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Il Silenzio che fa paura

Il crimine violento come antitesi del pensiero

di Massimo De Mari

Massimo De Mari è  Psichiatra, criminologo, psicoanalista SPI/IPA, membro del C.V.P., Docente all?Università IUSVE di Venezia. Ha curato il testo “L’Io criminale. La psichiatria forense nella prospettiva psicoanalitica”.

 

A partire dalla sua esperienza come psichiatra del carcere, De Mari prova a portare il lettore ad immaginare un primo colloquio.

Dall’altra parte c’è l’autore di un terribile reato che  sconcerta l’opinione pubblica, desta orrore e pungola le coscienze.

Da questa parte, c’è chi è chiamato a capire se è possibile che l’omicida riprenda un contatto con sé stesso, il crimine commesso, la vittima e il mondo da cui si è estraniato.

E’ solo in questa dolorosa presa di contatto che si giunge alla consapevolezza di ciò che si è compiuto e si può dare un senso alla pena. Ma perché questo sia possibile, è necessario lavorare per far ripartire un pensiero là dove la violenza ha sradicato ogni bene.

 

Francis Bacon, Three Studies for Self-Portrait, 1976 [Richard Gray Gallery]

“Date parole al dolore. La sofferenza interiore

che non parla, sussurra al cuore troppo gonfio

fino a quando si spezza”

(W. Shakespeare, 1606)

Cosa gli direi? Non lo so, forse niente, aspetterei che fosse lui a parlare.

Cosa mi aspetto che dica? Niente, credo, perlomeno niente di importante.

Di solito si parla di cose pratiche, non ho fame, dormo poco, il letto è scomodo, i compagni sono rumorosi, fumano, c’è troppo rumore…come si fa ad andare in palestra?

La vita del carcere è una routine alienante, si entra in una dimensione claustrofobica che può essere persecutoria o rassicurante, secondo i punti di vista e i drammi che l’individuo che vi entra ha lasciato fuori.

L’angoscia resta dentro, incarcerata in un loop di pensieri spesso ossessivi, o in un vissuto colpevolizzante che non serve a spiegare ma viene ripetuto come una specie di mantra che tiene lontani da una realtà insopportabile, accaduta in un lampo, un momento di non ritorno, come quando premiamo il tasto di accensione di un qualsiasi apparecchio elettronico, on-off.

Un mestiere difficile il nostro, soprattutto quando ci si confronta con certi abissi dell’animo, di fronte ai quali ci si sente impotenti.

In primo luogo dovrei reprimere l’orrore, quel sentimento forte di ripulsa per un gesto che offende così tanto il senso di rispetto che ciascuno di noi dovrebbe avere per l’altro, a prescindere dalle sue idee, genere sessuale, religione o cultura.

Ma poi dovrei fare i conti con la mia scelta professionale di trovare un senso a certi comportamenti che un senso sembrano non averlo e possono essere archiviati come frutto di cattiveria, sadismo, egoismo e possessività.

Non sarebbe facile…dovrei mettermi nei suoi panni, provare a prendere un coltello in mano e capire che effetto fa non vedere altre alternative alla sofferenza che sto provando ad un gesto che trasferisce quella sofferenza nel corpo di un’altra persona.

Dovrei entrare in quella dimensione psicotica di distacco dalla realtà che fa sì che il mio pensiero diventi concreto…non abbia più la possibilità di simbolizzare.

Il pensiero “Sto male da morire” si trasforma in un progetto suicidario e poi in un passaggio all’atto”, basta un attimo, ecco il treno che arriva, un passo sui binari ed è tutto finito… salgo sul terrazzo del condominio, un bel salto, qualche secondo di volo e poi basta.

La frase banale…”Quando fai così ti ammazzerei” diventa un progetto di morte, mi procuro un’arma, studio i movimenti, organizzo l’appuntamento, vado, due parole, ho già deciso ? non so, vediamo cosa mi dirà…niente non ha cambiato idea anzi ha detto quella frase, quella parola che vuol dire no definitivo, che mi umilia, che non mi dà nessuna speranza…non lo posso sopportare, e allora prendo il coltello, la pistola, il bastone, trasferisco sulle mani una rabbia incontenibile, una frustrazione insopportabile e la mia vita di persona apparentemente normale, ordinaria, cambia per sempre, in un attimo.

Hervey Cleckley (1982) parla di “maschera della salute mentale (The mask of sanity, 1982)” per descrivere quella che agli occhi di tutti, familiari compresi, non fa trapelare il dolore, la rabbia che si è costruita non in un giorno, non in quell’attimo scatenante ma in infiniti giorni, lunghi mesi, a volte anni di rimuginamento, di fatica, di tentativi falliti di un’impossibile integrazione di quei buchi nell’impalcatura dell’identità, che di colpo diventano crepe irrimediabili.

Proverei a pensare che c’è qualcosa di mostruoso in questa situazione, in questa persona, io non sono così, deve esserci qualcosa di marcio in lui, nella sua famiglia, chissà che genitori ha avuto, delinquenti, drogati, alcoolisti, analfabeti…

Ma poi no, non si vede niente di tutto questo e allora? deve essere mancato qualcosa…io faccio lo psicoanalista…lo so che Freud dice delle cose verissime che ho constatato, quando parla di tappe di sviluppo…di fasi non facili da superare in cui la mancanza di attenzione, di ascolto, dello sguardo e dell’abbraccio dei genitori priva chiunque del collante necessario a tenere in piedi la struttura della personalità che allora diventa fragile, precaria, con una solo apparente normalità.

Ma allora può essere vero che “Chiunque, con un buon motivo e in una brutta giornata, può diventare un assassino” (Inside man, 2022).

Edvard Munch, L'assassino, 1910

Dovrei fare ancora un altro sforzo per non pensare che quel ragazzo potrebbe essere mio figlio (quante volte posso aver fallito nel mio ruolo di padre senza che me ne sia mai reso conto?) o, peggio, che il suo gesto distruttivo possa aver cancellato la vita di mia figlia, una ragazza più o meno della stessa età di quella che lui prima dice di aver amato e che poi ha ucciso.

Un difficile mestiere il nostro, che deve trovare delle risposte e magari anche delle soluzioni che tutti in questi casi sembrano avere in tasca… interveniamo nelle famiglie, nelle scuole, nelle istituzioni, facciamo protocolli, stabiliamo pene più severe… insomma facciamo qualcosa, svegliamo le coscienze, non facciamo un minuto di silenzio, facciamo rumore…

 

Ecco, questa cosa del fare e del rumore mi ha fornito un aggancio in un momento in cui l’orrore ha paralizzato il pensiero di un’intera popolazione che ha sperato, immaginato, fantasticato… ha tenuto in vita un pensiero simbolico finché la realtà non lo ha vanificato, congelandolo, concretizzandolo in quelle descrizioni crude, in una conclusione senza speranza.

Perché fare è in opposizione al pensare, alla possibilità cioè di elaborare mentalmente i conflitti e poi alla possibilità del confronto con l’altro, di mettere in parole la frustrazione o la rabbia, la speranza o l’illusione…perché, come dice Shakespeare nell’exergo…se non si dà parola al dolore il cuore si spezza.  

Il rumore invece richiama all’importanza fondamentale del silenzio che può fare paura perché ci mette a confronto con il nostro mondo interno, inconscio, in cui albergano i fantasmi dei nostri vissuti più profondi.

Uno sguardo nell’abisso in cui solo però possiamo trovare delle risposte che la coscienza tende a non vedere, che non vuole vedere, che non può vedere.

E ancora il silenzio delle pause è necessario alla musica perché non sia solo rumore…la musica fa parte delle prime esperienze sensoriali all’interno dell’utero materno…il suono della voce della madre, il ritmo del cuore sono l’imprinting sonoro che ci accompagnerà tutta la vita e sarà la colonna sonora del nostro mondo affettivo…richiamerà ogni volta quel senso di sicurezza e di accoglimento che abbiamo sperimentato all’origine della vita e che continueremo a cercare.

È questo il senso più intimo della musica, essere un contenitore rassicurante delle emozioni, in ogni epoca della nostra vita, da quella più spensierata dell’infanzia a quella più trasgressiva dell’adolescenza, in cui ci formiamo il nostro gusto musicale parallelamente alla messa a fuoco della nostra identità.

Un periodo fondamentale l’adolescenza, come sappiamo, uno spartiacque tra il periodo in cui prevalgono i bisogni (mangiare, bere, dormire, avere affetto, essere ascoltati, essere visti) e dovremmo avere chi se ne prende carico e quello in cui cominciamo a formulare i nostri desideri, qualcosa che deve essere solamente nostro e dovremmo essere in grado di gestire con autonomia, facendo i conti con le difficoltà e le frustrazioni che il mondo esterno ci mette davanti continuamente.

Sandu Andrei, Omicidio e punizione, 2018

Ogni epoca è stata caratterizzata da generi musicali diversi che, di volta in volta hanno permesso agli adolescenti di trovare uno stile adatto al loro tempo.

Negli anni ’70 si ascoltava prevalentemente la musica rock, in cui i testi erano ridotti all’osso e prevaleva la musica, oggi prevale il genere rap in cui il testo la fa da padrone, ma in tutti e due i casi il bisogno era ed è quello di esprimere il disagio di quel periodo di passaggio.

È in questa fase che l’individuo va incontro ad una crisi che può evolvere in tanti modi, da quello più equilibrato e sano, a un assetto più conflittuale e nevrotico, ad uno più francamente patologico.

Ma vi è un’altra possibile evoluzione, quella deviante, che passa più sotto silenzio, nascosta e può rivelarsi solo con piccoli segni, spesso non visti o visti e denegati, che poi esplode all’improvviso, a ciel sereno, creando incredulità e paura (era una così brava persona).

In questi individui, in cui la funzione simbolica viene meno, verrebbe da pensare che non ci sia stata la possibilità di gratificare fino in fondo, a tempo debito, i bisogni necessari e che quindi sia mancato quel supporto affettivo in grado di fornire quella funzione necessaria di contenimento, rassicurazione ed espressione delle emozioni che la musica poi rappresenta in modo simbolico.

In particolare mi viene da pensare che in quel lungo viaggio in auto di cui abbiamo letto con ansia per giorni nei giornali, l’autoradio sia stata spenta.

“L’uomo che non ha musica in sé stesso, che l’armonia dei suoni non commuove, sa il tradimento e la perfida frode. Le sue emozioni sono una notte cupa. I suoi pensieri un Erebo nero. Alla musica credi, non a lui”. (W. Shakespeare, 1596-1598)

 

Tra le poche funzioni riabilitative che il carcere reale è in grado di fornire, per permettere di scardinare i lucchetti delle gabbie mentali in cui i detenuti sono chiusi, sono quelle attività legate all’arte, in particolare il teatro e la musica e di questo ci sono infiniti esempi su cui non mi soffermo.

 

Per qualche mese ho seguito un giovane musicista immigrato, in carcere per piccoli reati legati alla sopravvivenza, che ha raggiunto una tale padronanza della lingua italiana da potersi permettere di scrivere delle barre di testo che poi inserisce nelle sue canzoni.

Durante la sua permanenza in carcere ha continuato a scrivere canzoni che poi mi cantava durante i nostri colloqui, alternando discorsi sulla musica a quelli sulla religione in cui credeva in modo mistico, del tutto avulso da dinamiche intransigenti o radicalizzate.

Prima di uscire mi ha lasciato un po’ dei suoi testi insieme ad un corano con traduzione in italiano a fronte, un modo per stabilire un contatto che è andato oltre i confini della stanza con le sbarre all’interno del quale abbiamo svolto i nostri colloqui e che ha dato un senso e una prospettiva al percorso fatto in carcere. 

 

Il rap non è tale se non crea resistenza

Fa paura come fosse un clandestino

Preferisco seppellire la mia esistenza

Prima che le mie rime facciano l’inchino

 

Il rap qui sfida la vostra indifferenza

La mia disperazione, il mio dubbio assassino

Il rap è nato sotto forma di protesta

L’hanno trasformato in un volgare insulto

Trapper selvaggi nella mia testa

Stanno derubando un luogo di culto

Si coprono di tatuaggi e alzano la cresta

Seminando indifferenza tra il giovane e l’adulto

Ma c’è chi al suo stile attaccato resta

E chi con le parole commette un furto

 

Il mio track è metafora detta d’un vecchio

Parole che non trovi manco nel dizionario

Lo legge chi riflette le parole sullo specchio

Il perché sono arabo e m’iscrivo al contrario

 

Il rap ormai un cadavere maleodorante

I corvi attorno si azzannano come iene

Parole di odio che inquinano l’ambiente

Ma le rime come anelli compongono catene

 

M’hanno detto non sei rapper né un artista

Hanno scritto il mio nome a capo della lista

Mi stanno trattando come fossi un terrorista

Il mio track sta spassando il tray fuori pista

E tutto ciò è solo un vostro punto di vista

                                                           (Najib)

 

Jean-Michel Basquiat, Notary, 1983

Ci sarà un processo, un Super Io reale che quantificherà la colpa in anni da passare chiuso in una gabbia di cemento che si sovrapporrà a quella mentale.

Ci saranno ancora tante parole, tanto rumore per cercare di coprire quel silenzio che fa paura, che ci parla di una vita che si è spenta e di altre che navigano nel buio, travolte da dinamiche intrapsichiche complesse, che avranno bisogno di anni per essere riconosciute, forse e poter essere superate un giorno, a fronte di un dolore che non si supererà mai.

Ecco dunque che al di là di tutte le iniziative legate al fare, l’approccio psicoanalitico è l’unica strada possibile per avere una prospettiva di recupero di quella funzione simbolica che, come la musica, può permettere di uscire da quel carcere interno in cui l’assenza di pensiero ha generato un mostro.

 

Bibliografia

Cleckley H. (1982) “The mask of sanity” (Echo Point Book and Media)

Shakespeare, W. (1606) “Macbeth, Atto IV, scena III” (Sansoni)

Shakespeare, W. (1596-1598) “Il mercante di Venezia, Atto V (Sansoni).

Filmografia

Inside man, 2022, Netflix

Massimo De Mari, Padova

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massimodemari@gmail.com

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