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“Hier Ist Kein Warum”: Nazismo e Mentalità Ambigua

di Marina Montagnini

International Monument at Dachau Memorial Site creato da Nandor Glid. Foto: Kim Traynor.
Dachau Memorial, Kim Traynor, 1984.

Primo Levi racconta che appena entrato nel lagher fu oggetto di un’offesa gratuita alla quale reagì chiedendo all’aguzzino: “Warum?” “Perchè?”. Questi rispose: “Qui non c’è nessun perchè”.

La risposta conteneva ‘in nuce’ la sostanza più inquietante della mentalità nazista: qui l’uomo non deve pensare, qui l’uomo non è uomo, qui l’uomo non è responsabile delle proprie azioni. 

Come ci ha ricordato Laurence Kahn nella sua bella relazione al Seminario CVP “A cent’anni da Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, la Germania pre-nazista subiva gli esiti di un crollo: la sconfitta della prima guerra mondiale. Su queste macerie si costruì una ideologia mitica ben compendiata da “Il mito del XX secolo” (Rosenberg, 1935). “Blut und Boden”, il sangue e la terra, venivano idoleggiati nel mito della superiorità ariana. Questa operazione richiedeva la contrapposizione con un popolo senza sangue puro né terra: il popolo ebreo. 

La svastica, l’Olimpo del Walhalla, non erano semplicemente paccottiglia propagandistica, tutto ciò rispondeva a bisogni profondi e suggestionava le menti dei giovani i cui padri erano stati decimati e sconfitti. Nelle Napola, scuole militari naziste, si celebravano riti di iniziazione misteriosi (Tournier,1970). Quando Hitler prese il potere si era già creato un retroterra psichico in cui il capo supremo non ripristinava un ordine paterno, anzi il suo potere affondava le radici in un caotico mondo sotterraneo, regressivo, matriarcale, anti-edipico, ambiguo. Nelle viscere della terra, impregnate del sangue dei padri, si sviluppava la mentalità nazista con queste caratteristiche di annullamento della differenza tra “umano e “disumano” (Antelme, 1957).

Da un punto di vista descrittivo la mentalità nazista realizzava un regime totalitario che si definiva su almeno tre importanti caratteristiche: dominio assoluto sulla società per mezzo della propaganda e del terrore; dominio di un capo la cui volontà è la sola legge riconosciuta; distruzione di un nemico “oggettivo” cioè tale per definizione ideologica, non per l’intenzione di voler resistere al regime: gli ebrei in quanto tali non erano organizzati in Germania come fazione politico-militare di opposizione. Questo modo di intendere il nemico è centrale perché ai nemici “oggettivi” non si dichiara guerra, essi non vengono combattuti con metodi militari ma con metodi industriali. Questo nemico, perdendo l’elemento soggettivo, è dichiarato “cosa”. Dunque gli ebrei, non più appartenenti alla specie umana, diventano spazzatura, parassiti, e saranno inceneriti o liquidati con mezzi chimici. Il nazismo, instaurando questa mentalità, instaura nella storia umana una novità fatale, un modo nuovo di concepire e fare il male.  

Come è potuto succedere tutto questo? Come poteva l’aguzzino recuperare il ruolo di buon padre di famiglia, finito il suo giorno di lavoro? Si può pensare ad una estesa corruzione del Super-Io che ha coinvolto i membri di una intera generazione? Questo tipo umano sembra aggirare il complesso edipico, coltivando un Io ideale corrotto al posto di un normale Super-Io, modellando l’Io Ideale sullo stesso Io Ideale del Capo, come aveva già capito Freud (1921).

Tuttavia questa teoria manca di indagare il ruolo fondamentale della ambiguità e della buonafede. E’ probabile che nel periodo intercorrente fra la sconfitta della prima guerra mondiale e l’avvento nazista, l’Io di molti cittadini tedeschi abbia avanzato l’ambiguità come una sorta di scudo in grado di proteggere la sua struttura e che la posizione ambigua abbia funzionato come una difesa e come un meccanismo di adattamento. Tutte le caratteristiche della posizione ambigua sono favorevoli a questa operazione: la regressione ad un “nucleo agglutinato totipotente” (Bleger, 2010), le contraddizioni reversibili e non riconosciute come tali, la deresponsabilizzazione, la perdita di autonomia, il mimetismo, l’assuefazione a ruoli arroganti o passivi, delineano il nuovo tipo, la sua obbedienza cadaverica, la sua caratteristica opacità nell’eseguire gli ordini senza discutere. L’esito finale è un tipo umano capace di fare il male in buonafede, nello stile di Eichman (Arendt, 1963).

Perciò dopo il nazismo il concetto di buonafede diventa pericoloso. 

Chi è in malafede è presente a sé stesso, non si inganna, mentre chi è in buonafede inganna gli altri ma soprattutto sé stesso, come dice Primo Levi in “Sommersi e salvati”: 

 … la malafede iniziale è diventata buonafede … [perché] il silenzioso trapasso dalla menzogna all’autoinganno è utile: chi mente in buonafede mente meglio, recita meglio la sua parte, viene creduto più facilmente dal giudice, dallo storico, dal lettore, dalla moglie, dai figli, … avvezzo a mentire pubblicamente, finisce col mentire anche in privato, anche a sé stesso, e con l’edificarsi una verità confortevole che gli consente di vivere in pace. Tenere distinte la buona e la mala fede è costoso: richiede una profonda sincerità con sé stesso, esige uno sforzo continuo, intellettuale e morale” (Levi, 1986, 17).

I nazisti e molte persone comuni che hanno tollerato passivamente il nazismo, arrogandosi il diritto di escludere gli ebrei dalla specie umana, facendone “cose”, ne seguiranno subito il destino, diventando essi stessi “cose”. Tutto ciò precludeva la possibilità di riconoscere che le fabbriche di morte producevano cadaveri e non dei “pezzi”; infatti dove si fa violenza all’uomo lo si fa anche al linguaggio (Klemperer, 1947); (Orwell, 1949).

Si tratterebbe di una revoca della responsabilità e della capacità di giudizio dove l’esame di realtà e la differenza tra mondo interno ed esterno rimane intatta, mentre l’abilità di distinguere tra buono e cattivo, vero e falso, è danneggiata, o meglio, la volontà di distinguere è sospesa. (Arendt, 2003).  

L’economia dell’ambiguità è chiara: sollevando il soggetto dalla fatica del giudizio e della colpa è poco costosa per l’apparato psichico, per questo l’ambiguità è tanto invitante e su questa china tutti possiamo scivolare” (Montagnini, 2018).

 

Bibliografia

Antelme, R 1957. La specie umana. Torino: Einaudi, 1969.

Arendt, H 1963. La banalità del male. Milano: Feltrinelli, 1992.

Arendt, H 2003. Responsabilità e giudizio. Torino: Einaudi, 2004.

Bleger, J 2010. Simbiosi e ambiguità. Studio Psicoanalitico. Roma: Armando.

Freud, S 1921. Psicologia delle masse e analisi dellIo. SE 18. 

Klemperer, V 1947. LTI. La lingua del Terzo Reich. Firenze: La Giuntina, 2008. 

Levi, P 1986. I sommersi e i salvati. Torino: Einaudi, 1991. 

Montagnini, M 2018. Overview on the case of a seriously ambiguous patient: Some reflections on ambiguity and good faith. International Journal of Psychoanalysis, 99, 6, 1366-1390.

Orwell, G 1949. 1984. Milano: Mondadori, 2010.

Rosenberg, A 1935. Il mito del XX secolo. Genova: Basilisco, 1981.

Tournier, M 1970. Il re degli ontani. Milano: Garzanti, 1987.

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