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Il metodo cubista

di Franca Munari

il metodo cubista
Il metodo cubista Franca Munari

Il piccolo volume edito da SE nel 2002 Conversazioni ripropone un ciclo di letture che Merleau-Ponty filosofo, esponente della fenomenologia francese, tenne il sabato alla radio nazionale francese dal 9 ottobre al 13 novembre 1948, registrate per la trasmissione dal titolo “Heure de culture française” e pubblicate dalle Éditions du Seuil  nel 2002 con il titolo Causeries 1948, dove causeries, sarebbero in realtà ‘chiacchierate’ e non ‘conversazioni’…

Alcune considerazioni di questo autore sul vedere e tradurre su una tela del pittore, mi hanno indotto a una riflessione sul metodo psicoanalitico.

 

Ne è un esempio quella che potremmo definire come la coerentizzazione semplificante della prospettiva che veniva a realizzarsi nel “paesaggio classico” versus l’“errore prospettico” del “dopo Cézanne” quando cioè, ciò che veniva ricercato erano la “realtà” e la dinamica del percepito.

In particolare la felicità del cubismo, del metodo cubista, consisterebbe nella decoerentizzazione dell’immagine (del racconto nel nostro caso) e nella cattura delle differenti prospettive sull’oggetto e delle loro possibili coesistenti sovrapposizioni (come nel nostro caso).

 

Da Conversazioni. Esplorazioni del mondo percepito: lo spazio.

“L’insegnamento classico della pittura è fondato sulla prospettiva – il pittore decide, ad esempio in presenza di un paesaggio, di riportare sulla tela solamente una rappresentazione del tutto convenzionale di quel che vede. Vede l’albero vicino, poi fissa il suo sguardo più lontano sulla strada, poi lo spinge verso l’orizzonte e, a seconda del punto che fissa, le dimensioni apparenti dei vari oggetti sono di volta in volta modificate. Sulla sua tela cecherà di trovare un compromesso fra questi diversi punti di vista… attribuendo a ciascun oggetto non la dimensione e i colori e l’aspetto che esso presenta quando il pittore lo fissa, ma una dimensione è un aspetto convenzionali, quali si darebbero a uno sguardo fisso sulla linea dell’orizzonte. (corsivo aggiunto)” (Merleau-Ponty 1948, 25-26).

 

Al fruitore del quadro non viene chiesto alcuno sforzo di adattamento a una percezione altrui, artista e fruitore si adeguano alla convenzione, si accomodano su uno pseudorealismo impossibile, convenzionale.

 

 “I quadri dipinti in tal modo hanno dunque un aspetto pacifico, decente, rispettoso che deriva loro dall’essere dominati da uno sguardo fissato all’infinito … Lo spettatore non è incluso tra loro Ma il mondo non si offre a noi in questo modo nel contatto percettivo che abbiamo con esso. In ogni istante quando il nostro sguardo viaggia attraverso quello scenario siamo assoggettati a un particolare punto di vista, e quelle istantanee successive, in parte derivate dal paesaggio, non si possono sovrapporre. Il pittore è riuscito a dominare quella serie di visioni e a trarne un solo paesaggio eterno solo a condizione di interrompere la modalità naturale della visione: spesso chiude gli occhi, misura con una matita la grandezza apparente di un dettaglio, che così modifica, e, subordinandoli tutti alla sua visione analitica, costruisce sulla tela una rappresentazione del paesaggio che non corrisponde a nessuna libera visione, ne domina lo svolgimento movimentato, ma così ne sopprime la vibrazione e la vita. Se molti pittori dopo Cézanne, hanno rifiutato di piegarsi alla legge della prospettiva geometrica, è perché volevano riappropriarsi e mostrare la nascita stessa del paesaggio, non si accontentavano di un resoconto analitico, volevano raggiungere lo stile di esperienza percettiva. Le differenti sezioni dei loro quadri sono dunque viste da punti di vista differenti dando allo spettatore non attento l’impressione di un “errore prospettico”, ma dando a coloro che guardano attentamente il sentimento di un mondo in cui due oggetti non sono mai visti simultaneamente, in cui, tra le varie parti dello spazio, si interpone sempre la durata necessaria per condurre il nostro sguardo dall’una all’altra, in cui l’essere non è dato ma appare e traspare attraverso il tempo. (corsivo aggiunto)” (ibid. 26-27)

 

Indispensabile assecondare le proprie percezioni e il proprio “allucinatorio”, la propria visionarietà, nell’ascolto analitico. Fidarsi delle sovrapposizioni,   sostituzioni (associazioni) che accadono; decontestualizzare il racconto, frantumarlo nei suoi elementi, per poterlo guardare e vedere nel suo spessore, nelle differenti sue facce.

 

Come nei D’après di Picasso su Las Meninas di Velasquez.

Diego Velasquez, dettaglio da “Las Meninas”, 1656-57

Las Meninas è un ciclo di 58 dipinti e studi realizzati da Picasso a partire dal 1957. Come per Guernica, nella prima grande tela della serie, Las Meninas, Picasso si serve di un ingrandimento in bianco e nero del quadro di Velázquez.

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Pablo Picasso dettaglio da “Las Meninas”, 1957

Nello scheletro della narrazione, gli elementi vengono conservati, ma trasformati e altrimenti disposti e dimensionati, alcuni vengono completati, di altri rimane solo la sagoma, alcuni vengono sostituiti, ad esempio il bassotto di Picasso, Lump, prende il posto del mastino spagnolo del quadro di Velasquez.

 

Così accade nel lavoro analitico, in un primo ascolto nel quale è difficile porre i colori, e anche le forme di alcune parti del racconto del paziente restano solamente delle sagome incompiute, o vengono “automaticamente” sostituite…

 

Solo il tempo renderà conto, e darà origine a forme compiute, altre forme compiute  esito di quello che i Botella hanno definito come “lavoro in doppio” dove l’analista mette a disposizione il suo psichismo per riflettere in sé ciò che nell’altro è solo potenziale e lo può fare solo tramite la sua possibilità di tollerare la regressione formale e di avventurarsi verso quell’ignoto dal quale potranno sorgere nuovi legami e nuovi contenuti in quel processo che non a caso viene definito come raffigurabilità. (Botella 2001)

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Pablo Picasso, dettaglio da “Las Meninas”, 1957

In una versione successiva, a colori, come la maggior parte delle opere di questo ciclo, il re e la regina non sono più immagini allo specchio, ma personaggi presenti nel quadro, il bassotto e un’altra figura restano forme di immagine incompiute, raffigurazioni di “fantasmi” dell’autore, viene da pensare.

 

l’essere non è dato ma appare e traspare attraverso il tempo.

 

“Lo spazio non è più questo ambito di cose simultanee dominabile da un osservatore assoluto egualmente vicino a tutte, senza un punto di vista, senza corpo, senza situazione spaziale, pura intelligenza, in ultima analisi – lo spazio della pittura moderna, diceva recentemente Jeal Paulhan (1948) è lo “spazio sensibile al cuore” in cui anche noi siamo situati, vicino a noi stessi; uno spazio organicamente legato a noi. “E’ possibile che in un’epoca votata la misura tecnica e come divorata dalla quantità” aggiungeva Paulhan “il pittore cubista celebri, a modo suo, in uno spazio conciliato più con il nostro cuore che con la nostra intelligenza, qualche tacito matrimonio, qualche riconciliazione del mondo con l’uomo.” (corsivo aggiunto)” (ibid.27-28)

Ugualmente l’analista in ascolto celebrerà, nello spazio del suo sentire, i suoi morganatici e bigami e transitori matrimoni fra il corpo, la mente e gli affetti; sovrapponendo il passato, anche il suo passato, e l’attuale del transfert otterrà lo spessore di nuove inaudite prospettive.

 

Bibliografia

Botella C. e S. (2001) La raffigurabilità psichica. Borla, Roma, 2004.

Merleau-Ponty M. (1948) Conversazioni. Trad it. SE srl, Milano, 2002

Paulhan J. (1948) La Peinture moderne ou l’espace sensible au coeur. La Table ronde, n.2, febbraio, 1948.

 

Franca Munari, Padova

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franca.munari.ls@gmail.com

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