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“I fiori blu.”
di Raymond Queneau

Recensione di Alberto  Schön

 “I fiori blu.”

 Raymond Queneau

1965, Gallimard, trad. It. Italo Calvino, 1967, Einaudi

pagg. 207 

Due personaggi. Uno è il nobile Duca d’Auge nel 1264, combattivo e viaggiatore, l’altro è Cidrolin, un modesto parigino dedito alla siesta sulla sua chiatta immobile. Hanno in comune il nome Joachim, una netta propensione alcoolica per il vino o l’essenza di finocchio, il pastis, cioè Pernod diluito e opalescente, e soprattutto per i sogni in cui ciascuno sogna l’altro. Nel romanzo il Duca attraversa il Rinascimento e la Rivoluzione francese fino ai giorni nostri, quando incontrerà il suo sognatore complementare.

Fin dalla prima pagina si resta affascinati per la ricchezza dei giochi di parole, cui Calvino riesce a fornire una traduzione acrobatica e creativa. Per esempio “Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due, poco distante un Gallo, forse Edueno […] qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo.”

Ma procedendo nella lettura si ammira la meticolosa precisione lessicale, anche quando Queneau inventa parole che tuttavia possiamo capire. Meno evidente ma molto ben pensata la struttura del romanzo con fiori blu all’inizio e alla fine, che nascondono una citazione da Baudelaire, “Loin! Loin! Ici la boue est faite de nos pleurs” Lontano! Qui il fango è fatto con le nostre lacrime, ma pleurs diventa fleurs, così da essere discendenti dai fiori del male. Non basta. In francese les fleurs bleues indica uno stato d’animo melanconico, un po’ con in inglese I’m blue, e poi il blues.

Ci si diverte anche con il polilinguismo grossolano dei giovani turisti che per dire “ci siamo persi” dicono “nosotros sind lost … Comprì? Egarati, … lostati” e chiedono indicazioni per il “campo di campinghe per campisti”.

Citazioni e allusioni ad abitudini e vizi parigini sono sparsi in molte pagine. Dunque, un libro per lettori con cultura almeno media, ma molto divertente, ogni passaggio è trattato con una leggerezza che rende il tutto godibile, come per esempio il “Bar Biturico, un bar che vuole avere l’aria di somigliare agli altri bar.” O ancora lo stesso nome Cidrolin appare alludere al sidro e forse anche al buffo, si drôle.

Queneau osserva il mondo con distacco e ironia e anche con affetto per i difetti e i pregi umani, racconta eventi storici e superstizioni, si permette iperboli, forse avrebbe preferito ipperboli perché in effetti nel romanzo sono attivi due cavalli parlanti, spesso più sensati del padrone.

Un romanzo pieno di sogni, motti di spirito, piacere del gioco, attenzione a nascondere le proprie fantasie. Cidrolin si dice certo che misteriosi persecutori lo tormentano. Si potrebbe pensare che Queneau e Calvino, che facevano parte dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle) conoscessero bene i saggi di Freud del 1905-7, appunto “Il motto di spirito, ecc.” e “Il poeta e il fantasticare” (traduco alla lettera).

Il lettore trova da divertirsi, giocando assieme ad autore e traduttore.

Non ho idea se avessero letto questi o altri testi. Certo che, quando Cidrolin dice “I miei sogni, li scrivessi, farebbero un romanzo” e si sente rispondere “E non le pare che di romanzi ce n’è già fin sopra i capelli?”, Freud avrebbe il diritto di replica: “Allora ci vuole un saggio sull’interpretazione dei vostri sogni.” Lui che aveva confidato a Fliess di farne spesso di spiritosi.

 

foto di Alberto

Alberto Schön, Padova

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