sconfitte e rinunce (cfr. 35) e soprattutto se ci possa essere legame tra il segreto familiare relativo alla militanza fascista e le ansie di cui soffre nel suo presente (40).

Sofferenza: per quel che sa, suo padre è sempre stato di sinistra, acerrimo nemico del fascismo, dalla ‘parte giusta della storia; mai e poi mai avrebbe pensato che i nonni non lo fossero. Per ‘caso’ scopre che l’ultimo dei cinque nomi del padre è Benito, nonostante egli affermi di chiamarsi “Ferruccio e basta”. Il “basta” è la parola che da un lato nasconde il segreto che la protagonista riesce a svelare con pena tra silenzi, omissioni, amnesie, qualche ammissione e che, dall’altro, apre la strada ad una riconsiderazione del padre e della relazione con lui.

La vicenda familiare e personale della protagonista, la sua relazione con i genitori, entrambi portatori di segreti (il lettore viene a conoscenza solo di quello paterno), la descrizione del clima familiare e del carattere dei personaggi, mi ha sollecitato, prendendo spunto da alcuni lavori di N. Abraham, M. Torok e H. Faimberg, ad utilizzare  il romanzo come  materiale utile  per fare qualche prima parziale considerazione (e pormi alcune domande) sulla trasmissione transgenerazionale del segreto tra i discendenti del Ventennio. Essa comporta processi psichici interessanti per noi, analisti italiani che durante la vita professionale ci siamo trovati e ci troviamo ad ascoltare gli eredi di quel fosco e tragico periodo, avendo ben presente che anche noi ‘proveniamo’ da quella stessa epoca. Forse, tra i nostri pazienti, qualcuno può aver avuto (o avere) una vicenda psichica in qualche modo simile (anche se nei sintomi diversa) a quella della protagonista del romanzo? “Dove erano allora i vostri nonni? E i vostri genitori?” (187)  chiede Michela. Nonni e genitori che, stando agli Storici (cfr. Focardi F., Levis Sullam S.), non furono pochi. Forse, tra coloro a cui offriamo l’ascolto analitico, vi è qualcuno che, fin da bambino, ha vissuto sulla sua pelle (psichica) il “potere distruttivo dei segreti e dei silenzi” (160)? Ciò che viene trasmesso da una generazione all’altra è una eredità emotiva (cfr. Freud, 1921): in che misura affetti come la vergogna e/o la rabbia per la perdita di potere e del prestigio sono stati tramandati dai fascisti di allora ai figli e ai nipoti andando a far parte, segretamente, del mondo interno di alcuni italiani di oggi?

Quando la protagonista chiede conto di quel ‘Benito’, Ferruccio fa orecchie da mercante e un po’ mente. Poi fa qualche ammissione. Racconta di aver saputo del passato del proprio padre solo a 17 anni, quando quest’ultimo si presentò alle elezioni politiche nelle liste del PNM. Durante un comizio Arturo venne fischiato e attaccato duramente: era sempre rimasto fedele al duce. Tuttavia…: quando   era ragazzino, a otto anni, suo padre venne ‘epurato’ e per lunghi cinque anni la famiglia visse nell’incertezza e, immagino, nella paura e nella vergogna. Quando la protagonista legge il fascicolo relativo al processo del nonno, prova “troppo dolore, troppa vergogna” (228), “la vergogna terribile, e la certezza che in tanti stessero festeggiando quel suo accasciarsi al suolo” (248). Ebbene…: uno dei due assilli/sintomi di Michela (che nel passato è stata anoressica e ha compiuto un serio tentativo di suicidio) è, fin da piccolissima, proprio la vergogna; l’altro è la “ripetizione costante, continua, perenne del [pensare] ‘sono trasparente’ ” (216).

A proposito della vergogna, la protagonista riteneva derivasse della propria ansia di perfezione, ansia a sua volta risultante dalla paura di non corrispondere alle aspettative nei confronti di sé stessa. Dopo la scoperta del segreto, invece, si chiede se la vergogna venga per prima e se l’ansia di perfezione ne sia una conseguenza. La vergogna, si domanda, è “ontologica […] oppure ce la buttano addosso i nostri genitori?” (83). La protagonista sembra optare per la seconda ipotesi: “Ce la si trasmette come una eredità scomoda, con la quale […] qualcuno i conti dovrà pur farli. Anche se la verità storica rischia di sfuggirci. E, la maggior parte delle volte, nessuno saprà mai cosa è successo esattamente” (83). Esattamente no, ma possiamo fare delle costruzioni che rendano ragione di fenomeni e processi psichici complessi e plurideterminati che, a partire dall’infanzia, si sviluppano con il concorso di tutti i componenti dell’ambiente familiare (compreso il soggetto/paziente), di quello culturale, di quello storico. 

Vediamoli, ora, i personaggi dell’ambiente familiare di Michela dove sembrava “di vivere in un acquario” (159) sotto l’onnipresente controllo paterno. Ferruccio, investito fin da piccolo di grandi aspettative da parte di Arturo (“ordinatissimo, al limite del maniacale” (330), attaccatissimo ai figli), durante l’infanzia era stato per la protagonista un modello. Viene descritto come un uomo dal doppio registro: “Quando era sereno inventava filastrocche e rime che oggi, decontestualizzate, possono anche dare un’idea di leggerezza e allegria; quando era teso e nervoso, minacciava, urlava, alzava le mani” (142). Costantemente centrato su di sé, vive da sempre in un mondo tutto suo, sconnesso dal reale; uno che guarda ma non vede, in senso proprio e figurato: “Tu dici una cosa […] Se non si tratta di ciò che sta pensando lui in quel momento, non c’è verso di aprire una breccia all’interno delle sue parole […] come se tu non esistessi. Trasparente. Invisibile. Da bambina ho iniziato a gridare per farmi ascoltare da lui” (281). È autoritario, violento psicologicamente e, col figlio maschio quand’era bambino, anche fisicamente; invidioso della joie de vivre degli altri, è costantemente sprezzante. La madre viene dipinta come succube dello strapotere del marito e incapace di difendere i figli. Il fratello minore di Michela fin da piccolo, a suo modo, si è opposto al padre ad es. non studiando (a costo di essere bastonato col mestolo di legno anche in faccia) o ridendo di fronte alle distruttive esternazioni paterne. La protagonista, di sé, dice “Nonostante i miei venti anni di analisi, continuo a funzionare come un computer: 0/1. Sono clivée” (215).

Uno dei modi ‘scelti’ da Michela per lenire la ferita narcisistica derivante dal non essere amata ‘gratuitamente’ per quello che era ma per quello che faceva è stato – seguendo l’insegnamento paterno di attenersi rigidamente alle regole e di dover essere sempre un passo davanti agli altri per non diventare una fallita – di eccellere negli studi. Ha dovuto corrispondere alle aspettative di un padre che ‘ama’ narcisisticamente i figli principalmente se e in quanto gli danno lustro e di una madre impaurita e incapace di porsi come una valida alternativa al modello paterno. Tutto ciò ci permette di ipotizzare che l’ambiente familiare, così come lo ha vissuto e lo racconta Michela, abbia interferito notevolmente con il suo sviluppo psichico, anche con quello di un affetto così importante e necessario come la vergogna (Munari F., La Scala M., 1995). Quella della protagonista è infiltrata dalla sensazione di non essere mai “abbastanza”.

Però, leggendo e rileggendo il romanzo, mi sono venute in mente alcune domande: i pensieri (e relativi affetti) ‘mi vergogno’ e ‘sono trasparente’ potrebbero ‘tenersi’ a vicenda? Cioè: se il secondo esprimesse un desiderio camuffato, allora il discorso completo potrebbe essere “Desidererei essere trasparente perché, se lo fossi, non mi dovrei vergognare, in quanto eviterei lo sguardo dell’altro su di me”? E se al posto del pensiero “io mi vergogno” si dicesse: “C’è della vergogna” (cfr. Abraham e Torok, 1987, 382)?  E da lì fantastico: una vergogna così tenace, che si esprime con il pensiero – costante, dice la protagonista; ossessivo, traduco io – di ‘essere trasparente’, potrebbe essere considerata anche alla stregua di un assillo nel senso dato da Abraham e Torok? Potrebbe essere la manifestazione di un fantôme

Cito: “Il fantôme è il lavoro nell’inconscio del segreto inconfessabile di un altro (incesto, crimine, nascita illegittima etc.)” (Abraham e Torok, 1987, 335). Esso è un estraneo nell’Inconscio, installato “non per una rimozione del soggetto ma a causa di una empatia diretta del contenuto inconscio o rinnegato (renié) di un oggetto genitoriale. Si tratta cioè di una formazione che non è stata, in quanto tale, il prodotto dell’auto-creazione del soggetto mediante il gioco di rimozioni e introiezioni” (ibid., ed. fr. 439; ed.it. 383). “Il fantôme […] deve oggettivare […] la lacuna che ha creato in noi l’occultamento di una parte della vita di un oggetto amato” (ibid., 370); ciò che viene ad assillare sono le lacune lasciate nel soggetto “dai segreti degli altri” (ibid., 370). E ancora: la legge del fantômeè l’obbligo di nescienza” (ibid., 335) e cioè l’obbligo del ‘sapere non saputo’. Dice Michela: “Scopro che mio nonno è stato uno squadrista […]. Quali parole si possono utilizzare per descrivere quell’attimo in cui hai la certezza che lo sapevi e al tempo stesso non ci credi, perché non vuoi crederci, non è possibile, non è così” (27).

L’assillo è il ritorno del fantôme in parole ed azioni bizzarre, in sintomi (fobici, ossessivi), in alcune “alterazioni corporee non direttamente espressive, ecc.” (Abraham e Torok, 348). Sottolineo l’eccetera. Esso costringe il soggetto a condotte reattive, non direttamente simboliche, con lo scopo di ridurre, per lo meno momentaneamente, il trauma costante rappresentato per l’Io dalla presenza del fantôme” (ibid., 335). Il lavoro del fantôme è “fonte di ripetizioni indefinite” (ibid., 375).

Dicendo “C’è della vergogna” forse si aprirebbe la possibilità di mettere alla prova l’ipotesi che nell’inconscio della protagonista alberghi, fin da piccolissima, un elemento dell’“inconscio del padre o della madre, in cui sono inscritte le loro paure inespresse, le loro apprensioni, le cause della loro schiavitù, le loro manchevolezze nascoste. Proprio quello che fa sì che non siano quegli dèi di unità e coerenza, di temerarietà e potenza che il bambino piccolo desidererebbe” (ibidem, 382). A quest’ultimo proposito guardo in prospettiva le tre generazioni (Arturo, Ferruccio, Michela) e mi chiedo: il crollo improvviso e inaspettato dell’immagine del padre avvenuta quando Ferruccio aveva otto anni ha dato luogo, nel bambino, a sentimenti e/o comportamenti inaccettabili e vergognosi? “Non si è mai vergognato di quel Benito che si portava dentro, traccia indelebile di un passato che non passa mai?”, si chiede Michela quando scopre il segreto (81). Arturo perse improvvisamente e vergognosamente la sua posizione di prestigio con vergogna e infamia. Fantastico che Ferruccio bambino, precipitando insieme al padre dalle stelle alle stalle, possa essersi vergognato. Può aver provato odio per il padre che, con il suo fallimento, lo trascinò con sé, facendolo vergognare davanti ai suoi compagni di scuola e di giochi? Desiderò essere trasparente? Subentrò, immediatamente dopo, la vergogna per aver provato odio per il proprio padre e/o la vergogna per essersi vergognato del proprio padre? Se sì, questi affetti e pensieri inconfessabili furono rimossi? Rinnegati? Oppure il bambino gioì del fallimento paterno, del rivale edipico?  Gioia orribile, ancora più vergognosa della vergogna di aver odiato o di aver provato vergogna di essersi vergognato del padre: la gioia pura del tradimento senza colpa e pietà? Sta di fatto che, da adulto, il personaggio Ferruccio consciamente non contempla, tra i sentimenti ammissibili in Michela (considerata narcisisticamente come parte di sé) la vergogna: “La vergogna non ha senso, insisteva mio padre quando ero piccola e gli dicevo che mi vergognavo. Quando ci si comporta bene non c’è motivo di provare vergogna. Hai fatto qualche cosa di male?” (82). È lecito pensare che, grazie alla comunicazione tra inconsci ipotizzata in primis da Freud fin dall’epoca di Totem e tabù (1912-13), il segreto di aver provato una ‘vergogna vergognosa’ sia transitato dall’Inconscio paterno all’Inconscio di Michela? Che ‘la vergogna che non passa’ sia, con il suo potere alienante, quella del padre? 

È possibile. Ma occorre una verifica che il romanzo non ci può dare: la potremmo avere solo con l’analisi del transfert. Come dice Faimberg, il segreto   si coglie nel transfert quando compare, nella storia del paziente, un elemento ancora non rivelato utile per risolvere un enigma posto dal transfert stesso (cfr. H. Faimberg, 2006). Con l’analisi del transfert, dunque, e con quella del linguaggio usato dal paziente: e, da là, con il lavoro della costruzione. “Il fantôme non può neppure essere riconosciuto dal soggetto in una esperienza di evidenza […], e in analisi può solo essere oggetto di una costruzione […]; la costruzione così ottenuta non riguarda direttamente la topica [del soggetto] ma quella di un altro. La difficoltà specifica di queste analisi dipende dall’orrore di spezzare il sigillo di un segreto genitoriale o familiare così rigorosamente mantenuto, un segreto il cui esatto contenuto è tuttavia inscritto nell’Inconscio. All’orrore della trasgressione propriamente detta, si aggiunge il pericolo di attentare all’integrità fittizia ma necessaria della figura parentale in questione […]. La comparsa del fantôme indicherebbe […] gli effetti sul discendente di quanto aveva rappresentato per un genitore una ferita o persino una catastrofe narcisistica” (Abraham e Torok, 373-4).

Spezzare il sigillo significa individuare le identificazioni alienanti, quelle tramite le quali “una parte scissa dell’Io del paziente è identificata con la logica narcisistica dei genitori secondo la quale: ‘Tutto quello che merita di essere amato sono io, benché venga da te, figlio. Ciò che riconosco come proveniente da te, il figlio, lo odio’ ” (Faimberg H., 2006, 30). Esse sono quelle che – e qui la protagonista del romanzo fa riferimento proprio a H. Faimberg – “possono avvelenare la nostra esistenza. Ci sono ‘oggetti storici’ che ci portiamo dentro anche in assenza di ricordi. E che ci spingono a trasformare in evento ciò che ci ha preceduto” (384).

Come dicevo, l’utilità di ricorrere ad un testo letterario per affrontare il tema del segreto mostra i suoi limiti. Ma il romanzo ha il vantaggio di mettere in evidenza, senza ricorrere a esempi clinici assolutamente non divulgabili, quello che il Ventennio e il successivo “mito degli italiani brava gente”[3] (cfr. Del Boca A., 2005) continuano ‘a fare’ a una parte degli italiani e, specificatamente, a coloro con una dinamica familiare funzionante secondo una regolazione narcisistica. A causa del mito non è stato possibile elaborare a sufficienza non solo ad es. la responsabilità degli italiani nei confronti della persecuzione, prima dei beni e poi delle vite, degli ebrei ma, a mio parere, nemmeno la pesante eredità morale, storica, politica, etica, psicologica lasciataci da lungo periodo fascista nel suo insieme. Come mai nella Legge italiana che nel 2000 istituì la Giornata della Memoria non compare la parola fascismo? L’effetto fantasma, scrivono Abraham e Torok, si attenua progressivamente nel corso della trasmissione da una generazione ad un’altra finendo per spegnersi; questo però non avviene “quando fantasmi comuni e complementari vengono ad istituirsi nella vita sociale, nel modo della parola agita […] un tentativo di esorcizzarla, cioè per alleggerire l’inconscio mettendo in comune i suoi effetti” (ibid., 377). Mi chiedo: il mito (con le sue parole) degli ‘italiani brava gente’ sostenuto anche dai fascisti del dopo guerra più o meno riciclati, mito che ancora alligna tra noi, può aver prolungato ‘l’effetto di fantôme’ nella misura in cui un mito “serve a camuffare il desiderio e insieme a realizzarlo” (ibid., 127), ove il desiderio è quello di mantenere intatto il narcisismo nazionale?  Ipotizzo di sì.  Ad ogni buon conto credo sia utile tener presente che tale effetto non si è ancora spento e che sia necessario stare all’erta: può succedere che un fantôme si presenti in seduta. Se siamo aperti a questa possibilità potremmo allora ascoltarlo “al fine di rimetterlo al suo vero posto, cioè nell’Inconscio dei genitori” (ibid., 389-90) o dei nonni.

 

Bibliografia

Abraham N., Torok M. (1987). L’écorce et le noyau. Paris, Flammarion; ed. it. La scorza e il nocciolo. Roma, Borla, 2009.

Del Boca A. (2005). Italiani, brava gente? Un mito duro a morire. Vicenza, Neri Pozza Editore.

Faimberg H. (2005). Ascoltando tre generazioni. Legami narcisistici e identificazioni alienanti. Milano, Franco Angeli, 2006.

Focardi F. (2013). Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale. Bari-Roma, Laterza.

Freud S. (1912-13). Totem e tabù. O.S.F., 7.

Munari F., La Scala M., (1995).  Significato e funzioni della vergogna. Riv. di Psicoanal., 41(1):5-27.

Levis Sullam S. (2014). I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945.Milano, Feltrinelli.

Marzano M. (2021). Stirpe e vergogna. Milano, Rizzoli.

 

NOTE

[1] D‘ora in poi i numeri tra parentesi senza altri riferimenti sono relativi a questo testo.

[2] Come l’A. stessa specifica “un romanzo che poi forse anche un po’ la storia della nostra Italia” (2021, 385). Specifico che tutte le mie riflessioni non riguardano la persona della Scrittrice né i suoi Familiari ma esclusivamente i personaggi del romanzo.

[3] Soprattutto al fine di evitare una pace punitiva e di placare gli animi degli italiani, al “mito dell’italiano brava gente” concorsero, nell’immediato dopo-guerra, tutte le forze politiche, una parte della diplomazia, dell’esercito, delle amministrazioni statali al fine di prendere le distanze dal fascismo. Esso veicola l’idea che, a differenza di quello tedesco, il popolo italiano nel suo insieme, caratterizzato da innata umanità e generosità, non ha avuto, salvo qualche rara eccezione, responsabilità nella persecuzione razziale facendo, piuttosto, tutto quello che poteva per salvare gli ebrei.  Mussolini e i suoi scagnozzi sarebbero stati gli unici responsabili.

 

 

Mariagrazia Capitanio, Venezia

Centro Veneto di Psicoanalisi

mg.capitanio@libero.it

 

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