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Storie di Natale: segreti custoditi e segreti preclusi

di Andrea Mosconi

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Nel 1990, allo scrittore Paul Auster fu commissionato dal New York Times un racconto di Natale.

Lo scrittore consegnò una novella intitolata “Il Natale di Auggie Wren”  e ambientata nella vecchia Brooklyn, con due protagonisti: lo scrittore Paul Benjamin (alter ego di Auster), in crisi di ispirazione giusto per un racconto di Natale che gli era stato commissionato dal Times, ed il tabaccaio  Auggie – Wren, appassionato di fotografia, che gli confida un  segreto, raccontandogli del Natale in cui  era venuto  in possesso della sua prima  macchina fotografica, attraverso un modo che ancora, a distanza di anni, gli procura disagio e  vergogna.

Dunque durante l’estate di molti anni prima un ragazzo aveva compiuto un furto nel suo negozio di tabaccaio; lui se n’era accorto e lo aveva inseguito senza peraltro raggiungerlo. Ma nella fuga il ladro perde il portafoglio con tutti i suoi documenti; Auggie lo raccoglie e se lo porta a casa. Per mesi vorrebbe andarlo a riconsegnare, ma solo a Natale riesce a prendere questa iniziativa. All’indirizzo indicato nei documenti gli apre una donna vecchia e cieca che scambia il tabaccaio per il proprio nipote.

Il testo della novella ovvero il racconto-confessione che il tabaccaio fa all’amico scrittore inizia proprio con l’incontro tra la nonna Ethel e Auggie, la vecchia signora apre la porta dopo qualche tempo da suono del campanello, abbraccia il tabaccaio affettuosamente come se fosse il nipote e quest’ultimo, dopo qualche esitazione e forse per non dispiacerla, sta al gioco di finzione senza regole che entrambi avevano deciso di interpretare. Passarono la giornata insieme, alle domande della nonna il nipote-Auggie rispondeva mentendo, raccontando storie simpatiche e rassicuranti sul suo conto e la vecchia signora si comportava come se credesse ad ogni cosa. Quando la fame si fece sentire Auggie si recò in un negozio della zona e comprò molte cose da mangiare e, con le bottiglie che la nonna teneva nascoste in camera, fecero una dignitosa cena di Natale.

 

Il vino non tardò a fare il suo effetto, i due un po’ alticci, si accomodarono in sala per proseguire la loro piacevole conversazione con delle sedie più comode, fino a quando il nipote-Auggie chiede di poter andare in bagno.

           

Dovevo fare pipì, quindi mi scusai e andai nel bagno in fondo al corridoio. Questo è dove le cose fecero una nuova svolta. Era già abbastanza sciocco fare questo gioco del nipote di Ethel, ma quello che feci dopo fu assolutamente folle e non mi perdonerò mai per questo. Vado in bagno e ammassata davanti al muro vicino alla doccia, vedo una pila di sei o sette macchine fotografiche. Nuove trentacinque millimetri, ancora nelle scatole, merce di prima qualità. Immagino che quello è opera del vero Robert, un magazzino per i suoi ultimi furti… nel momento in cui ho visto quelle macchine in bagno, ho deciso che volevo averne una per me. Così. E senza neanche fermarmi a pensarci, ho preso una di quelle scatole sotto il braccio e sono tornato in salotto. Non dovevo essermi assentato per più di tre minuti, ma in quel tempo nonna Ethel si era addormentata nella sedia… Non c’era nessun motivo per svegliarla così decisi di andare.

                       

Questo è il racconto con cui il tabaccaio rivela il suo segreto all’amico. Aggiunge che mesi dopo sentendosi a disagio per il furto, era tornato per riconsegnare la macchina fotografica, ma c’era un altro inquilino e di nonna Ethel non c’era più traccia.

L’amico cerca di alleviare il senso di colpa di Auggie ipotizzando che la donna sia morta e che in fondo lui abbia fatto una buona azione facendole passare in serenità quello che probabilmente era stato il suo ultimo Natale. Ecco il dialogo conclusivo tra i due amici:

           

È stata una buona azione, Auggie. È stata una cosa carina che hai fatto per lei.” “Le ho mentito, e dopo ho anche rubato da lei. Non vedo come tu puoi chiamarla buona azione.

L’hai fatta felice. E le macchine erano in ogni caso rubate.”

“E ora hai la tua storia di natale, no?” “Sì,” dissi. “Penso di sì.”

“Mi fermai un momento per studiare Auggie mentre un ghigno malizioso si apriva sul suo volto. Non potevo esserne sicuro, ma i suoi occhi in quel momento apparivano misteriosi, così carichi di una specie di bagliore interiore, che improvvisamente mi venne in mente che avesse costruito tutta la storia. Ero sul punto di chiedergli se mi stesse raccontando frottole, ma poi mi resi conto che non lo avrei mai fatto. Sono stato convinto a crederci e questo era l’unica cosa che contava. Fino a che c’è qualcuno che ci crede non esiste storia che non può essere vera…”

                       

Sono partito da questa storia di Natale perché bene centrata sulla tematica del ‘segreto’; nel racconto infatti ci sono vari segreti: c’è un ‘segreto’ principale, quello del furto, a lungo custodito e finalmente svelato; questo, lasciando il dubbio sulla sua veridicità, continua ad alimentare un clima di segretezza, creando un nuovo segreto, un secondo segreto.  E prima ancora dei segreti nello scambio tra i due amici, c’è quello del segreto-bugia di Auggie nei confronti della anziana donna cieca.

Un gioco illusorio, in cui entrambi i personaggi recitano una parte, con maggiore consapevolezza il finto nipote, detentore del segreto della finta identità, con un sapere forse inconscio, all’interno un bisogno di autoinganno, la nonna. Vorrei fare una prima osservazione avvicinando il gioco affettivo fra Auggie e l’anziana a una situazione transferale. Nell’immediatezza dell’incontro Auggie, il tabaccaio di Brooklyn e la nonna Ethel diventano simbolicamente nonna e nipote; afferma infatti Auggie: “Era come un gioco che entrambi avevamo deciso di fare senza dover discutere delle regole. Voglio dire, quella donna sapeva che non ero suo nipote Robert” Anche il transfert in fondo è una finzione in cui però i sentimenti sono autentici e in cui il paziente fa incarnare, più o meno consapevolmente all’analista, il personaggio di una figura familiare significativa. Questo fino a che attraverso l’interpretazione non avviene il disvelamento: “questo in realtà è quello che lei provò a suo tempo nei confronti di…”

                         

Come seconda osservazione differenzierei poi un segreto confidato perché venga ‘custodito’, come quello che Auggie confessa all’amico, e aggiungerei a un buon amico, una persona fidata (così come l’analista per il paziente), da un segreto che viene ‘precluso’ a tutti. Beninteso, entrambi i segreti sono accumunati dal ‘peso’ della cosa o del fatto che esso viene tenuto nascosto, ma ben più pesante sarà il segreto che non si rivela a nessuno, che sarà portato nella tomba.

È un’esperienza profondamente liberatoria quella della condivisione: qualcosa di inconscio e di traumatico trova la via della scarica emozionale (penso all’abreazione descritta da Freud); in fondo un segreto nascosto ha in sé le caratteristiche di un trauma che una volta confessato-abreagito, diventa ‘mezzo’ segreto, dato che l’altra metà è affidata all’oggetto che ne diventa depositario.  

Per quanto riguarda il segreto precluso, mai rivelato all’altro o il segreto reciprocamente precluso all’altro nel contesto di un gruppo familiare, esso può essere mantenuto perché funzionale alla sopravvivenza psichica del gruppo stesso: parlerei di una sorta di ancoraggio-appoggio su cui regge un teatro familiare fatto di mistificazioni, dove rimane il ‘peso’ di quanto viene nascosto, che, non potendo essere abreagito attraverso le parole della rivelazione, viene agito dai membri. Nel corso dell’analisi della bambina di cui vi parlerò, l’impressione era che la finzione finisse per diventare la realtà della famiglia, una realtà supportata dal diniego e dalla scissione, una storia, che in parte possiamo ritrovare nella costruzione reciproca di  Auggie e nonna Ethel, dove Auggie sa di non essere il vero Robert mentre la donna conosce il segreto forse solo con una parte scissa di sé, tenuta separata per potersi concedere l’illusione di passare un  Natale riscaldato da un affetto familiare.

Il segreto condiviso omertosamente all’interno della famiglia, ma che uno dei membri, in genere i figli, conosce solo con una sua parte scissa, non può essere confidato e l’energia pulsionale non può essere scaricata che attraverso un’aggressività agita.  Anche il gioco della forse finta confessione fra i due amici prefigura un segreto condiviso, ma si diversifica dalla situazione precedente perché ha una funzione creativa. È un gioco adulto fatto di parole (libere associazioni) la costruzione della storia raccontata dal tabaccaio di Brooklyn all’interno della relazione fra i due amici, mentre nel caso che vi presenterò il segreto ‘omesso-precluso’, si traduce in una storia denegata dove manca il piacere del gioco, dove le parole perdono la loro funzione creativa.                     

Per me analista partecipare alla finzione ha significato colludere consapevolmente con Nada e la sua famiglia e comprendere che l’impotenza che sentivo era quella vissuta dalla mia giovane paziente. 

Nel lavoro clinico, è stato, e sento che è ancora importante “stare al segreto e prendere parte al segreto” nella forma agita dalla famiglia, dove c’è una forma di svelamento che avviene a livello inconscio e all’analista tocca il compito di mettere parole che possano avere una funzione creativa.               

Ho seguito Nada in un percorso di analisi a tre sedute settimanali dai 10 ai 15 anni. Venni contattato a pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico (quinta elementare); la madre era preoccupata della situazione perché più volte chiamata dalla dirigente del comprensorio scolastico, perché la bambina era aggressiva, usava un linguaggio poco adeguato (parolacce) e usciva dalla classe durante le lezioni.                                              

La fase di consultazione con i genitori mise in evidenza un legame della bambina con la madre, caratterizzato da momenti di intensa complicità dove il padre, anche per la sua difficoltà ad entrare in relazione con Nada, pareva escluso ed esautorato.                 

I primi due anni di analisi furono caratterizzati da un’intensa attività di contenimento, dove venivo ingaggiato simbolicamente in un ruolo di madre che deve accogliere gli attacchi della sua bambina: Nada usciva ripetutamente dalla stanza, si nascondeva in quella degli adulti e nel bagno faceva la cacca fuori dalla tazza, sporcando più che poteva dappertutto.

Spesso arrivava in seduta molto trascurata, sbatteva le scarpe infangate sul pavimento, ruttava ed emetteva flatulenze senza ritegno, lasciandomi sulle prime come basito. I miei tentativi di mettere parole apparivano vani…

Nondimeno l’analista ‘gabinetto’, anche nel vero senso del termine, pareva mano a mano costruire, resistendo, una dimensione di fiducia, che permetteva alla giovane paziente un abbozzo di interiorizzazione del limite, sentendo che un adulto era veramente preoccupato per lei.

Quando entrammo nel lockdown e proposi il lavoro da remoto i genitori si attribuirono vicendevolmente la richiesta di interrompere le sedute, dando la sensazione di non considerare la possibilità di lavorare con altre modalità: venivo ingaggiato in un ‘gioco’ di complicità tra di loro, fatta di smentite e contraddizioni reciproche che non lasciavano spazio di parola.

Il lavoro da remoto si mostrò da subito complicato: la giovane paziente sembrava agire le resistenze dei genitori, riproponendo in seduta, in modo inconsapevole, il clima nascostamente ostile che sentiva proposto dalla madre e dal padre: talvolta la madre le serviva il pranzo nel corso del lavoro clinico, altre volte il telefono era rotto o le era stato ritirato dai genitori e mi trovavo costretto a chiamarli perché Nada non chiamava e non rispondeva.

L’acme nel boicottaggio dell’analisi avvenne quando la madre lasciò uscire la figlia con le amiche in orario di seduta, nel parco davanti a casa, in fase di conclusione della quarantena.

Sentivo un’alleanza familiare ostile che rendeva complicato lavorare in remoto e che svalorizzava l’analisi della giovane paziente.

Per circa tre mesi il lavoro clinico è stato intermittente; ciò nonostante il mio proposito era di mantenere il contatto per sostenere il legame. Nada ha alternato momenti in cui è apparsa più calibrata alla nuova modalità di lavoro, ad altri dove metteva in sospensione la telecamera rendendo la comunicazione complicata. Quando le cose a casa erano difficili la sua richiesta di vicinanza regressiva si è fatta sentire: è capitato che mi chiedesse di cantarle la ninna nanna, per poi addormentarsi nel bel mezzo della seduta.

Quello della ninna nanna è una sorta di rituale che aveva caratterizzato già parte delle fasi iniziali dell’analisi, circa due anni, alternata alle modalità provocatorio-aggressive: un’area di tenerezza, dove Nada poteva ricevere un parziale risarcimento di quanto forse non aveva potuto sperimentare nella sua prima infanzia a causa di un precoce inserimento al nido e al frequente affidamento a varie baby sitter che continuamente cambiavano.

Nada, quando si addormentava, ed accadeva molto presto dal momento dell’intonazione della ninna nanna, sembrava trovare un ritiro regressivo che aveva la funzione di ricarica narcisistica: una via intermedia tra fusione e differenziazione, garantita dalla presenza affettuosa dell’oggetto, sotto un’ala protettiva che le permetteva di conservare il senso di sé. Mi sono davvero trovato a dover fare la mamma, dando delle risposte affettive concrete, in una situazione clinica dove talvolta è stato complicato interpretare.

Ma questo mio prendermi cura comprendeva anche qualcosa d’altro, un contenuto che sentivo, ma che non riuscivo a rappresentare, qualcosa che dovevo sorvegliare in me stesso, nel controtransfert. 

I meccanismi di diniego della sofferenza e di incapsulamento del suo passato in un’area scissa dell’Io, manifestati attraverso l’agito e l’impulsività, da un lato avevano lo scopo di eliminare le tracce che l’avevano fatta stare male nell’infanzia, ma forse avevano anche a che fare con un aspetto della realtà attuale che veniva denegata.

Descrivo una seduta dove si evince il clima nostalgico per il rimpianto del passato analitico tra di noi, quando potevamo incontrarci di persona e la necessità inconscia di Nada di mantenere il riserbo sulla sua famiglia, per la sua casa; una necessità di proteggere un’area segreta che veniva acutizzata dalla modalità, altrettanto necessaria, di lavorare in videochiamata, cosa che implicitamente comporta una violazione dello ‘spazio’ domestico e familiare dei nostri pazienti.

 

La madre, fuori città per lavoro, mi comunica che il telefono di Nada si è rotto e che lei e il marito hanno deciso di non prenderne uno nuovo perché la ragazzina lo usa troppo. Propone di usare un dispositivo fisso. 

Dopo alcuni tentativi per connettere i dispositivi che comportano un importante ritardo nell’orario della seduta, riusciamo ad iniziare. Nada è contrariata, sostiene che il padre le ha rotto il telefonino sbattendolo per terra; fin da subito mette in pausa la telecamera e continuiamo la seduta in voce: non vuole vedermi, o non vuole che io veda qualcosa?  Le parlo del momento difficile che sta attraversando nel rapporto con la mamma e il papà e ad un certo punto la ragazza inizia a muoversi perché spaventata da un grande insetto entrato nella stanza: «… non lo voglio in casa!», urla spaventata.

Penso che quell’insetto possa essere un moscone-Mosconi e lo dico a Nada. «Forse», risponde, sembrando comprendere il nesso simbolico che le ho comunicato (la mia “intrusione” attraverso il collegamento da remoto nelle vicende della sua casa, intrusione rappresentata dal fastidioso insetto). Quando le comunico che la seduta è finita, si mostra molto rattristata e manifesta un vissuto di abbandono e verbalizza il rimpianto per le sedute in presenza. 

Poche settimane dopo abbiamo ripreso l’analisi vedendoci di persona; il boicottaggio del lavoro in remoto, se da una parte ha portato un’importante conferma del legame della giovane paziente con l’analista (il suo vivere la distanza come abbandono dimostrava l’investimento nei miei confronti), dall’altra presentificava una qualche preclusione nei miei confronti che a livello controtransferale sentivo.

C’era qualcosa nella casa di Nada che io non potevo vedere e sapere, qualcosa che tutta la famiglia teneva segreto e non voleva che io vedessi-sapessi. In quel momento avrei veramente voluto essere un moscone e non solo Mosconi, per curiosare nelle stanze, ma il pericolo che qualcuno potesse schiacciarmi con la paletta mi dissuase dalla fantasia.

Il successivo incontro con i genitori, incontro che di solito avveniva in un clima cordiale e apparentemente collaborativo, ma in realtà ambiguo e sfuggente, mi permise finalmente di avvicinarmi alla dimensione tenuta nascosta dalla famiglia. Dopo i consueti convenevoli, che sento avere l’intento di compiacermi, la madre, molto stanca, sogghignando si rivolge al marito in tono sarcastico, accusandolo di essere sempre fuori casa, lasciandola da sola ad aiutare Nada nei compiti. Il padre usando i toni della signora, sostiene di essere stanco anche lui quando va al lavoro da solo e torna tardi la sera… e che Nada preferisce fare i compiti con la madre.

Vengono descritti episodi di violenza verbale e fisica dove Nada e il papà baruffano e si azzuffano e, quando ciò accade, ogni componente della famiglia si ritira nella propria camera da letto, senza comunicare per giorni.  Comincio ad intuire che nella casa non esiste una camera matrimoniale e che è questo forse che la ragazzina, nelle sedute da remoto, temeva emergesse.

Sento una grande solitudine velata da una superficie di apparente confronto, tuttavia la sensazione che mi rimane è quella di non poter modificare nulla, mi sento impotente e cerco di sollecitare qualche riflessione sulle dinamiche della famiglia. La signora commenta quanto dice il marito e si lamenta del fatto che l’uomo non passa mai del tempo con la figlia, ma lo fa sorridendo, in tono quasi compiacente.

Le comunicazioni del padre sono accompagnate dal sarcasmo e dall’affermare un dato di realtà (il suo essere molto occupato col lavoro) che sembra incontrovertibile; parlando della figlia in modo svalutante e tentando di coinvolgere l’analista in manovre di spostamento della discussione, si rivolge alla mia persona in modo quasi amicale e vagamente allusivo.

Questa coppia sembrava funzionare con un equipaggiamento rodato nel tempo, una complicità misurata, senza scomporsi mai, lasciando intendere delle cose senza mai dichiararle, in una sorta di gioco mistificato dove i due coniugi appaiono lontani fra loro e nello stesso tempo complici. L’intesa sembra legata ad una condivisione della svalutazione nei confronti del lavoro clinico e nel non permettere all’analista di avvicinarsi troppo ai loro vissuti.

Nel mescolare fantasia e realtà Nada sembra portarmi in una dimensione ‘oniroide’ che realizza un desiderio come in un sogno. Questa dimensione creativa, nonostante le resistenze della famiglia, comporta momenti di grande vicinanza, dove la richiesta transferale della giovane paziente spesso rimanda a quella di trovare in me un genitore. In seduta, Nada sembra sentire il tepore della presenza dell’oggetto, condizione che a casa fatica a sperimentare con i genitori: anch’io del resto ogni volta che li saluto dopo la consultazione, sento un importante ‘vuoto’ che immagino possa percepire anche la giovane paziente.

Progressivamente, con Nada, si viene a ‘creare’ un clima di grande vicinanza e autenticità emozionale, dove appare un buon contatto con la realtà delle proprie emozioni.

Contemporaneamente, la comunicazione verbale, spesso costituita da bugie e mistificazioni, attesta la riproposizione del clima fasullo e di falsità dei genitori che mi ha fatto pensare alla protezione reciproca di un segreto familiare: Nada sente che a casa sua c’è qualcosa che non va, ma che non può portare alla consapevolezza. Una situazione negata che avverto come analista e a cui per il momento devo compartecipare.

L’accesso alle ‘stanze’ della casa che mi viene precluso dai genitori e inconsapevolmente da Nada, si aggiunge nell’analisi alla persistente resistenza della giovane paziente a parlare di quanto accade nella sua famiglia.

Via via si fa strada in me l’ipotesi che la preclusione che sento possa dipendere dal legame fra i genitori,  che l’unione di quest’ultimi regga sull’occuparsi di far crescere la figlia e che ognuno abbia una vita separata: questi genitori che non fanno mai le vacanze insieme, che quasi sempre passano i fine settimana separati e in città diverse, che non stanno mai entrambi con Nada, che non condividono nulla, né tempo, né interessi, né una funzione genitoriale condivisa, né tanto meno un’intimità, sembrano proprio non essere una coppia. 

Riporto un altro momento di lavoro clinico con i genitori, dove emerge il mio tentativo di capire cosa li ha uniti e li unisce e le difese che si attivano nella protezione di un segreto precluso all’analista, sia da parte loro, sia da parte della bambina che con una qualche parte di sé lo conosce.

Siamo a ridosso del Natale, prossimi all’interruzione per le vacanze. Contatto i genitori perché preoccupato da una regressione di Nada: ha ripreso ad essere violenta verbalmente e fisicamente, cosa che da molto tempo non si presentava. Nel corso della seduta la madre mi comunica che anche la scuola l’ha contattata perché la figlia si comporta molto male. Chiedo ad entrambi se a casa sia capitato qualcosa che possa aver angosciato la giovane paziente, che la mia sensazione è che manchi qualcosa, qualcosa che non riesco a capire. Il padre, dopo il consueto tentativo di depistaggio compiacente, sembra ricordare che qualcosa è cambiato: da sempre per motivi di lavoro si alternano nella presenza a casa durante i fine settimana, ma recentemente durante i fine settimana in cui lui è assente un’amica della madre sta a casa loro e dorme in camera con la signora. Forse Nada è gelosa…

Sono solo in parte stupito dalla comunicazione del papà e cerco di capire con loro questa nuova situazione familiare. La signora racconta che da molto tempo, non ricorda da quanto, lei e il marito dormono in camere separate. Lei da qualche tempo ospita questa amica, del resto il padre si ferma spesso in centro Italia da un amico per lavoro. Sento un evidente imbarazzo del papà che, come di consueto, ‘sposta’ la conversazione sostenendo che le cose nei matrimoni vanno così, che il lavoro implica dei sacrifici, che finiscono per allontanare le persone, ma che garantiscono un buon tenore di vita alla famiglia…

Penso che non sia il caso di approfondire ulteriormente la cosa; la comunicazione fra di loro sembra essere paralizzata, mi limito a raccomandare che sarebbe importante parlare con Nada di questa nuova presenza in famiglia.

Così questa apertura sul loro mondo privato viene subito frettolosamente chiusa, ma avverto in qualche modo confermata, dopo questo incontro la sensazione che un po’ alla volta aveva preso forma dentro di me: questi genitori fanno una vita completamente separata, hanno una vita sessuale, probabilmente con partner dello stesso sesso, al di fuori della coppia e il matrimonio sembra sia stato funzionale solo alla possibilità di avere un figlio e di costituire una famiglia tradizionale.

Questa ‘storia’, quella che mi viene raccontata dai genitori di Nada, non è proprio una bella storia di Natale: le parole sono poche e non aprono, sembrano non avere la possibilità di una funzione abreativa e tanto meno creativa; viene a mancare quel clima di fiducia dove un segreto può essere depositato nell’altro, dove il peso viene condiviso.

Per Nada sarà importante in futuro avere l’occasione di parlare apertamente in analisi della sua famiglia e dei suoi conflitti, ma prima dovrà imparare, con l’aiuto dell’analista, ad osservare quanto accade per capire cosa davvero succede tra i suoi genitori: questo può accadere se il lavoro clinico riuscirà in parte a riempire il vuoto interno.

L’ombra di un segreto familiare grava sulle sedute, ma la rivelazione a sé stessa e all’analista da parte della giovane paziente avverrà se e quando Nada si sentirà legittimata a poter parlare dei genitori senza per questo pensare di tradirli, col rischio di perdere quella parte di affetto che comunque da loro le arriva.

Le banalizzazioni difensive della madre e del padre sembrano avere lo scopo di proteggere se stessi dall’angoscia e dalla paura di non sapere come gestire la figlia, soprattutto se proiettati nel futuro e la conflittualità-lontananza fra i coniugi di cui non si può parlare, ma che si affaccia nelle sedute di consultazione, diventa una complicità che li lega nel non dire niente, nel mantenere questo segreto: una sorta di ‘contratto coniugale’ dove viene nascosta un’unione di facciata.

Penso che parte del mio lavoro sia proprio quello di poter accettare e contenere la modalità di funzionare di questi genitori.

Tollerando la loro potenza-impotenza e rivivendola nel contro-transfert accompagno Nada a pensare che è possibile farcela nonostante tutto, accettando di prendere dai genitori quel che sono in grado di dare.

I miei tentativi di inviare i genitori   finora sono stati vani.

Andrea Mosconi, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

mosconi.cabianca@gmail.com 

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