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E.T. - Extra Terrestre

di Cristiano Lombardo

Titolo: “E.T. the Extra-Terrestrial” (“E.T. l’extra-terrestre”)

Dati sul film: regia di Steven Spielberg, USA, 1982, 115′

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=pUbV0fu4Nzg

Genere: fantascienza, avventura, drammatico

 

 

Negli anni Settanta parte del mondo del cinema era in fermento, spirava un vento nuovo e, lungi dall’essere una brezza leggera, alla fine, come un vero e proprio uragano avrebbe spazzato via, se non tutto, molto di quel che il cinema era stato fino ad allora.

 

Movie brats” li chiamavano, si potrebbe tradurlo con “i mocciosi del cinema”, perché erano tanti, giovani, con poche risorse ma molte idee nuove, si chiamavano: George Lucas (“L’uomo che fuggì dal futuro”, “Guerre Stellari”), Francis Ford Coppola (“Il Padrino”, “Apocalipse Now“), Brian De Palma (“Blow Out“, “Scarface”), Martin Scorsese (“Taxi Driver”, “Toro Scatenato”) e, infine, il più giovane di tutti e anche l’ultimo a entrare nel gruppo, Steven Spielberg. Ricorderà in un’intervista: “Quando entrai nei movie brats era la prima volta che mi sentivo parte di qualcosa. Eravamo davvero fortunati ad appartenere a quel periodo, la cultura stava fiorendo, c’erano registi, artisti, musicisti, interpreti. Fu un periodo incredibilmente fertile”.

 

Quando girò “E.T. l’extra-terrestre”, uscito in Italia per il Natale 1982, Spielberg aveva solo trentasei anni e alle spalle titoli come “Duel”, “Sugarland Express”, “Lo squalo”, “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, “1941 allarme a Hollywood” e il primo “Indiana Jones”. Io lo vidi al cinema, avevo giusto qualche anno in più di Elliott, il protagonista del film, e non mi fu per niente difficile identificarmi con lui. In particolare invidiavo moltissimo la libertà di cui sembrava godere quel piccolo gruppo di amici, immersi in un mondo semplicemente inimmaginabile per noi.

 

I protagonisti erano dei ragazzini di un’oscura cittadina della provincia americana che si imbattevano in una creatura aliena, la quale, a causa di un’avaria della sua astronave, si ritrovava temporaneamente bloccata sulla Terra. Di fatto “E.T. l’extra-terrestre” è stato il capostipite di tutti quei film e serie televisive diventati poi un genere a sé stante: dai “Goonies” a “Stranger Things”, fino a “Locke and Keys “.

 

In una delle sequenze iniziali della pellicola si vede Mike, il fratello maggiore di Elliot, mentre gioca coi suoi amici a Dungeons & Dragons e “Stranger Things” si apre con una scena praticamente identica ambientata, non certo a caso, negli stessi anni. Questa serie poi è piena zeppa di riferimenti al film, ma per questo vi rimando ai numerosi siti e blog di cinefili su internet.

Qui mi limito a citare solo la scena in cui la protagonista Undici vuole descrivere ai suoi amici la dimensione dove è in grado di spingersi con la mente e, non sapendo come farlo, prende il tabellone di cartone di Dungeons & Dragons su cui si trovano le pedine e lo gira “sottosopra”, da cui il nome appunto della dimensione parallela dove si trova la creatura con il nome di uno dei mostri del gioco, il Demogorgone.

 

 

Ma torniamo al film “E.T. l’extra-terrestre”, che a buon titolo potremmo definire autobiografico. Elliott è un ragazzo con un cesto di capelli neri in testa, occhioni scuri malinconici, la copia del piccolo Spielberg, figlio di un ingegnere e di una pianista.

Quando si trasferirono dal New Jersey alla California la famiglia andò ad abitare in un quartiere molto simile a quello ricostruito sul set del film.

È apparentemente una cittadina incantevole piena di villette con il loro ordinato prato all’inglese e l’immancabile vialetto vicino a cui è parcheggiata una station-wagon (in Italia sarebbero arrivate solo tempo molto dopo).

Ma dietro alla facciata incantevole si cela spesso ben altro: c’è la vita con le sue prove e tutta la sua durezza, ci sono quei ragazzi che oggi vengono chiamati bulli, ma che in fondo con nomi diversi ci sono sempre stati. Erano quelli che chiamavano il piccolo Steven con gli epiteti più svariati perché, sebbene provenisse da una famiglia borghese, era pur sempre un jew, un ebreo.

Il regista ricorda questo come uno dei periodi più brutti e difficili della sua vita “un inferno in terra”, sicuramente reso più doloroso dall’assenza del padre, continuamente in viaggio per lavoro.

Non è un caso che lungo tutto l’arco del film il papà di Elliott non faccia mai la sua comparsa, teoricamente assente per un fantomatico viaggio in Messico, pietosa bugia a salvaguardia del segreto della separazione dei genitori.

Proprio come accadde al padre e alla madre del regista, i quali alla fine divorzieranno, sprofondando il giovane Steven dentro a una dimensione di solitudine e di tristezza alla quale cercò di sottrarsi attraverso l’unica via di fuga a lui congeniale: l’immaginazione. Risale a quel periodo l’invenzione di un amico immaginario che sognava di avere sempre al suo fianco, un confidente, un baluardo alle incursioni di tutto ciò che lo tormentava.

E.T. sarà pure un extra-terrestre per gli altri, lo è per gli adulti incapaci di sognare, lo è per i bulli, ma per Elliott è tutto fuorché un alieno. È piuttosto una sorta di doppio, un amico immaginario appunto, creato a partire dalle sue proiezioni fantastiche, dai voli pindarici della sua fervida immaginazione.

Viene da un “altrove” dello spazio perché là lo ha collocato il suo creatore, affinché fosse al riparo dalla cattiveria che c’è nel mondo e che durante il film puntualmente si paleserà. Elliott ed E.T. sono due facce della stessa medaglia, ce lo rivela anche il nome della buffa creatura aliena formato dall’insieme della prima e dell’ultima lettera del nome del suo giovane amico.

Elliott fin da quando ne percepisce la presenza sente che E.T. non è pericoloso, anzi tra di loro nasce subito un’intesa, una sorta di comprensione che, col passare del tempo, diventerà una simbiosi, al punto tale che quando uno dei due si ammalerà anche l’altro rischierà di morire.

Da un certo punto del film in poi Elliott parlando di sé o di E.T. dirà sempre “noi”, come a parlare di un’unica entità.

Per svelare la presenza dell’extra-terrestre escogiterà il piano che lo porterà a farsi trovare usando come esca una scia di Reese’s Pieces (i precursori degli M&M’s) i suoi dolci preferiti, in una scena che è molto più grottesca e ridicola ancorché paurosa. Io credo che in realtà Elliott sperasse di incontrare il suo nuovo amico extra-terrestre non meno di quanto il giovane Spielberg sperasse di veder spuntare davvero il suo amico immaginario per mitigare la propria solitudine.

Sono molteplici le scene del film in cui i due si trovano di fronte, come se in mezzo vi fosse uno specchio, entrambi hanno grandi occhi languidi e un grande cuore, che ad E.T. poi si accendeva quasi come una lampadina quando era emotivamente connesso con qualcuno.

Rambaldi, il mago italiano degli effetti speciali di allora, disse di avere ricevuto istruzioni precise su come realizzare quel pupazzo, che a ben guardare di fatto non è altro che una caricatura di Elliott e di tutti gli adolescenti che hanno visto deformarsi la propria immagine corporea: braccia che toccano terra, gambe corte, occhi distanti … insomma dei mostri! O peggio ancora degli alieni! Verso la fine c’è forse la scena più bella di tutto il film, divenuta un vero e proprio cult, quella in cui il gruppo di piccoli amici guidati da Elliott evade dalla sua casa ormai colonizzata da presenze di adulti di ogni tipo, “babbani” per citare Harry Potter, lontani dal mondo della magia e pertanto incapaci di entrare davvero in contatto con la creatura e quindi con il mondo segreto del protagonista.

Dopo essere scappati si danno alla fuga con le loro biciclette tra le strade del quartiere, con ogni sorta di mezzo militare e auto della polizia alle calcagna, ma proprio quando sembrano sul punto di essere presi e il mondo degli adulti pare avere avuto il sopravvento, una strada senza uscita diventa una rampa verso il cielo, dove grazie alla magia di E.T. potranno prendere il volo.

Spielberg dirà di essere rimasto stregato vedendo “Miracolo a Milano” di Vittorio de Sica e di averne voluto riprodurre l’incredibile sequenza finale in cui il protagonista, recatosi in una Piazza Duomo colma di netturbini, decide di prendere una delle loro scope e salitovi a cavalcioni volare via verso un mondo migliore, imitato da decine di altri poveri come lui. La fantasia viene qui usata come antidoto al diventare adulti troppo in fretta e così facendo correre il rischio di restare schiacciati dal peso della vita.

I sogni, come ci insegna la psicoanalisi, sono il viatico più diretto verso parti di noi troppo preziose per essere sacrificate alla “realtà” o “all’adultità”, non sono semplici scappatoie, del resto una vita senza sogni cosa sarebbe?

In una intervista del 1985 il regista a proposito del suo lavoro dirà “I dream for a living”. Curiosamente anche gli analisti si guadagnano da vivere ascoltando i sogni dei loro pazienti, a volte i loro incubi, ma siccome ascoltare non basta, l’unica strada possibile per la cura è allora quella di riuscire a sognare insieme nella stanza d’analisi.

 

Quando nell’ultima sequenza del film i due protagonisti, o forse dovremmo dire le due diverse parti del protagonista, si salutano e si separano, lo faranno proprio con la consapevolezza del nuovo viaggio di crescita che sta per incominciare, ma E.T. farà segno al suo piccolo amico che lo porterà sempre dentro di sé e non abbiamo dubbi che anche Elliott farà la stessa cosa. Un po’ come a dire che se non si può vivere sempre dentro a un sogno, altrimenti il rischio può essere quello di uscire del tutto dalla realtà e di delirare, si dovrebbe almeno imparare a convivere con i nostri sogni di bambini e poter crescere insieme a loro.

 

Un’ultima nota: proprio mentre si salutano e la porta dell’astronave che riporterà l’alieno nel suo mondo si chiude vediamo che è fatta come il diaframma di una gigantesca macchina da presa, a evocare che forse era stato tutto solo un sogno o solo cinema e che ora lo spettacolo è terminato e si torna alla vita.

 

 

Cristiano Lombardo, Padova e Conegliano (TV)

Centro veneto di Psicoanalisi

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