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Il GRANDE MALE di David B.

di Anna Cordioli

Era la fine degli anni novanta quando un’amica illustratrice disse: “Ma lo sai che c’è un francese che sta scrivendo una graphic novel sulla sua famiglia? Pensa! Un fumetto autobiografico! – al tempo erano una rarità- Esce a puntate, si chiama ‘Il Grande Male’. Parla di lui da bambino che cresce con un fratello epilettico. E’ un capolavoro. Credimi! Va assolutamente letto!”.

Al tempo erano usciti forse i primi albi in francese e per varie ragioni persi il colpo. Ma, si sa, le cose importanti prima o poi tornano e quando venne pubblicata in un unico volume la versione italiana dell’opera, qualcuno me la regalò.  Erano passati 15 anni, “Il grande male’ aveva vinto premi, era diventato un vero classico e aveva contribuito a far uscire le graphic novel dal ripostiglio delle “sottoculture”. Soprattutto, a distanza di tutti quegli anni, era ancora vero il viatico della mia amica: quel libro andava assolutamente letto.

Interno notte. Un uomo si lava i denti prima di andare a dormire. Entra un energumeno malconcio, sdentato, gonfio per i farmaci. Sembra tutto corpo. I due scambiano qualche semplice parola mentre il primo descrive, per me che guardo, i segni sul corpo del fratello. Cicatrici e ferite sono indizi corporei di tracce ben più profonde. I due si salutano. Inizia la notte e inizia la storia.

Senza alcuna introduzione vengo catapultata nei ricordi di David. Ha 5 anni, è il 1964, siamo ad Orleans. In quel momento l’infanzia scorre ancora ignara. David ha sempre molte idee per i giochi, ricorda i propri sogni come fossero accadimenti reali e sa tutto sulle guerre. Il suo compagno di avventure è, Jean-Christophe, suo fratello maggiore, il suo idolo. C’è anche una sorellina minore, di 4, buona e inerme, perfetta vittima dei due monelli.  David osserva il mondo e lo disegna: le avventure che traccia sono un magma di rielaborazione e di scarica del proprio mondo interno. Per lui l’infanzia è una cavalcata in mezzo alle orde barbariche: ne sente la violenza primordiale, l’inevitabilità e la stranezza.

Un giorno, mentre i fratelli giocano, Jean-Christophe si sente male. David corre a chiedere aiuto. Gli adulti cercano di minimizzare ma David in cuor suo sa cosa è successo: “È stato rapito da un tifone, sono sicuro!”. In effetti, da quel momento, la vita comincia a turbinare ed inizia quello che David chiama il girotondo dei medici. La diagnosi sarà ‘Grande Male’: con questo termine viene chiamato un tipo particolare di epilessia, caratterizzata da perdita di coscienza, crisi convulsive, perdita di controllo degli sfinteri e morso della lingua. Varie volte vedremo Jean-Christophe avere di questi attacchi, al punto che dopo un po’ basterà un dettaglio per farci intuire tutto. Ed è così che comincerà a vivere David: attento a ogni dettaglio del fratello.

 

Il grande male è anche il tifone che si abbatterà sull’intera famiglia e colpirà ciascuno, orientando i destini di tutti attorno alla malattia di Jean-Christophe. La famiglia proverà ogni tipo di cura. Questi pellegrinaggi, misti di esasperazione e speranza, finiscono per mostrarci una carrellata di metodi e epistemologie molto in voga negli anni 60 e 70: da chi prospetta lo splitting chirurgico del cervello, agli approcci antipsichiatrici di Deleuze e Guattari, da chi utilizza le diete macrobiotiche a chi scaccia i fantasmi. La malattia di Jean-Christophe spinge la famiglia a continui cambi di orizzonte, rivoluzioni anche destabilizzanti, nel tentativo di arginare il grande male. Attacco dopo attacco, dolore dopo dolore, l’epilessia finirà per diventare il principale argomento famigliare e l’organizzatore di ogni decisione. David racconta tutto questo dal suo punto di vista, quello di un bambino, di un fratello e di un figlio che ha bisogno di capire e che ha sempre meno spazio per occuparsi delle proprie guerre.

Il racconto è soprattutto il tentativo di David di dare rappresentazione ai continui traumi che lui stesso vive e a cui deve far fronte, in fondo, da solo poiché i genitori sono occupati ad aiutare Jean-Christophe.

David è quello che oggi chiameremo un sibling, un fratello di un paziente con gravi disabilità già in età evolutiva. Crescere con a fianco un fratello o una sorella malati comporta una condizione di grande dolore che spesso rimane in secondo piano. Le famiglie, stritolate dalle preoccupazioni e dalla gestione pratica del figlio malato, non ha le risorse per sostenere i figli sani nelle loro traversie.

Anche i genitori più attenti e consapevoli giungono ad esaurire le loro forze genitoriali e i siblings sviluppano spesso una acuta sensibilità per il dolore dei genitori, estraniandosi dal proprio. Questo spinge questi ragazzi a sentirsi soli ed angosciati, agendo come se dovessero a loro volta preoccuparsi di funzionare bene per non affaticare ulteriormente mamma o papà.

Nei casi più fortunati, questi ragazzi sentono l’importanza di trovare una forma rappresentabile alla loro sofferenza che sarebbe altrimenti senza contenimento. È questo il caso di David che usa il disegno come organizzatore del proprio mondo interno. In particolare riversa nelle tavole tutte le guerre, i mostri e i ricordi traumatici come per trovare loro un posto.

David è  un bambino che non ha paura dei mostri, ha imparato a farseli amici, e li interpella o si fa accompagnare da loro quando serve. Ma soprattutto David non perde il contatto con la propria aggressività, non la nega, e anzi la traduce in slancio creativo.

 

 Durante il romanzo, David cresce e diventa un disegnatore che cerca di mostrare, una tavola dietro l’altra, “cosa c’è nella sua testa”. Con una onestà che nasce da una lunga perlaborazione, David usa il libro che scrive come una forma di autoanalisi e riesce a trovare un modo per rappresentare non solo il dolore ma anche i sogni, le fantasie, l’imbarazzo, le proprie meschinità e le proprie crescite. Alla fine anche il corpo psichico di David è  colmo di cicatrici…

Riesce, ad esempio, a raccontare, come in una confessione trasognata, quei momenti in cui la rabbia aveva preso il sopravvento e lui stesso si era trovato ad essere il persecutore di qualcuno. E’ particolarmente amara e vera la scena in cui David bambino, esasperato da un’inezia e teso per il modo in cui la malattia di Jean-Christophe aveva cambiato tutto,  si avventa contro il fratello e gli causa volutamente una crisi. Che sia realmente accaduto o che sia un ricordo creato in apres coup a partire da fantasie, questa scena ci mette a contatto con un vissuto spesso molto presente nel vissuto dei sibling.

David però  non rinuncia a voler esistere come individuo e trova sollievo proprio nel disegno, nelle rabbie e nella storia della propria  famiglia. Si immagina la vita delle generazioni prima della sua e cerca un suo posto nel lungo flusso di visi, guerre, sorti che lo hanno preceduto.  David ha una personale intuizione del traumatico transgenerazionale (da poco è  finita la guerra mondiale) e questo lo porta ad ascoltare dolori che non sono del tutto suoi, né dei propri genitori, e che però confluiscono nella battaglia contro il grande male. Ad esempio c’è un nonno che, un po’ come lui, è uscito indenne da un assalto militare: le pallottole hanno sempre colpito vicino ma mai lui. È il mistero di essere stato schivato dal proiettile della malattia: una sorte per cui non ci si riesce a prendere meriti e che non fa sentire davvero fortunati. David trova un inconsapevole conforto a non essere l’unico a sentirsi così. Questo avere un posto nella storia lo contiene e gli permette di proseguire la sua strada. Diviene amico delle proprie ombre mentre cerca un modo per tollerare anche la realtà.

Il grande male va assolutamente letto, aveva ragione quella amica.

L’ intelligenza, la profondità e l’onestà dell’autore ci permettono di conoscere una vicenda dai tratti universali, senza mai provare pena.

Il linguaggio che usa David è quello di chi si riconosce umano tra gli umani, di chi usa comunque quel che ha per diventare grande. Nel libro, poi, come accade in analisi, si è  stimolati a pensare, a sognare, ad esistere e anche a ridere, nonostante le fatiche della vita.

Un’ultima suggestione per chi si interessa al processo di rappresentabilità psichica. In un passaggio del libro, David viene a sua volta attenzionato dai curanti, preoccupati per la dolorosa situazione familiare. La psicologa gli chiede di fare un disegno, cosa che lo lascia sorpreso visto che lui fa già di continuo. In un secondo momento la dottoressa gli chiede di scrivere qualcosa circa le immagini prodotte.

Qui, le vignette si tingono di una sottile e squisita ironia, con cui David abitualmente mostra e nasconde le emozioni.

David adulto, infatti, ci mostra la prima volta in cui, per lui, disegni e parole si sono uniti ma ce lo dice attraverso il ricordo di sè bambino, arrabbiato e scomodo nelle intimità, che non avrebbe certo accolto facilmente l’aiuto di nessuno: ” Scrivere sopra un disegno!- si legge nel baloon- Questa psicologa manca di psicologia!”

Mettere parole su un’immagine appena abbozzata, mettere parole su un dolore, mettere parole su ciò che ci scuote e ancora non ha nome…Non è forse questo che ci sforziamo di fare?

 

 

 

Anna Cordioli, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

annacordioli@yahoo.it

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