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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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Commento alla relazione di Bonaminio

di Andrea Braun e Guglielmina Sartori

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Grazie a Vincenzo Bonaminio per la sua densa, ricca e generosa esposizione. Siamo onorate di aprire la discussione del testo e ringraziamo Lucia Fattori per averci coinvolte in questa giornata di studio.

Il relatore ha opportunamente ribaltato la successione del suo contributo e messo all’inizio la seconda parte, il caso clinico di Osvaldo, considerando come le turbolenze emotive incidono a livello controtransferale sullo stato interno dell’analista. Nella relazione analitica si riproduce qualcosa di arcaico che il terapeuta sperimenta anzitutto nel registro corporeo.

Ci ha reso partecipi di come il lavoro analitico consenta di arrivare a un passaggio cruciale dove Osvaldo riconosce di essere in preda ad angosce intense – angosce che non sono mie. Da lì poi Bonaminio ha ripreso la parte teorica sul segreto transgenerazionale.

Il capovolgimento della successione temporale ci ha preparato ad un altro viaggio nel tempo attraverso la pellicola cinematografica di: Ritorno al futuro

 

Abbiamo apprezzato la lettura del film alla luce del processo maturativo. Bonaminio ci fa osservare come i fattori transgenerazionali siano virtualmente sempre presenti. Nel film come nella clinica spesso siamo in presenza di “elementi elaborabili ed elaborati e perciò non registrabili come tali…”

In Ritorno al futuro assistiamo ad una narrazione edipica vitale che si configura come matrice di trasformazione grazie ad un ambiente sufficientemente buono.

Noi vogliamo interrogarci invece su che cosa succede quando prevalgono elementi non elaborabili? Pensiamo ad elementi β con afferenze sensoriali ed emotive elementari che, senza trasformazione, possono condurre all’arresto o alla distorsione del processo maturativo.

 

Questa possibilità rimanda a un racconto di Mircea Eliade che ci piace affiancare per contrasto alla narrazione del film.

Nel breve romanzo Notti a Serampore, Eliade espone un’esperienza che sconvolge i parametri spazio temporali consueti. Continua così una ricerca iniziata con Il mito dell’eterno ritorno dove lo studioso rumeno aveva approfondito la concezione circolare del tempo nelle società arcaiche, in netto contrasto con una visione lineare e progressiva. Questa circolarità rimanda all’atemporalità dell’inconscio descritta da Freud, dove il rimosso si conserva inalterato.

 

Tre intellettuali di fede, nazionalità, studi e professioni differenti, si trovano a Calcutta. Essi lavorano tutti all’interno della biblioteca della Società Asiatica nella capitale del Bengala, negli anni Trenta del Novecento. Nel tempo libero si recano frequentemente a Serampore, una località rurale, vicina. Una sera, l’autista li sta accompagnando a casa di un amico comune a Serampore, ma lungo la strada perdono l’orientamento. Si trovano spaesati nel mezzo di una foresta tropicale, un Urwald (giungla primordiale) dove alberi sconosciuti con rami intrecciati sempre più restringono il viottolo sterrato che stanno percorrendo.

 

L’Io narrante descrive lo sconcerto quando sentono un grido. Una voce femminile carica di terrore urla: “Muoio! Sono perduta!  Aiuto! Aiutatemi!”

I tre amici abbandonano l’abitacolo e corrono nella direzione dalla quale sembra provenire il grido disperato senza trovare nulla. Il disorientamento è totale anche perché si accorgono che non v’è più traccia né dell’autista né della macchina.

Gli amici vagano nella notte, fino a quando vengono attirati dal chiarore di una luce. Seguono la sorgente luminosa e arrivano così ad una casa nascosta dalla giungla. Un vecchio signore viene loro incontro e capiscono che si tratta di un servitore.

Gli chiedono del padrone della casa e egli risponde di essere al servizio di Nilāmvara Dāsa. Si fanno annunciare chiedendo ospitalità per la notte. Nilāmvara Dāsa arriva, ma il suo volto è cereo e lo sguardo fisso. Non cerca di stabilire un contatto, ma acconsente a far preparare l’alloggio. Egli si rivolge a loro con una pronuncia arcaica, un bengalese d’altri tempi. Gli amici ne restano stupiti perché in Bengala si usa accogliere gli stranieri parlando loro in inglese. Interrogato in proposito, Nilāmvara Dāsa risponde di essere ignaro dell’idioma straniero. In attesa di sistemarsi nelle camere degli ospiti, gli raccontano la loro disavventura, iniziando dalle grida provenienti dalla giungla. L’ospite a quel punto crolla, si copre il viso, si mette a singhiozzare e pronuncia ripetutamente un nome: “Lila! Lila!”

Poco dopo arriva un piccolo corteo di uomini vestiti in modo strano, che trasportano una barella di rami intrecciati sulla quale giace una donna.

Essi sono stati dunque testimoni di un assassino feroce, che ha colpito un familiare stretto di Nilāmvara Dāsa. Forse la moglie?

Non si sentono più di approfittare dell’ospitalità di un uomo in lutto e lasciano la casa. Stanchi e disorientati si siedono per terra, appoggiandosi ad un albero e si assopiscono in mezzo alla foresta. Al risveglio l’Io narrante riconquista il senso di orientamento. Sorprendentemente si trovano a due passi dal bungalow nel quale sono soliti passare il fine settimana.

Quello che scopriranno in seguito è che l’autista e tutti gli inservienti della casa a Serampore giurano che nel corso della notte nessuno si sarebbe mai allontanato dal bungalow. Non ci sono altre abitazioni nei pressi. Evidentemente hanno sognato e forse il viaggio notturno altro non è che frutto di un’allucinazione?

Ma il nome Nilāmvara Dāsa esiste. Esso rimanda ad una storia accaduta molti decenni prima. La moglie di Dāsa, Lila, è stata assassinata veramente da un brigante che si era invaghito di lei. La casa dello sfortunato vedovo è stata abbattuta molti anni fa, come peraltro tutte le ville degli indù in quella stessa zona.

Lo sgomento degli amici rimane. Essi sono stati testimoni di un evento del passato, proprio come accade nel film Ritorno al futuro.

L’atmosfera rispetto alla pellicola di Gale e Zemeckis è radicalmente differente. Nel film il viaggio spazio temporale si associa alla curiosità e all’avventura. Nel racconto di Notte a Serampore veniamo confrontati con

un vissuto carico di angoscia e con il perturbante.

L’Io narrante dopo la notte a Serampore sprofonda nel silenzio e cerca di rimuovere l’esperienza. Solo molti anni dopo, in presenza di un medico, egli si sente di riaprire questo capitolo.

 Al dottor Swami Shivananda racconterà l’episodio. A Serampore “non assistevamo puramente e semplicemente ad una scena avvenuta da molto, ma intervenivamo nello svolgimento di questa scena…” (68).

E si chiede incredulo come sia stato possibile ritrovarsi in “condizione di annullare il tempo e di assistere ad un avvenimento del passato” e “di modificare l’avvenimento passato” (69).

Tuttavia il racconto non apre ad una rielaborazione e la presenza del medico non riesce a ricomporre la frattura. L’Io narrante chiude il ritorno del rimosso con le parole: “Questo non posso sopportarlo! […] Questo non posso sopportarlo per la seconda volta!” 

 

Per offrire spazio e indicare sentieri alla discussione, riproponiamo le immagini, peraltro similari del groviglio inestricabile o della giungla primordiale, Urwald, metafore del trauma e della coazione a ripetere, rappresentative di una fissità che ingabbia e inibisce il potenziale creativo in ognuno di noi.

Riprenderemo il sentiero traumatico successivamente.

L’adolescenza è innanzitutto corpo che cambia. Il corpo diventa pienamente sessuato e ciò comporta, oltre che ampliamento del sé, pericolo e sofferenza. Ed è attraverso il corpo (i sintomi, l’impossibilità di pensare) che il disagio psichico manifesta il suo limite di sopportabilità.

Nell’adolescenza, sappiamo, è dominante il tema dell’identità di genere. Nel caso di Osvaldo lo richiamano diversi episodi: “la chiave che penetra” della madre fallica, la scena del mangianastri, il commento sprezzante del padre e il pianto del paziente nel bagno, “i passi vellutati”, la capigliatura ondulata, la scuola di danza con bambine, le tenniste. Questo tema principale si intreccia inevitabilmente con scenari edipici, intrapsichici, transgenerazionali (come gli agiti del padre e certi riferimenti al nonno, di cui Osvaldo porta il nome) e intergenerazionali, oltre che narcisistici, perché è in gioco il processo di differenziazione e individuazione di sé.

Nella presentazione del caso, il dottor Bonaminio apre mettendo in primo piano aspetti del controtransfert e ci vengono descritte sue sensazioni di turbolenza, di invasione da parte del paziente sul proprio schema corporeo, catalogabili nel registro della passività e della fissità, proprio come corpi estranei, sotto forma di sensazioni di escrezione o di buco al lato destro, dove si fissa lo sguardo del paziente.

Apre poi le pagine di un romanzo familiare, sul perno del narcisismo, dove appare un profilo del paziente costruito su uno spettro di identificazioni circolari: introiettive, proiettive, alienanti, con propaggini di angosce e difese schizo-paranoidi, ma anche con possibilità di risignificazione e differenziazione.

Sottolineiamo, per la discussione, l’attenzione dell’analista a termini come intruso, incluso, escluso, evacuato, riferiti agli oggetti primari, e la sua cautela a non colludere.

In questo ambito si presenta il tema del segreto, in specie qui, nel caso, che nessuno sappia che Osvaldo va in analisi, che non si scopra una temuta omosessualità di famiglia, segreto che, se “svelato”, procura insopportabile vergogna. Il segreto ci richiama inevitabilmente anche il campo della psicosi.

Il materiale clinico ben si presta a illustrare l’emergenza di fattori transgenerazionali che in analisi possono essere elaborati fino a consentire al paziente di riprendere il percorso maturativo, differenziandosi dalle identificazioni alienanti.

 

Bonaminio ricorda le ricerche sulla trasmissione transgenerazionale che hanno preso avvio da organizzazioni psichiche gravemente compromesse. Il riferimento agli studi di Abraham e Torok (1978) sulla cripta e il fantasma incorporato mettono in evidenza l’incistamento “nell’inconscio di un soggetto, di una parte delle formazioni inconsce di un altro che viene ad ossessionarlo come un fantasma mediante l’ipoteca del mandato dell’antenato nei confronti della discendenza”.

Noi ci siamo chieste all’inizio del nostro commento che cosa succede quando prevalgono elementi non elaborabili che inducono l’analista a dover riconoscere il passaggio generazionale della distruttività estrema.

Dagli studi longitudinali sugli effetti traumatici massicci nei sopravvissuti ai campi di concentramento emerge come l’esperienza terrificante e annichilente possa passare alla seconda generazione senza modifiche, proprio come se fosse stata esposta direttamente alla detenzione.  Il concetto di “transposizione” (Barocas H. e Barocas C., 1979)[1] cerca di rendere conto di questo fenomeno. Lo troviamo in un lavoro di Judith Kestenberg (1989)[2] quando discute il materiale clinico di una paziente, figlia di un sopravvissuto alla Shoah. “Ella riusciva a dislocarsi nel passato del padre tramite un meccanismo simile ma non identico ad un viaggio spirituale nel mondo degli scomparsi” (1989,163 trad. nostra).

Eccoci ancora una volta nella foresta a Serampore…

             L’ipotesi di Kestenberg è che la mancanza di una barriera generazionale protettiva, dopo le esperienze devastanti alle quali sono stati esposti i sopravvissuti alla Shoah, favorisca l’insorgere di una fusionalità generazionale. Il figlio si sente indotto a riportare in vita gli oggetti morti dei genitori per rianimare le figure genitoriali, bloccati da un lutto paralizzante e irreparabile, catturati da una sofferenza muta e segregata.

Tale meccanismo induce a un certo pessimismo e rende conto delle perduranti conseguenze a lungo termine degli eredi della Shoah, del passaggio da una generazione all’altra.

Impossibile non pensare a quanto accade in questi giorni in Ucraina…

Come si vede dal racconto indiano di Mircea Eliade, il medico-analista si trova nell’impossibilità di curare un dolore troppo grande. Se il dolore è troppo, prende il posto dell’Io. Noi analisti possiamo, se i nostri limiti ce lo consentono, accoglierlo o esserne attraversati dalle identificazioni proiettive. Le ferite-stigmate vanno rispettate, ma possiamo offrire un ascolto rispettoso, prendercene cura e cercare di dare un senso a quanto emerge…

 

NOTE

[1] Barocas H. A. & Barocas, C. B. (1979). Wounds of the Fathers: The Next Generation of Holocaust Victims. International Review of Psychoanalysis 6:331-340

[2] Kestenbergv J. S. (1989). Neue Gedanken zur Transposition. Klinische, therapeutische und entwicklungsbedingte Betrachtungen. Jahrbuch der Psychoanalyse 24:163-189

Andrea Braun, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

danaernarub@gmail.com

Guglielmina Sartori, Vicenza

Centro Veneto di Psicoanalisi

guglielmina.sartori@gmail.com

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