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Il Master di Ballantrae
di Robert Louis Stevenson

Recensione di Mirko  Trivisani

Il Master di Ballantrae  

Robert Louis Stevenson 

Trad. it. Simone Barillari

(1889) Roma, Nutrimenti, 2012.

pg.312

J.D.

Erede di un titolo scozzese,

signore delle arti e delle grazie,

ammirato in Europa, Asia e America,

in pace e in guerra,

nelle tende dei cacciatori selvaggi

e nelle cittadine dei Re,

dopo tante avventure imprese e cimenti,

qui giace dimenticato.

H.D.

Di lui fratello,

dopo una vita di immeritati patimenti

coraggiosamente sopportati

morì quasi nella sua stessa ora

e dorme nello stesso tumulo

del suo fraterno nemico.

 (Stevenson, 1889,251)

Questa l’iscrizione funeraria che il fedele servitore della potente e aristocratica famiglia scozzese Durie di Durrisdeer e Ballantrae fa incidere nella pietra quando ormai la vicenda è giunta al termine. L’uno, bello, colto e affascinante, ammirato e temuto da molti, figlio amato, dissoluto, dissipatore dei beni aviti, essere dalla proteiforme e inesauribile malvagità. Egli è James Durie, primogenito e pertanto naturale erede del titolo di Lord, il Master, per suo fratello Henry l’incarnazione stessa del Maligno. Henry Durie è invece il secondogenito, la cui identità non è possibile definire se non in relazione al primo, è il di lui fratello; il viso né bello né brutto né tantomeno allegro, all’apparenza solido e rispettabile, privo di doti, attento e diligente amministratore del patrimonio di famiglia.

 

Il Master di Ballantrae, pubblicato da R.L. Stevenson nel 1889, appena due anni dopo aver dato alle stampe Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde, si inserisce, a mio parere, nel solco della ricca tradizione narrativa del doppio, assai prolifica in quegli anni, in cui il sinistro doppio si scinde dall’Io per diventare autonomo e visibile, ombra, immagine riflessa, sosia o fratello che sia. Rank, in un libro diventato un classico, ha tentato di redigere un catalogo della straordinaria quantità di materiale letterario presente sul tema (Rank, 1914), esponendo altresì la sua tesi psicoanalitica poi ripresa e ampliata da Freud (1919).  

 

Non riassumerò l’avvincente trama, che origina e si conclude in un fulmineo e inquietante io sono te, bensì racconterò alcune delle associazioni che la lettura delle belle pagine di Stevenson ha suscitato in me.

La prima associazione riguarda una particolare declinazione del concetto di immagine. Nella Grecia arcaica il termine eidolon, l’immagine, veniva utilizzato per indicare una categoria psicologica, quella del doppio, che comprende la psyché, l’ombra, l’immagine del sogno, il fantasma e il kolossós (Vernant, 1965). Quest’ultimo, strettamente associato alla psyché, è una delle forme che essa può assumere quando si rende visibile agli occhi dei vivi. Il kolossós è infatti una lastra di pietra piantata nel suolo o sotterrata, e costituiva il sostituto del cadavere del defunto quando questo non era reperibile perché perito in terre lontane o non era stato possibile individuare il corpo. Ciò che esso incarna e fissa nella pietra non è l’immagine del defunto ma la sua vita nell’aldilà, è un doppio, come il morto stesso è un doppio del vivo. Scrive Vernant (1965, 348) «Il doppio è una realtà esterna al soggetto, ma che, nella sua apparenza stessa, s’oppone, per il suo carattere insolito agli oggetti familiari, allo scenario consueto della vita. Esso si muove su due piani contrastanti ad un tempo: nel momento in cui si mostra presente, si rivela come qualcosa che non è qui, come appartenente ad un inaccessibile altrove» (cit. in Munari, 1996,98). Questa la caratteristica che assume a mio parere il personaggio di James dal momento in cui, assieme a suo fratello Henry, decidono di scambiarsi i rispettivi ruoli: il primogenito rifiuta di assumere i doveri che la primogenitura imporrebbe e il secondogenito, apparentemente di malavoglia, diviene il detentore del titolo che avrebbe dovuto essere di suo fratello. James diviene quindi un eidolon, un doppio odiato, inafferrabile e indistruttibile. L’eidolon di James inizia a perseguitare implacabilmente, con la presenza e con l’assenza, il povero Henry che diviene sempre più preda di un feroce odio. In una fredda notte d’inverno i due si sfidano a duello, Henry crede di aver ucciso il Master, abbandona la spada insanguinata, il corpo del fratello è riverso per terra ma, un momento dopo, il corpo scompare, diviene inafferrabile, ridiventa eidolon. Un profondo e consapevole sgomento pervade allora Henry.   

 

In una scena letteraria, per molti aspetti profondamente diversa e distante dal duello appena descritto, accade tuttavia qualcosa di simile: questa volta i due non si odiano, si amano, uno dei due, Patroclo, è perito, l’altro, Achille, è inconsolabile. Achille, addormentatosi dopo una lunga notte di lamentazioni, vede innalzarsi davanti a sé l’eidolon di Patroclo (cfr. Omero, 59-107). Quello che Achille vede è Patroclo in persona, la sua statura, i suoi occhi, la sua voce, il suo corpo ed i suoi vestiti. Tuttavia, quando vuole abbracciarlo, l’eidolon si rivela inafferrabile: «è un fumo, che scompare sottoterra, con un piccolo grido, come di pipistrello. C’è dunque  nell’eidolon un effetto d’inganno, di delusione, di adescamento: è la presenza dell’amato ma è anche la sua irrimediabile assenza; è Patroclo in persona, ma anche un soffio, un fumo, un’ombra o il volar via di un uccello» (Vernant,1965, 349).    

 

Henry sopporta stoicamente le ingiurie del Master, paga, moralmente e materialmente, per le sue malefatte, giungendo al punto di violare per lui l’antico principio di inalienabilità del patrimonio. Henry sembra odiare suo fratello; qualcosa di ambiguo, tuttavia, traspare dalla solerzia con cui accetta i suoi maltrattamenti e le sue persecuzioni. Scrive Green a proposito del protagonista de Il Sosia di Dostoevskij: «Goliadkin vuole odiare il Doppio, ma lo ama. […] Esso (il doppio) riflette in modo del tutto esatto ciò che Goliadkin non vuole essere, tutto ciò che nega di essere e che rigetta al di fuori di sé. Seducente, scroccone, burlone, buon parlatore, spiritoso, il Doppio è prima di tutto seduttore. […] Alienato dalla sua immagine speculare, questa gli rimanda ciò che in lui è precluso: il suo immenso bisogno di amore» (Green, 1992, 309-10). Il Master è presente nelle menti del padre e della stessa moglie di Henry anche e soprattutto quando è fisicamente assente, occupa stabilmente un posto che ad Henry è precluso e inaccessibile. Se da un lato Henry è stimato, quantomeno come amministratore della proprietà, dal padre e dall’unica donna di casa, che poi diverrà sua moglie, una sottile ma chiara distanza emotiva lo separa dal nucleo essenziale del loro cuore, il quale è già invariabilmente occupato. 

 

 Interessante la ripetizione che Henry attuerà verso la fine della sua vita con i suoi due figli, riversando un amore smisurato sul primogenito maschio e ignorando crudelmente e quasi inconsapevolmente l’altra sua figlia.

Intensa, cocente, deve essere stata l’invidia che Henry ha provato nei confronti del fratello. Suo l’intero patrimonio, suo il titolo della famiglia, quindi la possibilità di identificazione con il padre, suo l’affetto del padre e dell’unica donna di casa, sulla quale sembrano condensarsi le figure della madre, della sorella e della moglie. Melanie Klein, analizzando l’inquietante romanzo Se fossi in te… di Julien Green, scrive: «Avidità, invidia e odio, i promotori fondamentali di fantasie aggressive, spingono il protagonista a divenire possesso di un’altra persona, […] questi sentimenti lo conducono verso ciò che ho descritto come identificazione proiettiva (Klein,1972, 102, corsivo mio). L’identificazione per mezzo della proiezione comporta la combinazione di due processi, la scissione di parti del Sé e la loro proiezione su (o meglio in) un’altra persona» (ibidem, 83). Il Master diviene pertanto agli occhi di Henry l’oggetto idealizzato, il quale è sempre doppio, «L’oggetto idealizzato non può che essere ambivalente. Da un lato esso contrasta in parte le angosce persecutorie, ma dall’altro è a sua volta persecutorio, poiché contiene alcuni forti elementi tirannici non scissi» (Begoin, cit. in Kristeva, 2000,113). Il Master continuerà infatti implacabilmente a perseguitare Henry sino al punto decisivo, a cui assiste il fedele servitore, in cui l’identificazione proiettiva, al suo apice, sembra concretamente cortocircuitare attraverso gli occhi dei due protagonisti che tornano quindi ad essere un’unica persona:

“… era ancora notte, e la luna, pur essendo ormai molto bassa, non era ancora tramontata e gettava sul pianoro lunghe ombre: e allora mi parve, sporgendomi a guardare, di scorgere un mutamento nell’algido volto dell’uomo insepolto – un vago fremito delle palpebre, che quindi si aprirono del tutto e per un attimo mi fissarono. Allo schiudersi degli occhi del morto Lord Durrisdeer cadde al suolo, e quando lo sollevai era ormai cadavere” (Stevenson, 1889,250).

 

Bibliografia

Begoin F. (1991). Melanie Klein aujourd’hui. Seuil, Paris. 

Freud S. (1919). Il Perturbante. O.S.F., 9.

Green A. (1992). Slegare. Psicoanalisi, antropologia e letteratura. Roma, Borla, 1994.

Klein M. (1972). Sull’identificazione. In Klein M. Il nostro mondo adulto ed altri saggi. Firenze, Martinelli, 1972.

Kristeva J. (2000). Il genio femminile. Melanie Klein. Roma, Donzelli,  2006.

Munari F. (1996). Le Kolossòs. Forme du double et relation narcissique. Revue Française de Psychanalyse, 60(1):97-110.

Omero. Iliade. A cura di Sciutto S., trad. Vincenzo Monti. Torino, Società Editrice Internazionale, 1932.

Rank O. (1914). Il Doppio. Uno studio psicoanalitico. Milano, SE Edizioni, 2001.

Stevenson  R. L. (1889).  Il Master di Ballantrae.   Milano,  Garzanti, 2000.

Vernant J.P. (1965). Mito e pensiero presso i greci.  Torino, Einaudi,1970.

Mirko Trivisani , Padova

mirkotrivisani@ordinepsicologiveneto.it

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