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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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I molti volti del segreto

di Carla Busato Barbaglio

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A seguito della richiesta della dottoressa Fattori, di mettere per iscritto l’intervento da me proposto al gruppo Gaia sul tema del segreto, ho pensato a lungo come introdurlo essendo un tema complesso. Mi è tornato alla mente un mio articolo del 2011 dal titolo ‘Abitare l’incontro’ e ho pensato che l’inizio di quell’articolo mi avrebbe aiutato a entrare nel merito della mia riflessione.

E’ un racconto dei Chassidim di M.Buber “Mio nonno era paralitico. Un giorno gli chiesero di raccontare la storia del suo maestro, il grande Baal Shem: allora raccontò come il santo Baal Shem, mentre pregava, avesse l’abitudine di saltare e di ballare. Mio nonno si alzò e raccontò; la storia lo eccitò a tal punto da mostrare, saltando e ballando, come avesse agito il maestro. Da quel momento egli fu guarito. Questo è il modo di raccontare storie.” A me questo racconto immediatamente fa pensare alla relazione, alla sua qualità e alle potenzialità che può mettere in atto. Il nonno della storia ballava come aveva fatto il suo maestro con il quale aveva evidentemente stabilito un livello di intimità e fiducia tale che la forza della relazione e della memoria di vita- narra il racconto-lo guarisce. Questo introduce il mio interrogativo di fondo: quanto un segreto che interviene in un ballo o nel lasciarsi andare al ballo, cioé nella relazione, può creare distorsioni alla comunicazione, fantasie spiazzanti, paure innominabili o altro, come un fantasma che, come dice la Fraiberg, entra nella stanza dei bambini e dovrebbe essere cacciato, perché possa riprendere la danza e nella danza la guarigione o lo stare meglio? A volte sono consegne trasgenerazionali, a volte segreti che per vari motivi vagano come fantasmi rendendo così complessa la crescita. Parlerò quindi dei segreti che rendono difficile quella che Stern e Tronik chiamano la “danza relazionale”, che in certe situazioni diventa addirittura impossibile.

Partirò da una mail inviatami da una collega che molto mi ha dato da pensare e non certamente perché come psicoanalisti, siamo ‘maestri santi’, ma perché anche i nostri vissuti entrano nella stanza di analisi creando a volte inciampi alla stessa danza analitica. Sono alcuni stralci scelti di una lunga lettera   nella quale la collega si chiede, con un certo tormento, se dire della sua malattia, il covid, ai pazienti.

 

Io posso scegliere di non dire nulla e così nel SILENZIO nascondo la mia VERGOGNA e non perdo la FIDUCIA.

Ed invece scelgo di PARLARE, di non avere VERGOGNA di essere positiva e di poter con l’apertura conquistare/mantenere la FIDUCIA dicendo la verità.

Non si può mentire, non si deve mentire…io non mi devo nascondere se sono affetta ‘dalla malattia del secolo’, ma devo dirlo perché dirlo protegge l’altro e la verità protegge la mente e la relazione, perché l’altro non si ammala e tu non ti ammali nascondendoti nella omissione e nella bugia. La stanza di analisi che prima di tutto è la mente, ed il campo analitico che è la relazione tra analista e analizzato, deve avere la verità come caposaldo…

Io non dico nulla ma al paziente arriva che io stia omettendo qualcosa, lo stesso paziente al quale chiedo sincerità, lo stesso paziente che conosce il mio volto, che conosce il mio timbro di voce e che sa ogni mio gesto, ogni mio rituale di quando la seduta inizia e di quando termina, che inconsciamente sono certa che per un po’ cambierà.

Corro il rischio di diventare quel genitore che si vergogna del figlio, di colludere con quel genitore che non si fida delle capacità del figlio di sopportare, di colludere con quel genitore interno che non ammette la sua vulnerabilità?

Che progresso posso garantire se sono la prima io a vacillare in questo?

Che uso faccio della mia onnipotenza?

Ho deciso che lo dirò ai miei pazienti, pronta ad affrontare tutte le domande e tutte le perplessità e tutte le scelte che loro faranno, credo che anche questo sarà il tema dell’analisi.

E come mi sentirei se il mio analista non me lo dicesse?

Mi dispiacerebbe non perché non mi sentirei protetta, perché certa che il mio analista mi proteggerebbe e mi rivedrebbe una volta guarito, ma mi dispiacerebbe perché una dimensione così particolare come quella che stiamo vivendo non può essere un tema di esclusione. Non si può escludere la paura perché esiste, di certo meno della prima ondata perché siamo vaccinati e questo mi sta dando la certezza che il corteo dei sintomi che ho e la sua intensità varia proprio perché vaccinata, ma la paura esiste. È la paura del non sapere, perché come sempre: non serve solo leggere serve vivere le realtà. Se il mio analista mi avesse raccontato la sua esperienza non avrei sentito di valicare il limite che in analisi non si valica, ma avrei sentito la condivisione di una realtà condivisa che mi auguro non si viva mai più ma che non verrà mai dimenticata e che ha ridotto alle volte quella soglia di distanza che esiste tra analista ed analizzato.

Quella soglia che ha fatto sentire una vicinanza umana della quale in questi momenti si deve beneficiare. Anche questa è analisi…è condivisione, è comprensione aldilà della scienza e dei libri, è essere tutti umani.”

 

Uno stralcio questo di una lunga riflessione estremamente interessante fatta da questa collega che a mio avviso porta direttamente al cuore del problema che riguarda la famosa danza relazionale e di come essa funzioni. La danza relazionale ha a che fare con madre e bambino, ma anche con la coppia, e poi, come visto dalla lettera, con la relazione paziente-analista, ma aggiungerei pure con ogni relazione che aiuta la nostra vita a essere più buona, nel senso del libro di Music, e con maggiori capacità di intimità. Come il tema del segreto   può funzionare all’interno di un tentativo di danza relazionale, operazione sempre estremamente complessa che si sviluppa attraverso tentativi ed errori?  Che cosa può produrre un segreto in una relazione? Come può essere fonte di incontro o di non incontro? Come può operare nel mantenere e rinnovare parti dissociate di sé? Sempre un segreto è dicibile? Oggi i segreti si connotano diversamente?

  

Mi viene in aiuto per questo un bel capitolo di Hill dal libro ‘Teoria della regolazione affettiva’ che riguarda la regolazione interattiva, la sintonia vitalizzante e l’emergere del sé. In questo capitolo il tema della sintonizzazione, diventa centrale. Si dice infatti che stati duraturi di sintonizzazione agiscano da catalizzatore per l’emergere di un sé coerente di tonalità positiva e aggiungerei non solo relativamente ai rapporti che hanno a che fare con la crescita, ma anche ai rapporti tra adulti che condividono la vita. Si parla di bioritmi co-sincronizzati e che questa sincronizzazione reciproca stabilisce un appaiamento psicobiologico che genera curiosità e carica positiva.   Tutto questo ha a che fare con il lavorare nella linea della continua ricerca di sintonizzazione. È da chiedersi allora che spazio può prendere un segreto che entra nella relazione cambiando inevitabilmente la qualità di ciò che passa dall’uno all’altro, diventando parte di una condivisione al di là delle parole; e quale funzione può avere? MI riferisco ad un conoscere che va oltre la comunicazione verbale che è fatto delle sensazioni che sono oltre la parola.

Ripenso in questo senso alla lettera inviatami dalla collega che al di là della scelta del dirlo o non dirlo, ci segnala l’importanza di come venga vissuto il segreto, la qualità della sua portata.

In che modo l’esperienza di intimità analista paziente ne poteva essere contaminata?  Credo sarebbe riduttivo affermare un’unica linea interpretativa dei funzionamenti, anche perché le declinazioni dei vissuti relativi ai segreti possono essere veramente infinite.  Dai lutti- se è il caso o no di dire, o quando dire- a una infinità di segreti familiari innominabili che pure fanno parte di comunicazioni a volte possibili e a volte necessariamente protette. Un non detto che abita la storia o- come dicevo nel titolo del mio articolo- un non detto che abita l’incontro. Penso a Lina, una mia paziente adolescente di 16 anni filiforme, nel senso di quasi trasparente anche se di un trasparente bello, aggraziato, ricco di colori nel vestirsi e con una levità che subito mi colpisce.  Sin dal suo entrare nella stanza mi fa percepire fortemente una evanescenza, come se per lei non esistesse un luogo di radicamento e anche per me lei fosse imprendibile.  Per un lungo tempo il suo arrivo si connoterà in me come l’arrivo di una fatina-fantasma con la sensazione precisa che se l’avessi stretta nelle mie mani non sarebbe rimasto nulla, lei sarebbe svanita.

Lina è la figlia sofferente di due genitori separati e perennemente in guerra.  La risposta al mio interrogarmi sulla sua evanescenza l’avrò quando in un incontro con loro, per una questione complessa di gestione, e con il permesso-accordo di Lina che non vorrà partecipare all’incontro, saprò che Lina aveva una sorella gemella che per una serie di problemi era morta in utero alle 23 settimana. Cosa mai detta, un segreto che aveva creato una serie di incomprensioni sempre più gravi all’interno della coppia stessa, con tradimenti e alla fine la rottura. Per Lina un esistere senza esserci fino in fondo come se fosse sempre alla ricerca di una parte mancante di sé, un senso di sé dimezzato.  La rivelazione avuta nell’ incontro con i genitori ha inevitabilmente modificato il mio sguardo su Lina, consentendomi di vederla e   pensarla più esattamente: ero in grado di dare   un nome ad alcune sue emozioni che mi arrivavano forti, espresse solo con il corpo, ma non ancora dicibili. Quali memorie di condivisione hanno preso vita in quei sei mesi con la sorella, nei movimenti, nel contatto con cavità e sporgenze diverse?

Una ricerca di Gallese data l’inizio della relazionalità tra gemelli tra la 14a e la 17a settimana di gestazione in cui essi passano da movimenti auto diretti a movimenti etero diretti che evidenziano un toccare il naso, gli occhi la bocca dell’altro: un inizio di esplorazione.

L’armonia del sentirsi, del vivere assieme, la danza relazionale iniziata, improvvisamente si trasforma nell’esperienza del silenzio, dell’essere sola: diventa così un qualcosa che si è interrotto e che segna i suoi passi prima ancora che diventino passi reali.

Per la prima volta dopo 16 anni i genitori sono riusciti a parlare anche tra loro di questo, in uno spazio di incontro nel quale il dolore della madre, la sua difficile accettazione di quella fine, avevano potuto trovare finalmente un ascolto attento.  Fino a quel momento il suo dolore non era mai stato considerato, ma letto solo come un suo problema depressivo. Uno spazio nel quale il parlare di quella lontana esperienza, un ri-guardarla, ma assieme per la prima volta, ha modificato lo stesso modo di contattarsi della coppia. Con il permesso di Lina e in sua presenza li vedo tutti assieme, finalmente parte di una storia comune, dopo che per lunghi anni non era stato possibile per loro stare assieme in modo sano. Si erano trovati tutti tre a vivere una storia all’interno della quale avevano sperimentato modi non sani di condivisione, una storia che, anche se ormai lontana, nel nostro parlare insieme torna a far parte del nucleo familiare in altro modo e ha il potere di rendere   più chiari e dare voce ad una serie di malesseri mai compresi bene e che ora danno luce ad aree sintomatiche, che il segreto ha piano piano costruito.

Non tanto quindi ciò che è accaduto, anche se difficile, ma la sua negazione trasformata in un segreto ha dato la stura ad altro, fino ad una impossibilità di vita assieme. Certamente non sarà stato solo il parlare di tutto questo ad aver dato il via ad un qualcosa di inedito, quanto piuttosto il cambio di sguardo di tutta la famiglia l’uno nei confronti dell’altro che ha permesso e ha fatto in qualche modo rientrare con un senso diverso ciò che da 16 anni era “l’innominato”.  L’ essere invitati   a prendere atto del dolore l’uno dell’altro, ha creato un luogo diverso all’interno del quale guardarsi, parlarsi, ‘condividere’ e, mi verrebbe da dire per esagerazione, ha consentito una nuova nascita per Lina, finalmente se stessa, non confusa e mescolata con un fantasma senza corpo né parola. Finalmente lei, solo lei, con diritto ad esistere fuori dalle colpe. Una riparazione certamente non dell’avvenimento all’origine, ma di tutto ciò che poi si è generato e che ha permesso un dialogo diverso all’interno della famiglia oltre che una inedita possibilità di lavoro di entrambe nella stanza di analisi.

 

Ben diversa la vicenda di Stella, in analisi con una collega, che ad un certo punto mi chiede di poter incontrare e parlare con il padre. Stella ha 19 anni.

Incontro il padre, un professionista la cui levatura a tanti livelli mi fa subito ipotizzare come possa essere difficile per una figlia con un peso- padre simile sulle spalle poter fare un percorso adolescenziale identitario che sia suo, solo suo. Eppure c’è   qualcosa dall’inizio che non mi torna, qualcosa di impalpabile che mi accorgo mi attiva sensori per capire meglio. Non posso entrare maggiormente nel merito per problemi di riservatezza… Decido di vedere la coppia genitoriale, intuendone la sofferenza per questa figlia che li mette a contatto con il rischio e con il loro senso di impotenza, attraverso droghe pesanti, con una storia affettiva complessa. Stella è una ragazza estremamente problematica, disturbata e disturbante, con l’università appena intrapresa e lasciata perdere, che trascorre le giornate chiusa in camera con videogame e giochi di vario genere. La vita familiare è diventata un inferno, con tensioni alte e molto dolore. Io lavoro sentendomi in qualche modo solidale con la moglie a far sì che il padre riesca a essere meno cattedratico nel suo relazionarsi, grazie anche ad un clima di enorme fiducia che si è creata tra noi tre. Pensiamo a come possano stare assieme in modo diverso tra loro, in modo che alla fine possano essere tutti meno disregolati.  Shore parlerebbe di uno stare tutti dissociati e di dover   riuscire a imparare a camminare ‘rasenti alla disregolazione’ della figlia senza disregolarsi anche loro assieme a lei. Su questo lavoriamo a lungo. Evidentemente il lavoro congiunto di Stella    in analisi e della coppia con me crea un campo particolare di ascolto e di fiducia (solo così me lo riesco a spiegare) all’interno del quale scoppia il bubbone infettivante che dal momento dell’inizio del suo sbandare Stella trattiene.

Stella è entrata nel computer del padre e ha scoperto che da tempo il padre ha ‘ frequentazioni virtuali’ con una donna, frequentazioni delle quali ritrova le immagini.  In un momento particolare tutto questo viene denunciato al padre con rabbia lancinante. Riesco a contenere l’umiliazione, il dolore, la vergogna del padre, ma Stella decide di rivelare tutto anche alla madre.  La situazione si fa molto pesante. C’è un rischio di separazione che però rientra rapidamente. Lungo e faticoso il lavoro con la coppia, nel tentare di dare un senso a questa area dissociata del padre che come una bomba è deflagrata all’interno di un rapporto di coppia nel quale la fiducia di lei nei confronti del marito è stata sempre totale. Diventa questo uno dei punti che occupano le nostre sedute: la difficoltà della signora di perdonarsi di non aver mai avuto alcun sentore, anche minimo, che la facesse dubitare. Una ferita lacerante in modo particolare per la storia complessa della signora che finalmente nella vita aveva trovato nel marito il polo di investimento totale, di radicamento, che dava senso e diritto al proprio esistere.

Tutto ciò è crollato e presenta i conti. Come lavorare con questa ferita che in fondo sembra essere la riproposizione di un trauma vissuto all’inizio della vita? L’essere lei fino in fondo di nessuno! Mi chiedo anche   che cosa abbia significato per Stella l’essersi tenuto questo bubbone per qualche anno, dando vita nella sua rabbia, delusione, dolore ad una strada di devianze, ma contemporaneamente perché ha dovuto dirlo non solo al padre, ma anche alla madre. Come in una matrioska il segreto nel segreto del segreto. Interrogativi che possono aiutare a lavorare con tutto il gruppo nel senso che la storia di ognuno si fa più presente alla mente dell’altro rivelandone sfaccettature e significati altri, diminuendo così le dissociazioni e aumentando possibilità integrative e di perdono. Soavi e Pallier in un loro bel testo del 2012 sulla vergogna affermano che “la vendicatività possa essere elaborata attraverso il perdono E non si tratta del messaggio evangelico di porgere l’altra guancia quanto di un processo di elaborazione dell’umiliazione patita… (in questo caso ritengo da ognuno dei partecipanti al gruppo) Forse all’interno di una esperienza di terapia si può rendere possibile che  i soggetti contando su una parte  saldamente valorizzata del sé possano ridimensionare l’esperienza dell’offesa”. Poi continuano Soavi e Pallier: “sarà possibile empatizzare con l’offensore che sarà visto alla luce della sua personale storia e alla luce delle sofferenze dalle quali è stato a sua volta condizionato e indotto perciò ad affidarsi a comportamenti offensivi e inappropriati…. Forse permane la capacità di riconoscere aspetti positivi dell’oggetto che meritano di essere salvati…”  Su tutti questi punti il lavoro è in corso… tra momenti buoni di condivisione e crolli.

 

È di Ottobre la telefonata del padre di una ragazza adottiva che ora ha 10 anni. Seguo in terapia la coppia per supportare una genitorialità che tenderebbe a delegare all’altro la capacità di essere genitori, quando, al contrario, ne hanno tutte le risorse… “Dottoressa mia figlia Manuela mi ha raccontato un sogno e ho bisogno di dirglielo.” Io ho un momento di difficoltà, un po’ anche infastidita da questo modo di   ‘usarmi’ telefonicamente con il sogno di un altro, ma poi decido di ascoltare, conoscendo le persone e la loro modalità normalmente rispettosa di relazionarsi. Forse veramente è importante. Racconta la figlia: “Sto vivendo papà una serie di cose belle, piacevoli che vanno bene … ma c’è qualcosa da cui tutto questo è partito che io non ricordo, un inizio che mi fa paura, un inizio che sembra non farmi godere le cose belle… che mi è successo papà? c’è qualcosa che io non so?” Sono emozionata insieme con il papà e commento che di per sé la lettura di questo sogno sembra semplice, ma perché in questo momento? È successo qualcosa? Perché? Il papà mi racconta che Manu ha avuto ultimamente il covid e io gli chiedo come si sono regolati per il cibo, la stanza ecc. … domande banali, ma il sogno mi aveva creato il bisogno di informarmi su tutto questo. Mi aveva schiuso un’intuizione a cui volevo   aprire la porta senza sovrapposizioni. Racconta che su un carrello mettevano le vivande che poi lei si prendeva e lo riempivano di leccornie per trasformarlo in un gioco. A quel punto lo sento emozionarsi e piangere sommessamente. Chiedo che sta succedendo e mi dice: “Quando siamo andati al suo paese di origine per prenderla l’abbiamo trovata dentro un recinto vicino ad ogni bambino c’era un biberon con il latte e i bambini se lo prendevano e mangiavano soli una pena! È questo il ricordo che mi porto dentro…più forte, questo essere soli doversi arrangiare a mangiare”. Mi sento commossa con lui ma faccio notare che la memoria tornata in lui e in Manu attraverso il sogno nell’esperienza della reclusione per il covid, ora ha l’aggiunta del loro esserci, del loro prendersi cura, del loro aver riempito il carrellino trasformando quel momento di solitudine in gioco. Potrebbe anche non essere verbalizzato nulla di questo, ma sicuramente c’è un segreto condiviso di solitudine che ora si sta trasformando. Il segreto di quell’abbandono rimarrà per sempre indecifrabile, ma gli esiti dolorosi di tutto questo, nell’esperienza della vita che potrebbe essere una ripetizione infinita del trauma abbandono- solitudine- relazioni non-accudenti, stanno subendo trasformazioni e cambiamenti. Sicuramente non si saprà mai che cosa c’è stato all’origine…. ma il sogno si sta modificando, c’è qualcuno a cui portarlo, con il quale viverlo: un papà e una mamma.  Sarà pian piano possibile godere senza colpa o vergogna l’oggi con un più saldo diritto all’esistere per Manu, e per loro un riconoscersi sempre di più genitori.

 

Inserisco ora un’altra vicenda che parla di come un segreto possa diventare, come mi raccontava una mia paziente, una condanna alla anomalia e alla diversità, una condanna a dover sempre cercare una nicchia di esistenza un po’ speciale, ma che poi non funzionava mai.

Avevo 12 anni quando ho scoperto il famoso ‘foglietto’… che poi era la partecipazione di matrimonio di mia madre con il primo marito (era anzi un blocchetto di partecipazioni tutte uguali, se non sbaglio…).

Mi trovavo nella casa di mia nonna materna – come spesso mi piaceva fare – curiosavo nella libreria dello studio fra vecchi quaderni di mamma e delle zie, album di foto in bianco e nero, libri per bambini che erano lì conservati… Ricordo molto bene la sensazione di turbamento e disagio nel leggere un nome che non era quello di papà, e l’impulso immediato a chiedere anzi pretendere subito delle risposte. Mamma si asciugava i capelli in bagno, subito ero andata da lei con il foglietto in mano chiedendo ‘e chi è questo Giuseppe…?’, mamma aveva risposto ‘è il primo marito della mamma’, senza aggiungere altro ed anzi rimproverandomi perché non stava bene frugare fra le cose della nonna…

Non ricordo bene il seguito, ricordo che però la sera stessa ero andata nel letto dove dormiva mia nonna paterna, con la quale avevo un particolare rapporto di confidenza e, raggomitolata vicino a lei ma senza guardarla, le avevo chiesto se lei sapeva di questo primo marito di mamma e soprattutto se papà lo sapeva… ricordo soltanto che con tono rassicurante mi aveva detto che sì, certo che lo sapeva e che dovevo stare tranquilla. Ricordo benissimo, come fosse ieri, la valanga di interrogativi e preoccupazioni: forse non ero veramente figlia di papà? Forse mi avevano nascosto dei fratelli o sorelle nati da questo primo matrimonio? Cos’altro mi nascondevano?

Nel viaggio di ritorno a Roma avevo provato ancora a fare domande a mamma, ma ricordo solo risposte evasive o che tendevano a rimandare: ‘proprio adesso ne dobbiamo parlare?’. Avevo poi consegnato l’inquietudine di questo evento al mio diario segreto, scrivendo che non volevo proprio pensarci più!

La questione sembra rimasta poi sospesa… incistata da qualche parte, in una zona di non comunicabilità.

È difficile a posteriori ricostruire ‘il quando’ delle tante fantasie o meglio sensazioni di poca chiarezza, di qualcosa di ‘torbido’ e forse sbagliato nelle mie origini… erano di prima oppure successive al ritrovamento di quel foglietto?

Pensando al riverbero di questo segreto, mi vengono in mente soprattutto quelle sensazioni – direi di sempre, ma molto più vivide con l’adolescenza – di essere strana o comunque diversa, che da qualche parte ci fosse qualcosa di strano, poco chiaro nella mia storia… come mai non c’era traccia da nessuna parte di un matrimonio fra mamma e papà? Quando chiedevo di vedere delle foto del loro matrimonio – perché le avevo viste a casa di amichette o di parenti, dunque le cercavo a casa mia – mamma mi rispondeva che non ricordava dove fossero, fingeva di averle conservate da qualche parte… solo da grande ho saputo che mamma e papà non erano sposati (un altro segreto!), si sono sposati quando ero ormai all’università.   

Questa poca chiarezza e difficoltà di dire le cose per come erano, credo mi abbia fatto sentire un’inquietante sensazione di qualcosa di anormale e ‘strano’, che non so meglio definire… vissuto anche amplificato dalla consapevolezza (anche quella mai ben affrontata, ma ‘saputa’ in qualche modo da sempre) che mamma e papà fossero in parte anche parenti fra di loro… e che papà avesse avuto le sue difficoltà in gioventù (nessuna ragazza, nessuna fidanzata prima di mamma?), dettaglio questo fra i più inquietanti per me da piccola, perché papà era anche una salda figura di attaccamento e sicurezza per me…

Altro segreto il fatto che lui avesse fatto un’analisi – venuto a sapere da altri parenti – cosa mai, mai nominata, nonostante le mie scelte professionali ed i miei lunghi anni di analisi…

E’ difficile descrivere in parole ma ho chiaro il ricordo, in alcuni momenti della mia analisi, di aver avvicinato la percezione di non sapere bene da dove io venissi e che questo volesse dire essere diversa e ‘strana’ per sempre – dunque, la convinzione fortissima di non poter avere una vita normale e sana, come invece mi apparivano ‘le vite degli altri’ soprattutto durante l’adolescenza.

Una condanna alla anomalia e alla diversità, una condanna a dover sempre cercare una nicchia di esistenza un po’ speciale ma che poi non funzionava mai… metto in grassetto perché è un punto centrale per me!

Le radici che cercavo erano vaghe ed inaffidabili, credo profondamente contaminate da vissuti di colpa o inadeguatezza di mamma e papà… più volte ho pensato che tutto questo – anche se in un modo sicuramente non paragonabile – avvicinasse i miei vissuti a quelli di persone adottate che scavano in una storia che nessuno può sapere o raccontare loro…

Di recente, dopo tanti anni di analisi, in un sogno mi trovavo su una nave e per un motivo non chiaro commettevo un delitto, lasciando cadere un oggetto pesante uccidevo due persone che erano sottocoperta… era notte e la nave era in mare aperto, un immenso mare nero. Mi sentivo terribilmente angosciata nel sogno: tuffarmi in mare aperto avrebbe voluto dire affogare, restare sulla nave avrebbe voluto dire essere arrestata per il delitto, perché sicuramente avrebbero velocemente indagato e trovato le prove e le mie impronte… insomma non avevo via di scampo, sentivo che avrei perso tutto, che la mia vita era finita…

Nelle associazioni, la nave ha rievocato la nave ‘reale’ dei miei 12 anni, quella in cui chiedevo per capire meglio e nessuno mi aiutava a capire…Come può giocare un non detto nella vita e nello stare assieme di una famiglia!”

Una testimonianza quella appena scritta che molto fa riflettere su quanto la danza relazionale può diventare complessa e difficile anche in situazioni tutto sommato buone, con una buona qualità di offerta di vita ai figli.

 

Non posso concludere il lavoro senza fare accenno, un po’ come si è intravvisto nell’esperienza di Stella, all’uso dei social e al cambio radicale di rapporto con il segreto che questi nuovi mezzi di comunicazione immettono. Si potrebbe dire che la privacy nei social non ha confini, sembra correre per il mondo. È questa una situazione inedita che sempre più mi capita di incontrare e per la quale sembra non ci siano protezioni, leggi.

Da molti anni lavoro anche con gli operatori che si occupano di adozioni, ed è da poco che ci si trova sempre più a contatto con situazioni difficili da sbrogliare. Attraverso i mezzi di informazione infatti sempre più spesso famiglie biologiche, madri, padri o fratelli, riescono a mettersi in contatto con i ragazzi adottati, irrompendo spesso con effetto tsunami in situazioni di fragilità che lentamente iniziano a solidificarsi e radicarsi in nuovi contesti oppure anche al contrario, ragazzi ormai molto capaci di usare Internet che riescono a trovare il modo di collegarsi con la famiglia di origine dando inizio a situazioni di difficile gestione. Ricordo a questo punto la vicenda di Lorenzo, ancora minorenne, che riesce attraverso tutta una serie di ricerche contatti e altro a scoprire chi è la madre biologica e a mettersi in contatto con lei. Emerge che la signora è implicata in attività illecite e rischiose, ma lui ugualmente   scappa dalla famiglia adottiva per andare da lei, anche se nei fine settimana torna nella famiglia adottiva in un clima diventato molto difficile. Inizia anche una vita pericolosa con la droga. Come pure Rosa, di 12 anni, la quale attraverso face book ad un certo punto viene contattata da un signore che dice di essere il padre biologico creando con lei un rapporto clandestino che via via mette in crisi il rapporto con i genitori adottivi. Sono situazioni queste che quando vengono alla luce già hanno creato danni, mettendo in pericolo nuclei famigliari che si vanno costituendo. Un primo segreto, una storia, irrompe nella vita di una ragazzina che per di più si trova in un momento particolare della vita: l’inizio dell’adolescenza.  Un secondo segreto poi che prende vita e va a infrangere letteralmente una situazione famigliare in via di costruzione. Un lungo lavoro di rete con i vari operatori, all’inizio totalmente disarmati di fronte ad una situazione così complessa e delicata, li ha sostenuti nell’occuparsene con coraggio, costituendo così una presenza terza a regolare gli incontri, in modo che non avvenissero nella clandestinità, senza tener conto delle dinamiche famigliari,   del momento evolutivo della ragazza e di quanto  la coppia adottiva poteva sostenere… Non entro ulteriormente nel merito di queste storie che ormai sembrano diventare la normalità, ma che possono andare a compromettere la vita che sta prendendo una buona piega e per le quali nessuna norma giuridica oggi può  dare protezione, essendo situazioni nuove che si presentano. Solo la formazione e la solidità degli operatori e una nostra capacità creativa può farvi fronte. Mi trovavo a suggerire a delle operatrici, a fronte di una tempesta che si era scatenata in una famiglia adottiva perché la figlia di 15 anni, contattata dalla madre naturale voleva raggiungerla nel suo paese di origine, di incontrare tutta la famiglia, accogliendo il desiderio della ragazza senza respingerlo, ma lavorando con lei sul momento migliore per fare questo. È necessario non farsi travolgere dallo tsunami, ma creare uno spazio-tempo di accoglienza e di possibilità di pensiero. Certamente è un’area questa che appartiene al segreto. Un’ area molto particolare, un segreto che va oltre il trovare l’annuncio del matrimonio, un segreto che si fa persona, a volte prima nella virtualità del mezzo, per palesarsi poi come genitore vero.

 

Vorrei ora fare un piccolo accenno anche ad un tema che sempre più sta entrando a far parte del lavoro dei nostri studi: l’inseminazione eterologa. Un tema complesso che richiederebbe uno spazio a parte. Il dare nascita ad un bambino non è solo gravidanza e parto, ma costruzione di maternità e paternità che può funzionare meglio a patto che i fantasmi ulteriori che questa esperienza immette nella coppia siano il più possibile presi seriamente in carico. È una partenza di vita particolare in cui lo sguardo del genitore si appoggia spesso alla ricerca di un altro, un oltre la coppia, un qualcosa di misterioso che però è sempre presente. Lo sguardo non si ferma a ricercare nei tratti somatici de figlio la continuazione di una storia, ma c’è l‘oltre. Come tutto questo si integra in una buona crescita?

 

Mi trovo a pensare, per concludere, che oggi il tema del segreto si declina in quella che Bauman, chiama la ‘società liquida’ e che a mio avviso assume realmente altre connotazioni rispetto al passato, perché altro è il modo di funzionare dell’oggi.  In questo mondo di trasformazioni liquide, che non permette lo stratificarsi di valori e il sedimentarsi di comportamenti, come si costruisce oggi un’identità, un’autonomia? Come essere bambini, adolescenti in un mondo adulto, preso dal vortice delle informazioni sempre mutevoli? È ancora più una sfida: nella società liquida di Bauman, in cui le configurazioni familiari sono mutevoli, con genitori vicini o lontani, fratelli e genitori aggiunti e ricombinati, tutti sono affannati in una corsa perenne, dove i vissuti faticano a sedimentarsi e gli stessi adulti con i loro comportamenti sono spesso ancora alla ricerca di una definizione identitaria e occupano lo spazio che è proprio di ogni adolescenza. Che cosa crea il segreto in tutto questo? Io penso che, come dicevo all’inizio, il grosso problema sia quanto si riesce a far lavorare, e lavorarci noi , chi chiede aiuto nel recuperare i passi della famosa danza relazionale perché questa possa avvenire prima di tutto, trovando il ritmo, se si riesce, e fare sì che il segreto sia il meno possibile mortificante e deludente. Se la danza si avvia possono nascere momenti buoni   che via via fanno emergere un senso di sé e di diritto alla vita più saldo. Parole? Si, possono essere parole, ma tante esperienze di condivisione   mi hanno dato il senso che il segreto, se trova una declinazione di vita diversa dentro quella storia, quella famiglia, ha la possibilità di ricreare vita a fronte di ripetizioni cumulative traumatiche. Questo non è per nulla facile, ci interroga su quanto anche noi terapeuti siamo in grado di essere vitali, liberi e creativi nell’esplorazione   di ciò che serve alla vita o al rimetterla in moto.

Ritornando poi al bell’articolo di Soavi e Pallier sulla vergogna a proposito del perdono come processo di elaborazione della umiliazione patita gli autori aggiungono che:

A differenza di quanto pensa Smith (2008) ci pare che il meccanismo del perdono, possa trovare un suo legittimo spazio (Horowitz 2005) nella teorizzazione psicoanalitica. Per quanto possano essergli riconosciute delle affinità con la riparazione dobbiamo anche ammettere che per certi aspetti se ne differenzia. La riparazione, infatti, è legata alla colpa e costituisce una forma di risarcimento, mentre il perdono è legato all’offesa subita e costituisce un atto di generosità, cioè un dono.”

Talvolta, rispetto al segreto, il non dirlo è un modo per andare avanti e sopravvivere o ricostruire una esistenza quasi umana: mi viene in mente l’esperienza dei sopravvissuti ai campi nazisti e a quanti anni di silenzio siano serviti loro per ritornare a vivere; penso alla senatrice Liliana Segre e a come lei stessa in un’intervista abbia detto di non aver parlato con nessuno dei suoi cari di quanto vissuto. La maggior parte dei sopravvissuti ha una quiescenza di cinquant’anni prima della testimonianza: il segreto li ha aiutati a ricostruire una vita.

Riparazione, perdono… forse sono entrambi tentativi di risposte a stati del sé diversi, e hanno entrambi a che fare con la necessità che l’odio, la depressione, il non diritto all’esistenza, generati da vissuti altamente traumatici, non colonizzino la vita, permettendo così che buone ‘danze relazionali’ diano nuova linfa ai livelli di resilienza personale. 

 

Bibliografia

Alvarez A. (1993). Il compagno vivo. Roma, Astrolabio Ubaldini.

Busato Barbaglio C. (2011). Abitare l’incontro. Rivista di Psicoanalisi, 57.

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Carla Busato Barbaglio, Roma

Centro di Psicoanalisi Romano

busato.carla@gmail.com

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