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La strada dei ricordi

di Elisabetta Marchiori

hometown

Titolo: “Hometown – La strada dei ricordi” (“Polanski, Horowitz. The Wizards from the Ghetto”)

Dati sul film: regia di Mateusz Kudla & Anna Kokoszka-Romer, Polonia, 2021, 75’

Genere: documentario

 

Trailer: 

“Per sapere occorre immaginare”, scrive Didi-Huberman nell’incipit del suo libro “Immagini malgrado tutto” (2003), invitando il lettore ad accostarsi alla realtà dei campi di sterminio, per troppi inimmaginabile e per alcuni addirittura negata, attraverso “atti di memoria” dove “linguaggio e immagine sono assolutamente solidali e si soccorrono a vicenda” (p. 43).

In occasione della Giornata della Memoria del 2023 è uscito in sala, per soli tre giorni, il film “Hometown – La strada dei ricordi”, diretto dai due giovani filmakers polacchi Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer, presentato al festival del Cinema di Roma nel 2021.

È sparito subito dalla programmazione, avvallando i timori espressi da Liliana Segre riguardo il rischio di oblio. Se l’obbiettivo è quello di non dimenticare, è necessario che le persone abbiano la possibilità di vedere, ascoltare, pensare e, appunto, immaginare, non solo durante una ricorrenza dove troppi discorsi ormai sfumano in una retorica ridondante e, a detta della stessa Segre, “annoiano”.

Questo film, che tutti dovrebbero vedere, si disvela come un autentico e indelebile “atto di memoria”, in grado di attivare la capacità immaginativa e associativa dello spettatore attraverso una straordinaria sinergia tra immagini e parole che ne amplificano la potenza: poche fotografie sfocate e qualche frammento di film d’archivio — che evocano senza esporre le atrocità perpetrate dai nazisti — e parole, che costituiscono i dialoghi privi di enfasi dei protagonisti. Questi sono all’apparenza due anziani signori qualunque che passeggiano per le strade della loro città natale, Cracovia, parlando la loro lingua madre, il polacco (il film è in lingua originale, sottotitolato). Non è così: sono due “maghi”, due geni, due Maestri: il regista Roman Polanski, 89 anni, e il fotografo Ryszard Horowitz, 83 anni, amici d’infanzia sopravvissuti alla Shoa.

Horowitz è stato salvato dall’inferno di Auschwitz, dove era stato deportato a sei anni, insieme alla sua famiglia, grazie alla celebre Schindler’s list. Sul braccio porta ancora tatuato il suo numero, che aveva decretato la sua fine come essere umano: B14432.

Polanski invece, dopo che la madre è stata deportata ed è morta nelle camere a gas di Auschwitz, è scappato attraverso uno squarcio aperto dal padre nella rete di filo spinato, prima di essere condotto, proprio sotto gli occhi del figlio, sul treno per Mauthausen. La famiglia ariana pagata — con i pochi averi rimasti —- per accogliere il bambino si stanca presto di nasconderlo ed è l’umile famiglia contadina polacca Buchala a prendersi cura di lui.

Restando vivi malgrado tutto, hanno poi sfidato un altro regime, quello comunista, dedicandosi allo studio dell’arte e sviluppando la loro geniale creatività, fino a quando  hanno lasciato la Polonia, Polansky per continuare a girare i suoi film tra l’Europa e gli Stati Uniti, e Horowitz per stabilirsi a New York per perseguire la sua carriera nel campo della fotografia, dove è considerato uno dei pionieri del digitale. Ma questa è un’altra storia, che il film non racconta, soffermandosi invece sull’incontro di due uomini che sono stati bambini a Cracovia durante il nazismo e che tornano lì dove “ogni pietra ricorda qualcosa”. La voce affettuosa fuori campo del fotografo, più timido e più silenzioso rispetto al regista, mette insieme i fili dei discorsi che si dipanano tra loro contestualizzando le situazioni e facendo emergere i loro ritratti vitali: “Siamo il prodotto del passato, di quello che abbiamo vissuto”.

Polansky e Horowitz si riabbracciano dopo sessant’anni all’aereoporto di Cracovia ed è come non si fossero mai separati. In auto ricordano quante volte da bambini in quel cinema cui passano davanti hanno visto “Biancaneve” di Walt Disney (quante volte l’ho visto anche io da bambina!) e quando arrivano nel centro della loro città natale non la riconoscono più: “Ora sembra Disneyland” — dicono — quando era stato l’inferno — forse stanno pensando.

“È strano che siamo ancora qui, vero?”, chiede Polanski all’amico, mentre sono seduti davanti a un caffè. E lo spettatore capisce a poco a poco, seguendoli passo passo lungo il loro percorso, quanto sia davvero incredibile che siano lì, con quella luce d’infanzia negli occhi che brillano, mentre si scambiano sguardi d’intesa, cantastorie della vita, che nella loro arte hanno sublimato i traumi subiti.

Non hanno voluto dimenticare nulla: “I ricordi sono terribili, devo ammetterlo – dice Polanski – ma non li voglio cancellare. Voglio che mi restino nel cervello così come sono, senza deformarli. È per questo che non voglio farci un film: se dovessi ricostruire tutto artificialmente non mi resterebbe più nulla nella memoria”. Emergono quindi sotto forma di storie, quei ricordi terribili, e si mescolano ad altri più lievi, quasi di fiaba, di giochi di bambini, di momenti spensierati, di aneddoti tragicomici. Si trasformano nella mente dello spettatore in immagini nitide, vivide, come istantanee che il tempo passato non ha ingiallito.

Non piangono, non recriminano, non si lamentano: ripercorrono il crescendo di eventi che hanno vissuto — la fascia sul braccio, i divieti, la reclusione nel ghetto — fino alla costruzione del muro, con dignità, compostezza e, incredibilmente, persino ironia. È come se quel muro lo avessero costruito anche dentro di sé, estrema difesa psichica nel momento in cui “capimmo che le cose si stavano mettendo molto male”. ,

L’unico momento in cui è visibile la commozione di Polansky è durante la cerimonia in cui è stato conferito il titolo di “Giusto tra le Nazioni” al nipote superstite della famiglia Buchala, ritrovato grazie alla tenacia dei registi. È la gratitudine verso una famiglia che ha compiuto nei suoi confronti un sincero atto d’amore il sentimento che fa breccia in quel muro.

È quindi con leggerezza “pesante” che questo straordinario documentario offre allo spettatore un’occasione preziosa per tentare di mettersi nei panni di chi ha vissuto quell’orrore e di provare quella che è, forse, l’illusione di potersi avvicinare almeno un poco alle esperienze dei sopravvissuti. Lo fa toccando questioni fondamentali che riguardano ogni essere umano, non solo chi ha vissuto sulla propria pelle o porta come eredità transgenerazionale il trauma della Shoa. Si tratta dei ricordi d’infanzia “ancora intatti”, del tempo che passa portando cambiamenti, della ricerca di significato e del percorso evolutivo necessario per affrontare quanto di più terribile può accadere nella vita, degli sforzi a non soccombere al dolore, a perseguire la ricerca di una propria identità, a preservare i legami più precoci e salvifici, che consentono la condivisione.

Rimane addosso come un macigno la terribile constatazione di Horowitz: l’uomo non impara mai dal passato, la Storia immancabilmente si ripete. Ma quando Polansky gli chiede se vorrebbe rivivere la sua vita esattamente come l’ha vissuta, lui gli risponde: “Vorrei nascere alle Hawaii”.

 

Bibliografia

Didi-Huberman G. (2003). Immagini malgrado tutto. Milano, Cortina.

 

 

Elisabetta Marchiori, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

lisbeth.marchiori@gmail.com

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