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Diritto alla giustizia: sempre più difficile in un mondo caotico

Presentazione di Patrizia Montagner

La riflessione che segue è scritta da un giornalista, Danilo De Biasio, che da anni si occupa di Diritti Umani. Una riflessione tragica che ci riporta alla necessità di fare un pensiero sulle continue violazioni che i diritti subiscono.

 

Il diritto alla giustizia è considerato uno dei fondamenti del vivere umano.

 Nella Dichiarazione del ‘48 ben 4 articoli se ne occupano: il 7 afferma che “tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge”, l’8 che riconosce che “Ogni individuo ha diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali”, il 9 stabilisce che “nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato”,  e il 10 per il quale “ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale”

De Biasio ci ricorda che questi diritti facilmente restano sulla carta, ci dà anche una sua idea del perché in questo periodo storico questo avvenga. Ci sono altri interessi, altre complessità storiche, sociali, politiche, che che li mettono in secondo piano.

Lo psicoanalista può aggiungere anche altre motivazioni.

La Dichiarazione dei Diritti Umani è del ‘48. Era il dopoguerra, si pensava/sperava che altre guerra non sarebbero più scoppiate, che avremmo imparato dagli orrori di quanto appena avvenuto.

Non è stato così. Dimenticare i propositi è stato facile. La rimozione è un meccanismo psichico che viene messo in atto ovunque e rapidamente. Basterebbe questo per ribadire la necessità di individuare momenti istituzionali, come le ricorrenze, per ricordare.

Forse c’è dell’altro. E ha a che fare con il significato della Giustizia, la quale si basa sul rispetto della Legge.

La Legge, l’autorità paterna che deve essere riconosciuta e rispettata. Qui lo psicoanalista ha molto su cui riflettere. Perchè non si stabilisce un’autorità equa? Perchè si passa da una negazione dell’autorità, alla cancellazione della funzione paterna, ad una autorità violenta e distruttiva che cancella invece totalmente il diritto alla vita e al benessere del cittadino, finanche la possibilità di riconoscergli un luogo dove  essere ascoltato nella ricerca della verità?

C’è molto da riflettere….

Le righe seguenti sono un invito a prenderci un tempo per farlo.

 

Patrizia Montagner, Portogruaro (Ve)

Centro Veneto di Psicoanalisi

patmontagner28@gmail.com

di Danilo De Biasio

Il 24 marzo non è solo la Giornata decisa dalle Nazioni Unite per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani, è anche la Giornata dell’OMS contro la tubercolosi nonché la Giornata mondiale per la promozione della lettura. Qualcuno potrebbe obiettare: queste ricorrenze sono inflazionate. Vero, ma guardiamo anche questa positiva coincidenza: il 24 marzo ci viene chiesto di porre attenzione su tre temi che hanno punti di contatto. Innanzitutto onorano tre diritti: il diritto all’istruzione, alla salute e ad avere giustizia.

Si potrebbe partire dal primo, perché è sperabile che chi legge tanti libri finisca per credere di più nei diritti. (Anche se, a pensarci bene, possono benissimo esserci dei malandrini acculturati…)

La tubercolosi non è una malattia debellata, soprattutto in alcune zone del pianeta. Malattia terribile, che nei secoli ha colpito la fantasia di medici, ciarlatani, scrittori, pittori e anche musicisti. Giacomo Puccini e Giuseppe Verdi hanno voluto che la Mimì della Bohème e Violetta della Traviata fossero malate di tisi, altro nome della TBC. Nella Milano della Rivoluzione Industriale era la principale causa di morte e recentemente, quasi 200 anni dopo, l’OMS ha segnalato un aumento dei casi in Europa, probabilmente legato alle condizioni di promiscuità in cui si è costretti a vivere in alcuni contesti sociali e a un generale indebolimento fisico degli emarginati. Insomma la tubercolosi non è una malattia del benessere – come per esempio tutta la categoria dei malanni cardiovascolari – ma corrisponde ad un vero e proprio arretramento dei diritti basilari. Figuriamoci quindi sperare che davvero il 24 marzo si venga a conoscere la verità per le gravi violazioni dei diritti umani. Le Giornate come questa servono come gli evidenziatori che usiamo per “fermare” un concetto letto su un libro: quelle strisce colorate non ci assicurano di superare l’esame, così come una maggiore attenzione su un tema non ci garantisce di riparare ad un danno subito. 

Anni fa al Film Festival dei Diritti Umani di Lugano – “fratello maggiore” del Festival che dirigo – ho passato qualche minuto con Carla Del Ponte, che allora faceva parte della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui crimini commessi in Siria. Stavamo ragionando più o meno su questi temi quando lei si è infervorata, ha tirato fuori dalla tasca il cellulare e mi ha detto: “questa è la dimostrazione della nostra impotenza”. Era il video – raccapricciante – di un’esecuzione, una decapitazione, di un ragazzino ad opera di qualche capo della galassia dell’Isis. “Questo video è una prova, si riconosce chiaramente chi è il colpevole ma – concludeva Carla Del Ponte – non possiamo andare a prenderlo in una zona dove si combatte”. Nell’orribile mattatoio siriano, a ben vedere, hanno messo boots on the ground soldati e mercenari di mezzo mondo, ma per scannarsi, non per assicurare alla giustizia chi ha commesso crimini di guerra o contro l’umanità. 

La domanda giusta non è “ci sarà verità per le vittime”, bensì “perché non ci si impegna per ottenerla”. Risposta. Innanzitutto per il sistema caotico che stiamo vivendo dalla fine del bipolarismo Usa/Urss. Alcune delle oltre 50 guerre in corso in tutto il mondo sono guerre per interposta nazione. O meglio, come afferma la studiosa Mary Kaldor dopo aver studiato i conflitti nell’ex Yugoslavia, sono “nuove guerre”. Caratteristica di queste “nuove guerre” dice in buona sostanza Mary Kaldor è che sono protagonisti anche milizie non statali, con agganci diretti alle potenti mafie. Il secondo motivo è che – e in questo caso non c’è niente di nuovo – i conflitti vengono preparati e condotti dagli estremismi di entrambe le parti. Risultato? Da tempo non importa che qualcuno vinca la sua guerra, perché è molto più funzionale che la guerra continui, si trascini: solo così le milizie non statali, le mafie locali o internazionali e i partiti estremisti continueranno a prosperare. 

Se è vero questo scenario è evidente che la ricerca della verità e della giustizia come risarcimento di una violazione dei diritti umani sarà un obiettivo secondario, in alcuni casi velleitario. Conclusione pessimista? Sì, in questo momento sì. Nella nostra condizione fortunata di non essere direttamente coinvolti possiamo fare tesoro di quanto ha scritto recentemente sul conflitto israelo-palestinese per il sito della casa editrice  Laterza Sarah Parenzo, giornalista e collaboratrice del sistema psichiatrico israeliano: “Questo è ciò che possiamo fare mentre i grandi firmano trattati per il rifornimento di armamenti: sospendere il giudizio, anche quando il sistema nervoso è pronto a saltare, e tendere l’orecchio e il cuore verso l’altro, armandoci di un ascolto paziente e rispettoso, come quello suggerito nei sui scritti dalla psicoanalista Luciana Nissim Momigliano, ebrea e partigiana deportata ad Auschwitz con Primo Levi e, come lui, sopravvissuta”. Nobili parole, condivisibili, ma a cui non guasterebbe aggiungere una sana e rumorosa mobilitazione a favore del cessate il fuoco. 

 

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