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Come una voragine che abita il profondo.
“Alcune riflessioni sull’Orestiade” di Melanie Klein

di Franca Munari

Nella trilogia Eschilo fa apparire gli dei in numerosi ruoli simbolici, e io ho cercato di spiegare come ciò contribuisca alla ricchezza e al significato della tragedia. Concluderò con l’ipotesi … che la grandezza delle tragedie di Eschilo … derivi dalla sua comprensione intuitiva dell’inesauribile profondità dell’inconscio e dal modo in cui questa comprensione si ripercuote sui personaggi e sulle situazioni che egli crea. (Melanie Klein)

 

 

L’Orestiade 

L’Orestiade è una trilogia formata dalle tragedie AgamennoneCoefore e Eumenidi, con cui Eschilo vinse nel 458 a.C. le Grandi Dionisie.

Le tragedie che la compongono rappresentano un’unica storia suddivisa in tre episodi: l’assassinio di Agamennone da parte della moglie Clitennestra, la vendetta del loro figlio Oreste che uccide la madre, la persecuzione del matricida da parte delle Erinni e la sua assoluzione finale ad opera del tribunale dell’Areopago.

 

 

Gli antefatti

Agamennone, sovrano della polis di Argo, alla partenza per la guerra di Troia non aveva venti favorevoli così, per propiziarsi gli dei, aveva sacrificato la figlia Ifigenia, di bellezza eccezionale. In questo modo la flotta aveva potuto alzare le vele. Al suo ritorno Clitennestra aveva perciò deciso di vendicare il sacrificio della figlia, convincendo Egisto, cugino del marito e suo amante, ad aiutarla in tale impresa.

 

Il fantasma di Ifigenia. Orestiade. Teatro greco di Siracusa. Regia di Davide Livermore, 2022.

 

 

A questa esplicita motivazione va aggiunto il fatto che Agamennone l’aveva stuprata e sposata contro la sua volontà sottraendola al suo primo marito e uccidendo il loro bambino. Presto era partito lasciandola sola per dieci anni per la guerra di Troia causata dal tradimento di Elena nei confronti di Menelao, fratello di Agamennone; ed Elena, donna di incomparabile bellezza, fuggita per amore con Paride a Troia, è sorella di Clitennestra – dobbiamo supporre sorella molto invidiata, vuoi per la bellezza, vuoi per la realizzazione affettiva. Inoltre Agamennone, tornato da Troia, aveva imposto alla moglie la presenza di Cassandra, la principessa troiana fatta schiava e da lui presa come amante.

Insomma le ragioni di Clitennestra, sia di odio nei confronti di Agamennone, sia  edipiche – come ripetutamente sottolinea Klein –  sono molte e complesse e alle sue ragioni si sommano le ragioni di Egisto, figlio dello stupro di Tieste, fratello gemello di Atreo – padre di Agamennone e Menelao – di sua figlia Pelopia, sacerdotessa di Atena, dopo che Atreo, che si era impadronito del regno, aveva ucciso i suoi altri figli e glieli aveva ammanniti a un banchetto al quale lo aveva invitato con l’inganno.

Nella trilogia dell’Orestiade, la prima tragedia, Agamennone, narra come Agamennone, di ritorno dalla guerra, venga ucciso a colpi di scure dalla moglie Clitennestra, con l’aiuto di Egisto.

Le Coefore prende il nome dalle coefore, le portatrici di libagioni per i defunti, che si recano sulla tomba di Agamennone. È il racconto di come Oreste, dieci anni dopo l’omicidio del padre Agamennone, torni ad Argo e, su ordine di Apollo, porti a compimento la propria vendetta dando la morte alla propria madre ed al suo amante.

Subito appaiono le Erinni, dee vendicatrici dei delitti. Inseguito da loro, Oreste fugge, sotto gli sguardi stupiti del coro, che non può vedere le terribili dee (si tratta infatti di oggetti interni nota M. Klein).

Le Eumenidi prende il nome dalle Erinni, nate dal sangue della castrazione di Urano a opera di suo figlio Cronos, dee vendicatrici dei crimini verso la famiglia, le quali erano chiamate anche Eumenidi (ossia “le benevole”) quando erano in atteggiamento positivo. In questa terza parte dell’Orestea viene narrata la lunga persecuzione delle Erinni nei confronti di Oreste.

 

 

 

Oreste e le Erinni. Orestiade. Teatro greco di Siracusa. Regia di Davide Livermore, 2022.

 

Braccato dalle Erinni per il matricidio, Oreste chiede aiuto al dio Apollo che lo invia ad Atene, presso il tempio della dea Atena. Prima dell’inizio del processo, le Erinni riflettono preoccupate sulle conseguenze di una possibile assoluzione di Oreste: questo fatto potrebbe indurre alla licenza tutti i mortali, e causare un forte aumento degli omicidi tra consanguinei.

Le Erinni interrogano Oreste che si difende spiegando di aver agito per una vendetta legittima, e su ordine di Apollo. Quest’ultimo poi interviene difendendolo: il figlio ha lo stesso sangue del padre e quindi ha il diritto di vendicarlo. Con il voto favorevole di Atena, Oreste viene assolto.

Le Erinni reagiscono con rabbia alla sentenza, minacciando a più riprese morte e distruzione. Atena tuttavia riesce a calmarle e, garantendo loro venerazione eterna, le convince a diventare Eumenidi, ovvero divinità della giustizia anziché della vendetta.

Nella lettura kleiniana della trilogia è la declinazione edipica a strutturare e organizzare gli eventi interni ed esterni dei protagonisti. Ne sono esempi l’edipo invertito di Oreste nei confronti di un padre idealizzato con il quale si identifica spostando l’odio su Egisto, l’amante della madre, come quello delle Erinni nei confronti della loro madre la Notte che invocano a loro protezione contro Apollo, il dio del sole. L’Orestiade dà però agio a M. Klein di connettere questa analisi con le sue tematiche di fondo, le angosce persecutorie innanzitutto.

“Il bambino che ha un rapporto di amore con la madre, inconsciamente ha il terrore di essere divorato, fatto a pezzi e distrutto da lei. Queste angosce, pur se modificate da un crescente senso della realtà, continuano a prodursi in maggiore o minor misura per tutto il periodo della prima infanzia.  […] Fanno parte della posizione schizo-paranoide [… che] comporta […] anche forti impulsi distruttivi (la proiezione dei quali crea oggetti persecutori) e scissione della figura della madre in una parte malvagia e in una parte buona idealizzata” (Klein 1959, 40). Su questa base si svilupperanno il risentimento, i sentimenti di deprivazione, come anche l’ammirazione e l’invidia, prima nei confronti della madre e poi anche del padre.

La tragedia appunto mette in scena Clitennestra che uccide Agamennone facendolo a pezzi con una scure e sappiamo che i fratellastri di Egisto furono uccisi e cucinati da Atreo per farli mangiare al loro padre Tieste. Ifigenia fu sacrificata dal padre per avere venti favorevoli alla partenza per Troia, Oreste fu allontanato da casa dalla madre dopo la partenza di Agamennone, non sappiamo se per proteggerlo – spesso i figli dei re venivano uccisi per assicurarsi un potere duraturo dopo che ci si era liberati dei padri ­– o se per avere la libertà di stare con Egisto.

 

Processi simbolici e creativi

Sappiamo che nel corso della sua ricerca M. Klein aveva sempre posto in connessione la possibilità del prodursi dei processi simbolici e creativi con il raggiungimento della posizione depressiva e della capacità di riparazione. E molti autori ancor oggi sono rimasti ancorati a queste sue formulazioni. In questo lavoro, uno dei suoi ultimi, assistiamo ad un mutamento, meglio forse ad un ampliamento, di queste sue precedenti affermazioni. Il cambiamento si annuncia in più punti.

Ad esempio quando afferma che la scissione dell’oggetto può riuscire solo fino a un certo punto e per questo il bambino non può sfuggire ai sentimenti di colpa, che insieme alle esperienze di sofferenza, depressione e di accresciuto amore per l’oggetto risveglieranno il bisogno di riparazione. “Tutti questi processi sono connessi con la tendenza del bambino verso la formazione del simbolo e fanno parte delle sue fantasie inconsce” (Klein 1959, 41).

Dove M. Klein afferma che “tutti questi processi”, quindi anche le scissioni, conducono alla produzione di simboli e di fantasie.

Klein ritrova anche nel “ritmo” di hubris (l’arroganza) che non conosce limiti ed è basata sull’avidità – in questo caso si tratta dell’ubriacatura di potere – con Dike, la giustizia che punisce con la morte, un diverso alternarsi delle posizioni ps/d. Così avviene per l’impietoso Agamennone, così avviene per la tracotante Clitennestra, è Klein a citare questo suo dire, una sorta di aforisma dell’hubris: “Chi ha paura dell’invidia ha paura di essere grande” (Klein 1959, 48). Ma, attenzione, lo cita a proposito delle possibili inibizioni del talento e delle potenzialità causate dal senso di colpa. È un secondo indizio, insieme alla precedente sottolineatura di “tutti questi processi” di quell’importante cambiamento del suo pensiero relativamente al prodursi dei processi simbolici e creativi che essa consegna a quest’opera.

Infatti se in un primo tempo Klein aveva ritenuto che la formazione dei simboli nella posizione depressiva fosse dovuta prevalentemente all’inibizione degli impulsi istintuali diretti, prevalentemente aggressivi, nei confronti dell’oggetto, di modo che questi risultassero disponibili per la sublimazione, “solamente nei lavori più maturi Klein riconoscerà che le parti scisse del Sé e degli oggetti, proiettate all’esterno poiché fonte di angoscia e di dolore, posseggono ‘elementi preziosi della personalità e della vita di fantasia e sono anche fonte di ispirazione nell’attività artistica e di numerose altre attività intellettuali’ (Klein, 1958, 550), ammettendo così l’esistenza di un legame tra i processi più precoci della mente e la produzione simbolica dell’adulto e pertanto che questa non è dovuta esclusivamente alla riparazione” (Calamandrei 2016, 279).

Si tratta in fondo della evoluzione dello straordinario e, spazialmente e temporalmente, ubiquitario potere, proto-rappresentativo e proto-narrativo, assolutamente strutturante per la psiche, della fantasia inconscia.

 

Freud aveva in un certo senso anticipato queste riflessioni, quando nella Postilla a Psicologia delle Masse e analisi dell’Io, a proposito di una sua riflessione sull’orda primordiale aveva scritto:

 

“La cocente privazione fu forse ciò che indusse uno dei singoli a svincolarsi dalla massa e a trasporsi nel ruolo del padre. Chi fece questo fu il primo poeta epico, e il passaggio si compì nella sua fantasia. Il poeta contraffece la realtà accordandola alla propria nostalgia. Inventò il mito eroico. Eroe fu colui che da solo aveva ammazzato il padre, il quale nel mito appariva ancora come mostro totemico. Come il padre era stato il primo ideale del bimbo maschio così ora nell’eroe, che vuole sostituire il padre, il poeta creò il primo ideale dell’Io” (Freud 1921, 322-323).

 

Riproponendo in questa ipotetica narrazione il passaggio dal fatto alla fantasia nella filogenesi, così come era accaduto per l’ontogenesi: dall’incesto alla fantasia dell’incesto, “Non credo più ai miei neurotica!”. Ma anche connettendo direttamente simbolizzazione e sublimazione e transitando attraverso quella visionarietà che è generata e governata dagli affetti.

Il suo Eroe soggiace alla rimozione, idealizzato, idealizzante, non potrà sfuggire alla persecutorietà, anche se uccide, legittimamente, mostri e non padri:

Ercole a ripetizione e gli costerà la salute mentale…

Edipo ucciderà scientemente la Sfinge e poi Laio, quasi per caso.

Teseo il Minotauro e poi il padre “per distrazione”.

Oreste, creatura di Eschilo, il primo dei tragediografi, è l’unico ad uccidere “consapevolmente” l’amante della madre (sostituto del padre) e poi la madre stessa: avant-coup del trauma mitico, dell’assassinio fondante.

 

“Dal momento in cui all’inizio della vita post-natale, le fantasie riempiono la vita mentale, compare un forte impulso a riferirle a diversi oggetti – reali o fantastici – che divengono simboli e procurano uno sbocco alle emozioni del bambino piccolo. […]  L’impulso a creare simboli è così forte perché neanche la madre più amorevole può soddisfare i potenti bisogni emozionali del bambino piccolo. […] Solo se nell’infanzia la formazione del simbolo è in grado di svilupparsi con tutta la sua forza e in tutta la sua varietà e se non è ostacolata da inibizioni, allora l’artista adulto può fare uso delle forze emozionali che sono alla base del simbolismo (Klein 1959, 76-7).

 

“Quando [il bambino] può dire “maman” 

A proposito di L’enfant et les sortilèges, l’opera di Ravel su libretto di Colette, sulla quale Melanie Klein nel 1929 scrisse un breve e densissimo saggio Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo, Julia Kristeva così commenta la conclusione dell’opera, quando appunto il bambino può dire “maman”. Il bambino aveva attaccato, danneggiato e anche distrutto oggetti e animali. Gli animali lo rimproverano e lo attaccano, come le Erinni. Nel parapiglia anche lo scoiattolo viene ferito e il bambino lo cura fasciandogli la zampa, a sua volta viene ferito e invoca la madre. Gli animali constatando che il bambino è buono, “È buono il bambino, è bravo, molto bravo. È così dolce”, si trasformano in oggetti soccorrevoli e lo conducono verso la casa, chiamando anche loro la madre, così come le Erinni si erano trasformate in Eumenidi.

 

“Quando [il bambino] può diremaman’ non si tratta più di un’osmosi con sua madre intrisa di godimento e di rabbia: chiamandola mette a distanza i desideri ambivalenti che la concernono. […] Meravigliosamente chiarito dalla perspicacia di Melanie Klein il genio di Colette traccia qui la via che conduce al superamento della colpa propria di questo edipo arcaico con una madre onnipotente, e trasforma le attitudini rabbiose, come i disturbi maniacali o del carattere, ma anche le psicosi infantili, in una riparazione. Ma questa evoluzione benefica si produce se – e soltanto se – un riconoscimento del desiderio edipico e delle sue ambivalenze ha avuto luogo. Per Klein questo riconoscimento prende l’aspetto di un’esperienza depressiva: io scopro che il mio desiderio per Maman è un desiderio di ucciderla, che Eros è Thanatos. Edipo? Forse; io sono soprattutto ancora un Oreste, ma il saperlo mi rende libero: io accetto di perdere Maman il mio dispiacere significa che io assumo il mio desiderio per essa e questa rinuncia è la via regia della mia autonomia, di dire, della mia capacità di pensare, di creare, di vivere” (mia traduzione) (Kristeva 2002, 178).

 

Nella sua disamina del concetto di sublimazione nella letteratura psicoanalitica Evelyne Sechaud (2005) scrive:

“La preoccupazione di risparmiare l’oggetto indirizza le pulsioni primitive in una nuova direzione e inibisce le pulsioni primitive di distruzione e di autodistruzione. E’ in questa fase depressiva che Melanie Klein colloca la genesi della formazione dei simboli. Lo spostamento dello scopo istintuale comporta il rimpiazzo dell’oggetto originario della pulsione con degli oggetti sostitutivi: è così che la sublimazione si collega alla formazione del simbolo” (Sechaud 2005, 1345).

Ma c’è di più, a partire dal discorso kleiniano, Sechaud, riprende il testo di Kristeva consacrato a Melanie Klein a proposito dell’idea che è dalla perdita della madre (che nell’immaginario rimanda alla morte della madre) che si organizza la capacità simbolica del soggetto.

Appoggiandosi al dramma di Oreste, Melanie Klein fa del matricidio la condizione per accedere al simbolo; e Julia Kristeva si chiede: “Il dramma di Oreste le serve forse per introdurre il suo pensiero sulla nascita dei simboli, un’apologia dei simboli? Oppure la divagazione mitologica serve per dire che il simbolo è l’omicidio della madre? O ancora che non esiste migliore omicidio della madre che il simbolo?” (Kristeva 2000, 148). “Assassinio immaginario evidentemente!” Ci rassicura Sechaud (2005, 1345). “I crimini e altri passaggi all’atto più o meno aggressivi non sono che fallimenti del simbolo, segnalano uno scacco del matricidio immaginario, l’unico ad aprire la strada del pensiero” (Kristeva 2000, 148).

 

 

Postilla

Ritrovo qualcosa di molto simile in La ragazza dello Sputnik (1999) di Murakami Haruki, in un dialogo fra i due protagonisti, Sumire aspirante scrittrice e il giovane narratore senza nome della storia, innamorato di lei.

 

“Ho la testa piena di cose che vorrei scrivere. E’ come un assurdo magazzino tutto stipato di roba, – disse Sumire. – Immagini, scene, frammenti di discorsi, figure di persone … a volte queste cose sono così scintillanti, piene di vita e sento che mi urlano: Scrivici! In quei momenti mi sembra che stia per nascere un romanzo meraviglioso. […] Ma appena provo a scrivere, mi rendo conto che qualcosa di essenziale è andato perduto […] Forse mi manca qualcosa. Qualcosa di assolutamente essenziale per diventare uno scrittore.”

[Così le risponde il narratore:]

“Nell’antica Cina intorno alle città si erigevano delle alte muraglie, nelle quali venivano costruite delle grandiose e splendide porte […] A queste porte era attribuito un significato molto importante. Il loro scopo non era solo quello di permettere alla gente di entrare e uscire, ma si credeva che in esse abitassero gli spiriti della città. […] Sai come facevano gli antichi cinesi a costruirle? […] Andavano nei luoghi dove in passato si erano svolte delle battaglie e lì raccoglievano tutte le ossa sparse per terra o sepolte che riuscivano a trovare. […] Poi all’ingresso delle città costruivano delle enormi porte dove venivano incastonate le ossa. Gli abitanti speravano che, grazie a questo tributo in loro onore, i soldati defunti avrebbero protetto le loro città. Ma non era ancora abbastanza. Finito di costruire le porte, radunavano un certo numero di cani vivi e con il pugnale gli tagliavano la gola. Quindi versavano il loro sangue ancora caldo sulle porte. Mischiando le ossa consumate e il sangue fresco, gli antichi spiriti avrebbero acquistato un potere magico. […] Scrivere romanzi è un po’ la stessa cosa, puoi raccogliere tutte le ossa che vuoi, costruire la porta più splendida del mondo, ma ciò non basta a produrre un romanzo che sia vivo. Una storia, in un certo senso non appartiene a questo mondo. Per creare una vera storia è necessario un battesimo magico che riesca a mettere in contatto questo mondo con quell’altro.

– Cioè vorresti dire che anch’io devo trovarmi il mio cane.

Annuii.

– e che devo far scorrere il suo sangue caldo […]. Se possibile vorrei evitare di uccidere animali – disse infine.

 – Naturalmente intendevo solo in senso metaforico… non voglio mica farti uccidere veramente un cane” (Murakami 1999, 18-19).

 

Gli elementi indispensabili all’accesso alla creatività ci sono tutti e coincidono:

la necessità del contatto [di] questo mondo con quell’altro: la comunicazione conscio inconscio;

le ossa rimaste dalle battaglie: i resti dei violenti scontri con “le parti scisse del Sé e degli oggetti, proiettate all’esterno poiché fonte di angoscia e di dolore”;

il sangue dei cani sacrificati: l’uccisione (rituale) necessaria.

Naturalmente intendevo solo in senso metaforico. “Assassinio immaginario evidentemente!”

 

Bibliografia

Calamandrei S. (2016). L’identità creativa. Milano, FrancoAngeli.

Colette (1915). L’enfant et les sortilèges. L’0rchestra virtuale del Flaminio. flaminioonline.it

Freud S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. OSF 9.

Klein M. (1929). Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo. In Scritti 1921-1958. Torino, Boringlieri.

Klein M. (1958). Sullo sviluppo dell’attività psichica. In Scritti 1921-1958. Torino, Boringhieri.

Klein M. (1959). Alcune riflessioni sull’Orestiade. In Il nostro mondo adulto e altri saggi. Firenze, G. Martinelli & C., 1991.

Kristeva J. (2000). Il genio femminile, t. II: Melanie Klein. Roma, Donzelli Editore, 2010.

Kristeva J. (2002). Le génie féminin, t. III: Colette, Paris, Gallimard, 2004.

Murakami Haruki (1999). La ragazza dello Sputnik. Torino, Einaudi, 2001.

Sechaud É. (2005). Perdre sublimer… Rev. Franç. Psychanal. 69(5): 1309-1379.

 

Franca Munari, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

franca.munari.ls@gmail.com   

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