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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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Intervista a Carla Rufina Zennaro

di Caterina Olivotto, Silvia Mondini, Silvana Rinaldi

Carla Rufina Zennaro
Carla Rufina Zennaro

Una mattina di fine febbraio 2022 ci siamo date appuntamento davanti al portone della casa di Carla R. Zennaro, membro Ordinario con Funzioni di Training della SPI. La nostra idea era quella di inaugurare con lei questa rubrica sulle Interviste, di partire cioè insieme a lei dall’inizio della vita del CVP di cui è stata una dei soci fondatori. Scrivendo ora a posteriori e dopo che un po’ di tempo ha permesso alle parole di sedimentare e di germogliare dentro di noi,  ci siamo accorte che è stato forse qualcosa in più di un dialogo, di uno scambio di opinioni o di una raccolta di idee e di informazioni.

Carla R. Zennaro ci ha accolte aspettandoci sulla soglia e invitandoci ad entrare. Quell’ingresso ha risvegliato vecchi e importanti ricordi legati all’inizio, in momenti diversi, del nostro training sia nella SPI che al CVP, che per tradizione aveva inizio proprio con le sue lezioni. La dottoressa ci accoglieva gentilmente nella sua casa offrendoci non soltanto pensieri  psicoanalitici, ma un luogo in cui accogliere le emozioni e i turbamenti legati a quell’inizio per noi così importante; al termine di ogni incontro che occupava tutta la mattina, arrivava il pranzo e, intorno a quel tavolo ci sentivamo un po’ speciali, nutriti a tutto tondo.

Ed è in questa atmosfera di piacevoli ricordi che inizia, attorno a quello stesso tavolo che ci aveva già accolte un tempo, questo nuovo scambio di idee e di pensieri ora di fronte ad una profumata tazza di caffè.    


 

Cara dottoressa,

rileggendo la “sua” Storia del Centro Veneto, ripensando ai suoi interventi e, infine, scorrendo le pagine del suo “Psicoanalisi audacemente bastarda” siamo state in qualche modo costrette a fare i conti con una nostra difficoltà … quella di individuare qualcosa che non sia stato già oggetto di trattazione. Qualcosa che rispecchiasse almeno in parte  quell’audacia che, insieme al coraggio e all’umiltà, dovrebbe far parte del bagaglio di chiunque desideri intraprendere qualsivoglia viaggio.

Su un punto però ci siamo trovate tutte e tre d’accordo e pertanto abbiamo deciso di cominciare da questo: i documenti e le foto testimoniano che il CVP era composto quasi esclusivamente da uomini. Quest’ evidenza ci ha stupito proprio perché svela una situazione profondamente diversa da quello che accade ultimamente nel nostro Centro e anche in questo preciso momento, dove ci troviamo qui in quattro e tutte e quattro donne. Ci appare quindi una trasformazione evidente …

 

Zennaro: prima di soffermarmi sulla vostra domanda vorrei fare una breve precisazione sull’audacia: nel nostro lavoro, per essere audaci in modo proficuo, sono necessarie certe premesse: una adeguata preparazione anche tecnica oltre che teorica  ed una analisi personale perché ogni interpretazione è personale, nuova, unica soprattutto quando abbiamo da percorrere sentieri inesplorati, come capita sovente nelle patologie gravi dove è importante e necessaria la  lettura del controtransfert. Se il viaggio è la metafora dell’analisi, si tratta di un viaggio di scoperta dove la rotta deve essere in continuazione corretta. Ma importante è navigare. Faccio riferimento ad Erasmo da Rotterdam (1877 che cita Lucrezio):

“naufragium feci, bene navigavi” dove una traduzione potrebbe essere: quando ho fatto naufragio, allora ho ben navigato”. Questo è valido per il controtransfert soprattutto con pazienti dalle gravi patologie: dobbiamo essere in grado di abbandonarci al controtransfert, immergerci nel controtransfert, “fare naufragio” col paziente, vale a dire non solo identificarci col paziente, ma anche immedesimarci in lui, tuttavia, poi dobbiamo anche essere capaci di allontanarci, di liberarci dall’eccesso di coinvolgimento.

Tornando invece alla vostra considerazione, eh sì, effettivamente è la prima volta che accade … un tempo c’era una prevalenza di uomini. Credo che dobbiamo prendere in considerazione un cambiamento culturale in tutta la nostra società in generale dove si è verificata una maggiore partecipazione delle donne nella vita sociale e nelle istituzioni. Certo, si tratta di una trasformazione evidente, ma la vedrei meno legata al numero maggiore di donne che, diventando psicoanaliste, entrano nel nostro Centro. Propenderei piuttosto per un cambiamento della mentalità “nazionale”, per esempio anche in campo politico, Giorgia Meloni. Ma avevamo già avuto una indimenticabile Nilde Iotti!

Nel corso del tempo all’interno del Centro c’è stata anche un’altra trasformazione particolare e secondo me importante, ed è quella derivante dall’emergere in alcune situazioni di un eccessivo desiderio di affermazione che ha contribuito in alcuni momenti a modificare l’atmosfera del Centro. A volte la competizione può perdere il suo aspetto costruttivo e questo è un aspetto molto importante di cui tener conto.

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Ci pare quindi di capire che, secondo lei, il problema di questa trasformazione non sia tanto imputabile alla differenza maschile/femminile quanto alla struttura psichica di ciascuno. In ognuno di noi c’è un maschile e un femminile e forse dovremmo pensare come questi elementi si combinano nell’incontro con l’altro dando vita ad un equilibrio o ad un tentativo di prevalere sull’altro … 

 

Zennaro:  non parlerei tanto di componenti femminili e maschili che, mi sembra una distinzione vecchia maniera, un po’ superata .… ad esempio, Agostino Racalbuto, che è stato Presidente del CVP e anche Direttore della Rivista di Psicoanalisi tra le tante cose, con la sua autorevolezza si imponeva per le sue capacità, per le sue doti, per le sue caratteristiche strutturali.

A questa nostra riflessione andrebbe poi aggiunto anche il progressivo aumento del numero dei Soci; questo aspetto ha mutato anche la natura del rapporto tra i membri: minore amicizia, maggiore distanza e anche una diversa organizzazione con maggiore burocrazia. Io, ad un certo punto, mi sono ritirata da tutte le attività organizzative nazionali proprio perché, a mio giudizio, avremmo dovuto continuare ad essere solo dei clinici – e la mia è una pia illusione e lo riconosco – nonostante si rendesse necessaria la presenza di amministrativi. Gli amministrativi, proprio perché si propongono, hanno una particolare struttura. Con ciò non voglio dire che non possano essere anche dei bravi clinici come alcuni colleghi testimoniano sia sul piano locale che nazionale.

 

Ci sembra che lei si stia riferendo anche ad un fenomeno più vasto, ovvero, come l’aspetto burocratico ostacoli la clinica, lo scambio tra colleghi e la crescita del gruppo. Questo fattore, purtroppo, si sta rendendo sempre più evidente in ogni ambito. In realtà, dovremmo anche considerare la realtà dell’assenza dell’insegnamento psicoanalitico in ambito universitario.

 

Zennaro: certo, … teoricamente, progettualmente … la clinica dovrebbe essere il nostro principale interesse.

Non so dire se l’assenza dell’insegnamento psicoanalitico in ambito universitario incida. Suppongo che dipenda come tale insegnamento viene fatto. Ed insegnare bene è molto difficile, uno dei mestieri più difficili.

 

Tornando alla nostra domanda iniziale, come è nata l’iniziativa di fondare il CVP?

 

Zennaro: Il CVP è nato da un’idea e dalla determinata volontà del prof. Sacerdoti. Giorgio Sacerdoti si distingueva, si imponeva per la sua vasta, profonda conoscenza non solo nell’ambito psicoanalitico, ma anche filosofico e di cultura generale. Fu un precursore lungimirante e perspicace di una iniziativa, diventata consuetudine: l’invito a storici e a filosofi di fama a tenerci dei seminari.

Unitamente a sua moglie, fu estremamente ospitale accogliendoci nella sua  elegante, raffinata casa a Venezia. In settembre ci attendeva in compagnia del suo cane nel suo giardino, già coi colori dell’autunno, tra rigogliose piante di melagrane. Una ospitalità signorile, d’altri tempi, quasi sembrava un sogno. E rimane un sogno pieno di nostalgia.

I fondatori sono stati dunque Giorgio Sacerdoti, Antonio Alberto Semi, Anteo Saraval ed io … Per dare vita ad un Centro della SPI, a quel tempo, era necessaria la presenza di due membri Ordinari; ne avevamo solo uno, così è stato chiesto a Saraval che, pur vivendo a Milano, era veneziano di nascita .  

 

In fondo possiamo dire che lei ha avuto l’onore – e/o l’onere – di trovarsi inserita in un ambiente maschile. Noi invece, in questo momento storico, ci sentiamo in difficoltà ogni qual volta qualcuno ci chiede il nominativo di un analista uomo.

 

Zennaro: ricordo di non aver riscontrato nulla di diverso rispetto agli anni universitari, quando mi sono iscritta a medicina il rapporto tra donne e uomini era di circa 10 donne su 300 iscritti al primo anno. Mi sono sempre sentita molto accettata, accolta, persino coccolata dai colleghi. Adesso, la psicoanalisi è diventata una professione molto più al femminile, non saprei dire perché.  Ripensandoci, posso dire di essermi sempre sentita ben inserita sia sul piano locale che nazionale. Ho avuto però un momento di grande difficoltà, di profonda sofferenza quando, a seguito della morte di Agostino Racalbuto, mi è stato affidato il doloroso, anche se necessario, compito di informare di questo i suoi pazienti. Io stessa ero in lutto per la perdita di un amico e di un collega umano, generoso, intelligente, insostituibile.

Racalbuto è stato una persona eccezionale, dopo di lui, e spero di non fare torto a nessuno, credo che il Centro non abbia più avuto persone del suo livello sia sul piano umano che scientifico.

 

Ci piace ricordarlo per la sua creatività, per il suo essere accogliente. Ci stimolava ad essere creativi, a comunicare liberamente quel che osservavamo nella clinica, a spaziare tra i nostri pensieri …

 

Zennaro: Certo, e, inoltre, Racalbuto mancava dell’aspetto aggressivo-distruttivo o, meglio, forse lo sublimava capovolgendolo in creatività. Aveva il dono dell’ironia come l’aveva anche Sacerdoti che io però frequentavo meno e conoscevo meno bene.

 

Se ci fermiamo un attimo a pensare a questo nostro dialogare ci accorgiamo che stanno venendo alla luce le nostre memorie affettive;  per questo non possiamo fare a meno di chiederle qualcosa sulla nostalgia un tema a lei caro e che ritroviamo in un suo lavoro presentato al Congresso SPI del 2014  e nel suo libro.

 

Zennaro: Eh sì. La nostalgia può essere fonte di creatività e di sviluppo se affonda le proprie radici nelle prime esperienze soddisfacenti, avvolgenti e gratificanti della relazione madre/bambino o, al contrario, ingabbiare, imprigionare la persona impedendo qualsiasi altra gratificazione futura. Diviene così necessario distinguere tra nostalgia e rimpianto. Nel rimpianto rimane un ricordo fisso, cristallizzato e non evolutivo … Giovacchini (1972) fa la distinzione tra relazioni adattative quali le nostalgie sane e le relazioni dirompenti quali le nostalgie patologiche. Susanna Tamaro a conclusione del racconto di un suo sogno commenta “la speranza allora è questa, che in noi torni la nostalgia per parole capaci di ardere”.

Questo può accadere quando la madre risponde in modo adeguato ai bisogni del bambino. Nelle relazioni dirompenti, la mancata adeguata risposta dell’oggetto alla situazione di emergenza primaria del bambino rafforza lo stato traumatico, i traumi precoci causano considerevoli ferite narcisistiche. O addirittura incidono così profondamente da lasciare nel soggetto solo vaghe tracce mnestiche che rimangono senza nome ed esiliate nell’inconscio non rimosso  (Gabbard 1999, 2002), ma che influiscono nella psiche senza però diventare rappresentazioni, rimangono confinate nell’amigdala senza raggiungere l’ippocampo e gli strati superiori del cervello. Su questa patologia si possono inserire certe forme di nostalgia più  gravi.

In certe forme di nostalgia quindi esiste il buon rapporto con l’altro che viene introiettato e con questo “oggetto” continuiamo a dialogare. Io ho uno spiritello birichino, un monello … un mio amico, quando eravamo giovani, diceva che aveva due spiritelli che gli indicavano come affrontare le difficoltà, come trovare nuove soluzioni, l’uno del padre, l’altro di un professore. Anch’io ho il mio spiritello che mi aiuta quando sono in angustie, lo spiritello di una madre amorevole e lungimirante.

Si tratta dell’incontro con persone rappresentative, che noi introiettiamo come oggetti buoni, e con i quali, in una fase successiva, ci identificheremo.

 

Forse anche noi “più giovani” stiamo cercando degli “spiritelli” che ci aiutino a superare i momenti più difficili e dolorosi; il Centro è formato da persone che comunque hanno dei legami al di là dell’ambito lavorativo. Ci sembra che il lavoro di tutti noi ultimamente sia volto a trovare qualcosa che creativamente ci aiuti a superare vecchi  strappi e forse anche l’idea di incontraci con lei può essere legato a questo …

 

Zennaro: come vi dicevo sento, in qualche modo, la responsabilità di essermi sottratta ad alcuni compiti istituzionali. Probabilmente né io né altre persone del CVP abbiamo avuto la voglia né, forse, l’autorevolezza necessarie per coagulare gli interessi dei vari soci.

In questo periodo io parlo volentieri con voi ma ho tutt’altri interessi, letteratura, arte, filosofia anche se continuo a tenermi aggiornata sulle tematiche psicoanalitiche. Dopo tante patologie gravi adesso, un po’ di respiro!

 

Nel suo lavoro con i pazienti gravi ci è sembrato molto importante e basilare per lei poter avere un gruppo di riferimento di colleghi con i quali condividere le esperienze. Ci può raccontare qualcosa di questa sua lunga esperienza? Riteniamo che in questo ultimo periodo, probabilmente a causa dell’isolamento legato alla pandemia, sempre più spesso si avverta il desiderio di trovarsi con altri colleghi, di condividere idee e progetti che si affacciano nella nostra mente, di pensare insieme.

 

Zennaro: quel nostro gruppo nacque in modo informale: eravamo amici che condividevano lo stesso interesse per le patologie gravi e la clinica di cui facevamo giornalmente esperienza. Eravamo amici e, per questo, potevamo parlare del nostro controtransfert senza remore, senza temere giudizi. Il gruppo delle patologie gravi è stato un gruppo molto particolare e io riconosco di aver avuto il privilegio di potervi far parte. Noi tutti abbiamo bisogno di almeno due cose: di colleghi che condividano i nostri stessi interessi anche se a volte con pensieri diversi e di colleghi che ci accettino nonostante i nostri difetti. Se non fosse stato così, penso che non sarei riuscita a far parte del gruppo, non sarei mai riuscita a parlare del mio controtransfert se mi fossi trovata in una condizione diversa; il gruppo è durato 28 anni. I partecipanti erano sempre gli stessi e questo ha permesso lo svilupparsi di un clima molto accogliente in cui poter esprimere ciò che sentivamo in relazione ai vari pazienti e farci, di volta in volta, aiutare a sostenere situazioni molto impegnative.

Una volta però, e me ne dispiace molto, non ho accettato la richiesta di partecipazione rivolta da una collega, persona gentile, preparata e molto empatica.

 

Ci sembra che qui si apra la questione del delicato equilibrio tra aspetti istituzionali

e aspetti personali

 

Zennaro: ad un certo punto al gruppo è stato chiesto di entrare a far ufficialmente parte del Centro, nel senso di diventare uno dei gruppi istituzionali. Abbiamo rifiutato la proposta per non perdere quell’atmosfera di familiarità, quella autenticità, quella libertà di espressione anche degli affetti che permetteva il nostro lavoro all’interno del gruppo.

 

Ci rendiamo conto sempre di più di quanto sia difficile far funzionare un gruppo istituzionale; la coesione di un gruppo necessita sia di un legame che di un funzionamento stabile e questo, talora, rende molto difficile l’entrata di qualcuno di nuovo perché comunque interferisce con il funzionamento del gruppo stesso. Nello stesso tempo un gruppo che funziona deve anche essere capace di far entrare l’altro, di aprirsi.

 

Zennaro: ci deve essere senz’altro una stabilità, penso al “gruppo Bion” di cui Luigi Boccanegra, poi, è diventato il referente; è stato un gruppo istituzionale che ha saputo raggiungere e mantenere per lungo tempo un equilibrio tra la stabilità interna e l’apertura verso chi desiderava partecipare.  Un’esperienza davvero molto arricchente alla quale ho partecipato, ma del tutto differente del nostro piccolo gruppo delle patologie gravi.

 

Crediamo sia utile fare una distinzione tra gruppi che nascono per affinità tra i componenti e gruppi che si formano per le funzioni che una persona in quel momento sta ricoprendo, più menti con formazioni diverse ed estranee alle famiglie analitiche che si ritrovano per affrontare un tema nuovo può essere una buona occasione per pensare insieme qualcosa di nuovo. Crediamo che l’aspetto più fertile coincida proprio con questo.

 

Zennaro: Il gruppo è necessario per il nostro lavoro per cui più ci si incontra sul piano scientifico, ma non solo, meglio è; questo, in fondo, è il nostro modo per uscire dall’isolamento quotidiano che la nostra professione comporta.

 

Il gruppo istituzionale però può avere una risonanza sul piano personale ma non deve diventare una questione personale. Questo trova un aggancio con quanto lei scrive sul controtransfert.

 

Zennaro: per quanto mi concerne non ho pratica di gruppi istituzionali, ma non credo che la tecnica psicoanalitica che noi utilizziamo nelle terapie individuali sia applicabile, a meno che non sia modificata la tecnica, alla analisi di dinamiche istituzionali.  

 

Tornando all’equilibrio tra gruppo istituzionale e amicale dovremmo considerare che la difficoltà stia proprio nel trovare nel gruppo l’equilibrio tra questi due aspetti. E’ possibile anche che tra persone che si incontrano per lavorare insieme si crei uno scambio affettivo.

 

Zennaro: credo che noi, in fondo e in ogni caso, dovremmo essere più umili, l’umiltà è necessaria per favorire il dialogo..

 

Nel libro “Lezioni sulla tecnica” Melanie Klein, nella prima delle sue lezioni del 1936 ai candidati della British Society,  fa proprio riferimento a questo e al rischio per l’analista di sentirsi in una condizione di superiorità

 

Zennaro: anche nel nostro lavoro c’è sempre una mortificazione narcisistica con cui dobbiamo fare i conti; non dobbiamo trascurare che i pazienti ci danno molto anche se non possiamo metterci sul loro stesso livello. Noi come analisti dobbiamo riconoscere i nostri limiti.

 

Ci chiediamo se non ci sia una necessità di confrontarsi con questa mortificazione narcisistica a livello clinico e personale. Nei gruppi istituzionali bisognerebbe forse  trovare anche un equilibrio tra creatività e regole tutelanti che poi diventano dei confini. Questa è una sfida non da poco, soprattutto in questo specifico momento. In più subentra il narcisismo delle piccole differenze che solitamente non è di aiuto …

 

Zennaro: qui, però, subentra anche la funzione del gruppo che discutendo, dialogando, confrontandosi, dovrebbe chiarire e stemperare le posizioni di ciascuno; questo accade soprattutto con i pazienti più gravi. All’inizio c’erano i nevrotici anche se, a dir la verità, io non ne ho mai visti, adesso invece abbiamo a che fare soprattutto con strutture pre-edipiche che ci sollecitano in un modo diverso

 

Sotto il profilo della sollecitazione anche la pandemia è stata molto istruttiva: improvvisamente coinvolti nella stessa condizione di pericolo e di limitazioni noi eravamo nella stessa condizione dei nostri pazienti anche se avevamo a disposizione gli strumenti del nostro lavoro a cui poter attingere, ma è stato molto faticoso … è stato necessario un maggior lavoro psichico … Proprio su questo argomento ha scritto molto Chair Badawi: l’entrata della realtà esterna all’interno della seduta, la necessità di interrogarsi se sia più espressione di resistenza occuparsi della realtà esterna a discapito di quella psichica o viceversa. Questo è proprio uno degli aspetti più importanti emersi, ad esempio, nel corso della pandemia e del Servizio di Ascolto allora istituito.

 

Zennaro: certo, pensate cosa potrebbe succedere se la guerra si dovesse estendere e coinvolgerci direttamente. La memoria rimanda a tutto il lavoro degli analisti inglesi durante la seconda guerra mondiale.

 

Tornando al nostro filo conduttore, abbiamo forse lasciato fuori qualcosa a cui lei tiene dottoressa?

 

Zennaro: forse qualche pensiero sulla pulsione di morte. Mi preme sottolineare che lavorando con i pazienti dalle patologie molto gravi, mi sono spesso chiesta “Ma la pulsione di morte dove sta?”. Detto in modo estremamente sintetico e semplicistico: nella mia lunga esperienza clinica ho sempre visto che i pazienti gravi, nel loro profondo si ribellavano alla malattia, la combattevano con tenacia, anche patendo sofferenze enormi, presentavano sempre la fiammella della speranza di migliorare, non parlo di guarigione. Pertanto, non credo alla pulsione di morte, semmai esiste una forte pulsione di sopravvivenza.

Che cosa sta succedendo in Ucraina? Quando l’Ucraina si difende lo fa per sopravvivere … io non me la sento di pensare all’esistenza della pulsione di morte … anche se ci sono quelli che certo si suicidano. Quando uno non ce la fa più trova la via dell’uccidersi perché la tensione diventa insopportabile. Il tentativo di suicidio, a mio avviso, è un grido di aiuto, ma a volte o non lo cogliamo o lo fraintendiamo.

 

Sembra che nel suo pensiero la pulsione di sopravvivenza in qualche modo si sovrapponga a quella di vita …

 

Zennaro: io uso il termine pulsione di “sopravvivenza” per superare il binomio, l’accoppiata pulsione di morte e pulsione di vita. Dovremmo già nascere con la pulsione di morte, ma io non condivido questa teoria pur essendo  consapevole che la mia posizione non è condivisa. Da giovane inesperta ed insicura aderivo, ma a malincuore, a questo pensiero di Freud, ma sempre combattendolo un po’ in base a quel che osservavo nella clinica. Se accade che qualcuno si uccide è perché davvero non ce la fa più e perché noi, che siamo esseri umani e perciò limitati, non siamo stati in grado di cogliere la sua invocazione di aiuto.

Sulla melanconia però non ho idee chiare; posso solo ipotizzare che in alcune persone esista un oggetto morto interno che non possiamo svelare … mi appare come qualcosa di non raggiungibile almeno con i nostri mezzi odierni. Sono fiduciosa che il miglioramento delle tecniche psicoanalitiche con l’integrazione delle neuroscienze ci verranno in aiuto.

 

… e con queste ultime riflessioni possiamo fermarci ringraziandola della sua calorosa disponibilità …

 

 

 

Carla Rufina Zennaro, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

zennarocarla@libero.it

Caterina Olivotto, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

caterina.olivotto@gmail.com

Silvia Mondini, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

silvia.mondini@spiweb.it

Silvana Rinaldi, Padova

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silvana972r@gmail.com

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