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Materiali di "Ricorrenza di Umanità"

Alcune riflessioni a partire da
“Imparare dagli scrittori che furono adolescenti durante la Shoah e che sono sopravvissuti”

di Mariagrazia Capitanio

Alcune riflessioni a partire da
“Imparare dagli scrittori che furono adolescenti durante la Shoah e che sono sopravvissuti”

Utilità della definizione di barbarie

 

La relazione del Dr. Oppenheim  è iniziata con una definizione di ’barbarie’[1] tratta da un attento ascolto associativo della parola degli scrittori che furono adolescenti durante la Shoah e che sopravvissero. La barbarie è  tutto ciò che fa toccare all’essere umano i limiti del sopportabile, del pensabile, dell’immaginabile. Nel caso di quei giovani lo ha fatto provocando sconvolgimenti e perdite dei principali punti di riferimento strutturanti quali il corpo, il tempo, lo spazio, l’appartenenza ad una famiglia e ad una genealogia, le differenze generazionali, la possibilità di pensare, fantasticare  e ‘giocare’ sia relativamente alla sessualità che alla morte.

Il suo incipit mi ha fatto venire in mente le ultime pagine di Essere senza destino di Kertész.  L’adolescente Gyurka (sopravvissuto ai campi) ritorna, dopo un estenuante viaggio, a  casa. Con un aspetto visibilmente emaciato, zoppicante e dolorante, vestito alla bell’e meglio e senza soldi sale su un tram. Non può permettersi di pagare il biglietto  e il controllore lo invita a scendere. Gyurka dice che gli fa male una gamba ma l’uomo è inflessibile. Si intromette allora un passeggero che gli acquista il biglietto. E’, lo sapremo dopo, un giornalista. Gli chiede da dove viene e poi gli domanda: “ ‘Hai dovuto sopportare molte atrocità?’[…] e io dissi che dipendeva da quello che lui intendeva per atroce” (1975, 207). Il giornalista  definisce il termine -fame e botte-  e Gyurka pensa: “ ‘Di certe cose non si può discutere con estranei, con gente ignara, in un certo senso con dei bambini, diciamo così. […] ‘Giovanotto, non vuoi riferire le tue esperienze?’ […] ‘Ma di che cosa?’[…] ‘Dell’inferno dei Lager’. Gli ho spiegato che di questo io proprio non ero in grado di parlare perché l’inferno io non lo conoscevo e nemmeno lo sapevo immaginare […] io potevo solo immaginarmi il campo di concentramento, perché entro certi limiti lo conoscevo, mentre l’inferno no” (ibidem, 207-8).

Kertész pone l’accento – se si vuol capire e non solo sapere – sulla necessità di usare le parole con precisione quando si tratta di comunicare, a sé e agli altri, esperienze sconvolgenti: il tentativo di dare una definizione di ciò che si è vissuto dice dello sforzo volto a  metterlo in forma, a dargli dei contorni, a  pensarlo,  ad elaborarlo. Il lavoro di definizione dell’esperienza della barbarie  dura una vita e non  è possibile concluderlo; tuttavia, tale ricerca inesausta ha condotto gli scrittori progressivamente a precisazioni sempre più articolate: Oppenheim le ha sintetizzate nella definizione che ho succintamente riportato poco sopra. Essa non è esaustiva: è un punto di partenza, non di arrivo. Perché la ritengo utile?  Perché la considero una base  su cui appoggiarsi durante la lettura e, nella pratica clinica, nel riflettere sui pazienti vittime delle attuali barbarie: essa è contenitore ampio che aiuta a non essere sommersi  (come lettori e come analisti)  dal dolore smarrito  e stuporoso che provoca l’ascolto dei sopravvissuti.  

 

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[1]  Termine che in francese viene abitualmente impiegato a proposito della persecuzione e sterminio degli ebrei durante il periodo nazista.

Frammentazione  

Alcuni scrittori descrivono un corpo che – all’estremo del disagio fisico e psichico –  si liquefa, si polverizza, va in pezzi; la frammentazione è, diceva Oppenheim, una delle rappresentazioni nello psichico (e anche una sensazione nel corpo) della morte.

A tale proposito il mio pensiero è andato  a M. Klein e  a due  suoi articoli [1] nei quali  sostiene che, a livello intrapsichico,  la paura dell’annientamento della vita è un’emozione primaria ed istintiva, un terrore di annichilimento ed estinzione oscuri  derivati dalla pulsione di morte.  Scrive testualmente che “l’angoscia  ha origine nella paura della morte” (1948, 438) e che il senso di pericolo suscitato dall’operare interno della pulsione di morte è la causa prima e originaria dell’angoscia. Poiché la lotta tra pulsioni di vita e di morte persiste per tutta la vita “questa causa di angoscia non viene mai eliminata ed è un fattore che rientra costantemente in tutte le situazioni di angoscia” (1948, 439). In questa descrizione del funzionamento intrapsichico, l’Io attua una “difesa specifica. […] Sotto la pressione di questa minaccia l’Io tende a frammentarsi” (1946, 413). A mio modo di vedere  il punto di vista kleiniano è utile per capire il processo difensivo messo in moto per far fronte all’angoscia primaria di essere annientati da una forza distruttiva anche  quando la minaccia è esterna:  leggendo gli autori di cui stiamo trattando, credo si possa ragionevolmente pensare  che esso possa attivarsi nelle  situazioni estreme in tutte le epoche della vita.

Klein continua così quella frase: “Sotto la pressione di questa minaccia l’Io tende a frammentarsi, cosa che mi sembra in armonia con la sua mancanza di coesione ”(1946,413).

Da un punto di vista metapsicologico, proprio questo la barbarie a mio avviso fa: essa rompe la coesione dell’Io e quest’ultimo reagisce con meccanismi difensivi primitivi che, stando alla esperienza dei sopravvissuti,  sembra “funzionino”  egregiamente nelle situazioni estreme. Ma: a che prezzo?  Con quali ricadute sia nell’immediato sia, in seguito,  sul carattere, termine che indica la relativa costanza nei modi scelti dall’Io per risolvere i suoi conflitti, il che implica una  fissazione a determinati meccanismi difensivi con relativo  irrigidimento dell’Io?

Oppenheim, nel corso della sua relazione e  a proposito dell’andare in pezzi, ha riportato nel modo seguente  una citazione di Francine Christophe[2]: “Sento le mie dita e il mio naso staccarsi da me […] L’odore di Bergen-Belsen […]  non ci disturba più. Odore di carne che brucia, di carne in putrefazione. Anch’io marcisco” (cit. in 2007, Coquio C. e Kalisky A., 771 e 769).

Le parole: “Sento le mie dita e il mio naso staccarsi da me […] Anch’io marcisco” mi pare  descrivano bene una dinamica all’interno del sistema Io tale per cui la funzione sintetica dell’Io[3] cerca, in brevissimo tempo, di riaffermare la coesione sulla difesa/frammentazione: “Sento le mie dita e il mio naso staccarsi da me”(funzione difensiva/frammentazione) diventa  “Anch’io[4] marcisco” (funzione sintetica), manifestazione linguistica, tramite l’uso del pronome ‘io’, dello sforzo sintetico. E cioè: “Io, tutta intera –  una  unità psicosomatica  e non solo parti del corpo – mi decompongo”.

 Verrebbe così a configurarsi un conflitto all’interno del sistema Io tra la funzione difensiva e quella sintetica: ipotizzo che questo dia luogo a sensazioni e pensieri consci e inconsci  altalenanti, espressioni ora dell’una e ora dell’altra  funzione. Il che  mi farebbe meglio comprendere i passaggi da  momenti di semi-ottundimento a quelli di estrema lucidità descritti da  Kertész  quando fa dire a Gyurka: “Persino  ad Auschwitz ci si può  annoiare” (1975,102), (ottundimento) e, poco  prima, “Potrei addirittura giurarlo: sulla via di ritorno dalle latrine non ho parlato con nessuno di estraneo. Eppure, è a quel preciso momento che posso far risalire l’esatta comprensione della situazione. Là di fronte, in quello stesso istante, stavano bruciando i nostri compagni di viaggio” (ibidem, 95), (lucidità). Ipotizzo che, nelle situazioni di barbarie,  la funzione difensiva/frammentazione e la funzione sintetica  agiscano in maniera intermittente, prevalendo  l’una sull’altra  in modo alternante.

Ammesso che  si installi un funzionamento  di questo tipo per un tempo  prolungato, quali sono le conseguenze sul carattere il quale comporta, come ho già detto,  una  fissazione a determinati meccanismi difensivi con conseguente modificazione dell’Io?  I mutamenti  dell’Io avvenuti durante periodi di barbarie perdurano anche dopo? Se sì, sono modificabili? Questo potrebbe diventare un ambito di ricerca a partire dalla clinica.   

Nella descrizione di altri sopravvissuti il corpo diventa  un sacco vuoto abbandonato dallo psichico,  una macchina che procede per mezzo di un ‘pilota automatico’, un sarcofago “come quello di Chernobyl”, una corazza cementificata. La pietrificazione, diceva Oppenheim, è una reazione difensiva particolare contro la  difesa/frantumazione. Questa considerazione mi porta a fare un passettino in avanti nella mia comprensione della dinamica delle difese: esse possono persino entrare in conflitto l’una con l’altra  (e non solo con la funzione sintetica) per imporre quella che al momento appare all’Io in difficoltà la più conveniente.

 

 

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[1] Uno del 1946, Note su alcuni meccanismi schizoidi e l’altro del 1948, Sulla teoria dell’angoscia e del senso di colpa, v. bibliografia.

[2]  Francine Christophe, scrittrice, venne arrestata con la madre a 9 anni; transitò in vari campi francesi per poi essere deportata a 11 anni a Bergen-Belsen. Venne liberata dall’Armata russa a 12 anni.

[3] Tale concetto vuole sottolineare la tendenza  dell’Io a unire, collegare ricostruire, semplificare, generalizzare e infine capire.

[4] Corsivo mio.

Dettagli e scrittura

Gli autori, tramite il lavoro della  scrittura,   cercano di rompere in piccoli pezzi il ‘blocco granitico’ traumatico/difensivo lavorando sui minimi dettagli  (dettagli che li aiutano non tanto a descrivere una ‘storia’ quanto ad entrare in contatto con sé stessi, con quello che hanno vissuto) per mettere insieme la propria unità psichica, fisica e storica  creando una narrazione che abbia una sua coerenza.

Il lavoro psicoterapeutico con gli adolescenti vittime delle attuali barbarie – che, in base all’esperienza clinica, Oppenheim ritiene manifestino problemi in parte similari a coloro che furono vittime della Shoah[1] – usa, per un analogo obiettivo, una analoga tecnica: collegare ogni singola rappresentazione coscia (i dettagli) con  le rappresentazioni  e gli affetti  inconsci, resi tali dal trauma specifico e dalle precedenti configurazioni complessuali.

I dettagli si collocano all’interno di un racconto, quello del sopravvissuto,  che – anche quando la voce parlante è in prima persona –  deve essere considerato autofiction. Ciò che  è rilevante  non è la verità degli eventi narrati intesa come  verità fattuale, ma il fatto  che il sopravvissuto si senta legittimato a dire la sua verità  riuscendo a sganciarsi dalle difficoltà  incontrate prima di potersi concedere il diritto alla parola. Nel dibattito è stato osservato che  la scrittura permette  di elaborare l’esperienza  ma,  allo stesso tempo, di  stravolgerla, di mentire: la scrittura è anche menzogna. A questo proposito Daniel Pennac scrive in Signori bambini: “Immaginazione non significa menzogna […] [Questo] vuol dire tra le altre cose che una immagine deve essere esatta per rappresentare o significare qualche cosa” (1997, 67).  L’esattezza, a mio modo di vedere, sta nel dettaglio; è quella esattezza necessaria  per entrare in dialogo con sé e con gli altri; per descrivere le soggettive e uniche prese di coscienza  relative ad un prima, un durante e un dopo l’esperienza della barbarie; è l’esattezza necessaria anche per poter sopravvivere alla scrittura stessa. Lo psichiatra polacco/francese S. Tomkiewicz, che immediatamente dopo la liberazione e poi per moltissimi anni si ancorò solo al  presente e  al futuro con grande passione (amico di F. Basaglia, dedicò buona parte della sua vita nella lotta contro il maltrattamento delle istituzioni psichiatriche  nei confronti soprattutto dei bambini e degli adolescenti), dice che, se si fosse messo a scrivere del ghetto prima del momento in cui lo fece, sarebbe morto (cfr. Tomkiewicz,1999,164).

 

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[1] Fermo restando che la Shoah è  un fatto assolutamente  unico.

Sopravvivenza

Nei dettagli  possiamo scoprire elementi che possono dirci qualche cosa sulla capacità dell’essere umano a restare in vita nelle condizioni estreme della barbarie? Ci sono capacità nel/del corpo e nella /della psiche  di reagire, capacità  non  sufficienti ma necessarie?

Fermo restando  che  la sopravvivenza dei deportati è dipesa dal caso  e che i sopravvissuti   non attribuiscono a sé stessi il fatto di essere rimasti vivi, e ipotizzando che possano anche esserci capacità  fisiche di resistenza geneticamente determinate, alcuni  scrittori  fanno pensare che il diniego tramite la  fantasia, di cui parla Anna Freud, potrebbe giocarvi un ruolo.  Si tratta di un meccanismo difensivo  impiegato dai bambini utile per far fronte a una realtà dolorosa al fine, poi, di accettarla: il suo impiego, scrive, è una vera e propria “conquista” (cfr. Freud A., 1936, 81). Credo che anche in adolescenza (e probabilmente per tutta la vita) questo meccanismo sia utile e necessario, tanto è vero che alcuni  scrittori lo menzionano come un elemento importante nell’affrontare lo sconforto, la solitudine, la disperazione: ne parlano nei termini di ‘identificazione’, con degli animali ad esempio o, come L. Segre, con una stella.   Un’altra risorsa messa in moto da alcuni fu  quella  di vietarsi di provare emozioni o ricordi.  Altri, invece,  fecero esattamente il contrario: si  affidarono proprio a emozioni e ricordi  felici. In altri casi  ancora furono gli  aspetti ‘volontaristici’ ad avere un ruolo importante: alcuni reduci dalla tortura dicono che separare lo psichico dal corpo e lasciare che il corpo subisca tutto quel che c’è da subire  fu, per loro, un modo di resistere.  Altri, nei Lager,  cercarono a tutti i costi  di preservare la propria immagine in continuità  con quella che era prima della deportazione continuando a lavarsi ogni giorno con l’acqua ghiacciata. Anche Kertész accenna  all’ estrema utilità  di tale pratica: il lavarsi – e cioè il tentativo di ritrovare la continuità della propria immagine/esistenza con quella ‘prima della barbarie’- costituirebbe l’espressione di una delle difese messe in atto contro il divenire ‘un musulmano’.

Dal momento che non si trovano  negli scritti elementi  che possano dirci se certi fattori giochino  un ruolo specifico  nella capacità di sopravvivere, è necessario leggerli  restando disponibili  a cogliere ogni dettaglio, aperti a tutte le possibilità, anche  quando certe soluzioni o certe iniziative sembrano andare contro il buon senso.

Tomkiewicz, in prossimità della liberazione, senza sapere se ci sarebbe arrivato vivo o morto, fece una cosa che “può sembrare pazzesca” ma che indicava chiaramente il suo “stato d’animo in quel periodo. In dicembre incominciai a pormi delle domande: ‘Come farò a mostrarmi agli Alleati dopo la liberazione? Non ho più nulla da indossare, i miei abiti sono ridotti a degli stracci, non ho più scarpe, non ho più niente, nessuno mi rivolgerà la parola, sarò un barbone’. Non avevo nessuna fiducia negli ebrei dal resto del mondo, né nei democratici vincitori perché ci avevano lasciato crepare senza muovere un dito  [… ] Non sapevo più che cosa mettermi ed ero molto infelice. Dall’altra parte del filo spinato c’era il campo degli olandesi, quello in cui morì Anna Frank […]. Quegli olandesi erano molto ricchi, erano vestiti molto bene ed erano dieci volte meno affamati di noi poiché erano arrivati più tardi. […] Fu in quel periodo che acquistai da uno di loro un abito molto elegante, un tre pezzi di lana inglese grigio chiaro, uno degli abiti più lussuosi che abbia mai avuto in vita mia. Lo pagai un chilo e mezzo di pane. Ciò significa che mi privai di quindici giorni di cibo per potermi offrire quel lusso. Dovevo essere pazzo” (1999, 51-52). Persa la fiducia nel prossimo Tomkiewicz – anche a costo di morire di fame- investì narcisisticamente l’immagine  fantasticata di un  se stesso libero  e elegante, un signore e non un barbone. Sì, fu  una pazzia  quella che fece, una pazzia atta, però, a conservare l’investimento libidico su di sé  e la dimensione della continuità del tempo vivente  a fronte di una immobilità mortifera.  

Difficoltà  da superare  

Per poter ‘dire’, un sopravvissuto alla barbarie deve affrontare e superare paure molteplici: che la propria esperienza non sia capita; di soffrire ancora parlando delle proprie sofferenze; di non essere all’altezza della verità fattuale; della verità di ciò che è stato vissuto; di spaventare gli altri; di essere considerato solo come una debole vittima.

Leggendo Tomkiewicz,  risulta evidente la sua necessità di rifiutare quest’ultima etichetta al punto da ritenere paradossalmente che fu proprio il ‘menefreghismo’(testuali parole) dei medici della  Salpêtrière (che non solo non lo consideravano una vittima ma nemmeno un paziente da curare e salvare) un fattore importante della sua guarigione (cfr.1999, 60) [1]. Egli, a mio avviso, non si riferisce  tanto al ristabilimento dalla tubercolosi – per quello gli ci vollero  tre anni in sanatorio – quanto alla ‘guarigione’  intesa  come una trasformazione psichica (che avvenne subitaneamente) per far fronte allo stato di solitudine  terrorizzante in cui si era venuto a trovare. Essa consistette in un mutamento da uno stato di passività ad uno  di attività (manifestatasi con un girovagare per l’ospedale – e non solo –  chiacchierando e disprezzando) avvenuto grazie al ricorso a difese maniacali, processo che per lui fu salvifico. Ascoltando Tomkiewicz mi chiedo: “In certo casi, nell’immediato, si dovrebbe ‘non curare troppo’?  E cioè: rispettare le difese messe in atto anche se sembrano eccessive,  aspettando che facciano il loro effetto e rimandando (eventualmente e se necessario) la loro analisi in un tempo successivo? Penso di sì e anche questo credo sia un insegnamento.

 

 

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[1] Stanislas Tomkiewicz, vissuto nel ghetto di Varsavia, fuggito a una prima deportazione a 17 anni e mezzo, successivamente deportato a Bergen-Belsen, dopo la librazione nel 1945  venne traferito a Parigi  e qui ricoverato in ospedale. Scrive :“Ricordo ancora come si svolgevano le visite, era una farsa: i medici si fermavano meno di un minuto davanti a ogni letto: “Va bene? Va bene? Va bene?”. E, quando qualcuno moriva, lo coprivano con un lenzuolo. Avrebbero potuto salvarne a decine, magari anche di più, ma li lasciavano semplicemente morire.  Quella scelta aveva due motivazioni. Da un lato quei medici pensavano di non essere capaci di  curare i sopravvissuti […]. Ma c’era un altro motivo […]: a quel tempo i medici, per lo più simpatizzanti del maresciallo Pétain, non avevano voglia di curare degli ebrei, dei comunisti, della gentaglia proveniente dai campi di concentramento.

   Malgrado tutto, ho un ricordo molto buono di quel mese di giugno del 1945 alla Salpetrière. Ero molto fiero di trovarmi in quel luogo, anche se nello stato di candidato alla morte. Del resto, non ho mai creduto per un solo istante di morire. La morte era per gli altri.[…]

   Nonostante i morti, nonostante i medici, o piuttosto a causa della loro assenza, ero felice. Poiché eravamo tutti condannati, l’ospedale non ci imponeva il riposo a letto: non c’era nessuna disciplina, e ne ero ben felice. Passavo da un letto all’altro per chiacchierare con gli altri ammalati. Da dove venivano? Da quale campo di concentramento? Chi li attendeva? Chi avevano perduto?  Che cosa pensavano di fare una volta usciti dal dall’ospedale? Disprezzavo tutti quelli che avevano delle famiglie, dei gruppetti raccolti attorno al loro letto. Disprezzavo tutti quelli che ‘non ci erano stati’ , che non avevano avuto l’onore e la gloria di conoscere i ghetti, i campi di concentramento, i carnai, le morti,  i vagoni,  i colpi di fucile nelle vie svuotate dal terrore, o i colpi di fucile dall’alto delle torrette d’osservazione accanto ai fili spinati: erano delle sottospecie di uomini, degli esseri incompleti.

Disprezzavo, invidiavo, non capivo, ammiravo tutti quelli che non avevano avuto una famiglia massacrata, tutti quelli che vivevano fra i vivi, che non avevano nessun morto a cui pensare. Invidiavo, ammiravo, disprezzavo, detestavo tutti quelli che avevano una casa, un focolare, una tavola, un letto che non fosse quello dell’ospedale, un armadio pieno di vestiti diversi da quelli che indossavano. Non capivo che si potesse essere ‘normali’. Non volevo parlare con i malati che ricevevano visite dalle loro famiglie. Non erano persone vere, erano degli imboscati. Io ero senza legami, ero alla Salpetrière e vagavo da una stanza all’altra, gonfio d’orgoglio, pieno di timore, ripetendomi: “Non ho bisogno di nessuno, nessuno ha bisogno di me, non devo niente a nessuno, non ho debiti, non ho paura. Nei miei occhi ci sono così tanti morti che i tre, quattro morti il giorno di qui mi lasciano freddo, insensibile, indifferente. Uno più, uno meno, cinquanta più, cinquanta meno…”. […]

    Mi inebriavo di libertà (ma ogni tanto mi capitava di svenire) e ne avevo talmente bisogno, dopo quei cinque anni, che sono portato a considerare il menefreghismo dei medici della Salpetrière come un fattore importante della mia guarigione” (Tomkiewicz  S., 1999/2000, 58-59-60, corsivo mio).

Aspettare

Il Dr. Oppenheim, in base alla sua esperienza clinica, ha osservato che per molto tempo gli adolescenti sopravvissuti alle attuali barbarie  non parlano in modo autentico o tacciono sia  per le paure  cui accennavo prima  sia, come dicono alcuni degli scrittori presi in considerazione, per la vergogna.

Mi viene in mente Tomkiewicz  il quale aspettò circa 50 anni prima di scrivere  della sua esperienza  anche a causa della vergogna che gli derivava dal confronto interno con i deportati in altri lager. Sopravvissuto al campo di  Bergen- Belsen, fino a circa 70 anni ne aveva un ricordo evanescente. Si considerava e si descriveva soprattutto come  uno scampato al Ghetto di Varsavia e  molto poco come un ‘deportato” . Il considerarsi in questo modo gli sembrava  una usurpazione. A seguito di una intervista radiofonica  del 1995, una  amica gli disse che aveva avuto l’impressione che laggiù, nel lager,  egli fosse “come in un collegio” e questo non quadrava con altre testimonianze. “Fui quasi sconvolto  da quella critica  della mia minimalizzazione dei fatti […] Dovevo spingermi più in profondità per stanare i ricordi e rimuovere le resistenze. Finii per scoprire il fenomeno sottile che oscurava la mia memoria: era la vergogna di essere stato in  qualche modo privilegiato rispetto a quelli che avevano conosciuto i campi classici come Buchenwald, per non parlare di Auschwitz”(ibidem,53). Leggendo le testimonianze  ‘sconvolgenti’ di due internate a Bergen-Belsen (una postuma di sua sorella e una proprio di F. Christophe), un po’ alla volta Tomkiewicz riuscì a ricordare i carretti tirati da deportati  sfiniti e carichi di cadaveri in posizioni grottesche, i gruppi di scheletrite donne evacuate da Auschwitz  che mendicavano, il fumo dei camini,  gli edemi – provocati dalla fame – sul suo corpo, gli insetti: “I pidocchi, di cui ho parlato spesso in modo ameno, riapparvero assieme alle lendini attaccate al cuoio capelluto e al pube, assieme alla vergogna e al disgusto di sé”  (ibidem ,58).

Narcisismo ferito: motivo per non ricordare, per tacere. Motivo di cui tener conto nell’ascolto del silenzio di alcuni adolescenti  sopravvissuti oggi.

Disegni e barbarie: associazioni

Per finire, qualche associazione  a partire dall’immagine che ho scelto per la locandina relativa ai due incontri di Ricorrenze 2024: si tratta di uno degli 80 piccoli e particolareggiati disegni (che  illustrano la vita nel lager) eseguiti appena dopo la liberazione dal quindicenne Thomas Geve. Ebreo tedesco, a 13 anni venne deportato ad Auschwitz, poi a Gross-Rosen e infine a Buchenwald. Complessivamente egli rimase prigioniero per un anno e dieci mesi. Nell’immagine compaiono le scritte Kultur, Auschwitz I  e  Impiccagione di 12 polacchi sospettati di fuga. La didascalia che nel  libro accompagna il suo disegno recita: “Cultura. Impiccagioni pubbliche e tortura divennero parte della ‘cultura’  del Terzo Reich” (Geve T.,2021,191).

Il colore della parola Kultur, delle divise degli impiccati e del prigioniero è il medesimo: l’azzurro. Come pure  del suolo, il che mi rimanda ad acqua, freddo, ghiaccio.

 “Agghiacciante” dicono gli internati  ad Auschwitz  descritti da Kertész  quando, a proposito della loro situazione,  sgomenti si chiedono l’un l’altro “Cosa ne pensi? Cosa ne pensi” (Kertész I.,1975,  101).  E poco prima, sempre a proposito di Auschwitz, Gyurka racconta: “non ricordo tanto i singoli particolari quanto la loro atmosfera, ne ho una sensazione, un’impressione generale. Però mi riuscirebbe difficile descriverla.[…] Di tanto in tanto avvertivo anche la freddezza[1] di quella sensazione strana e sconosciuta che avevo provato la prima volta alla vista delle donne” (ibidem, 101).

Ghiaccio, freddo: azzurro. Credo sarebbe utile, ascoltando oggi  un sopravvissuto,  guardare insieme a lui i disegni che fa nei laboratori che alcuni centri di accoglienza attivano o  in seduta. I colori possono dire molto  (a lui e a noi) sulla atmosfera che ha vissuto durante la barbarie: essi potrebbero essere un ponte che permetterà, forse, il transito di parole e affetti tra gli aspetti scissi in vista di una eventuale sintesi vivificante.

“Kultur: impiccagioni pubbliche e tortura divennero parte della ‘cultura’ del Terzo Reich”, scrive  Geve.  Segre, parlando anche lei di “ cultura della morte”, dice: “Cercavo di non vedere la forca e le due ragazze polacche impiccate” (Segre L. 1995, 23). Pure Gyurka evitava  di guardare  il patibolo: “La sera dopo, durante il ritorno al campo, cercai di nuovo di non guardare a destra perché c’erano tre sedie con sopra  seduti tre uomini, o qualcosa di simile a tre uomini […]. Notai inoltre una struttura, una impalcatura che ricordava un po’ i supporti per sbattere i tappeti che c’erano nei cortili di Budapest, cui erano legate tre corde con un’asola – allora compresi: era un patibolo. […] I soliti esecutori delle punizioni si prepararono, dopo un’ulteriore attesa apparvero anche i rappresentanti delle autorità militare e allora tutto si svolse come da regolamento, per dirla così – per fortuna abbastanza lontano da noi, davanti, vicino ai lavatoi e  io evitai di guardare” (ibidem, 136-37).

 Segre e Kertész cercarono di non guardare. Ma non ci riuscirono.

Anche oggi tanti adolescenti  sfuggiti alla barbarie  hanno cercato  di non guardare: “Come può il nostro cervello reggere ai ricordi senza impazzire, come può ricordare i visi, i colori, i suoni, gli odori senza esserne soverchiato e perduto?” si chiede Segre  (ibidem, 20). Ecco, questo sarà  l’oggetto delle  mie prossime  riflessioni  e  ricerche.

 

[1] Corsivo mio

Bibliografia di riferimento

 

Christophe F. (1995;1996). Une petite fille privilégié. Un enfant dans le monde des camps 1942-1945. Paris, L’Harmattan.

Coquio C., Kalisky A. (2007). L’enfant et le génocide. Paris, Robert Laffont.

Freud A. (1936). L’Io e i meccanismi di difesa. Firenze, Martinelli, 1967.

Geve T.(2021). Il ragazzo che disegnò Auschwitz. Torino, Einaudi, 2022.

Kertèsz I. (1975). Essere senza destino. Milano, Feltrinelli,  2023.

Klein M. (1946). Note su alcuni meccanismi schizoidi. In Scritti 1921-1958. Torino,  Boringhieri,1978.

 Klein M. (1948). Sulla teoria dell’angoscia e del senso di colpa. In: Scritti 1921-1958. Torino, Boringhieri.

Pennac D. (1997). Signori bambini. Milano, Feltrinelli,  2013.

Segre L. (1995). Un’infanzia perduta. In Voci della Shoah. Firenze, La Nuova Italia.

Tomkiewicz  S. (1999). L’adolescenza rubata. Como, Red edizioni, 2000.                              

Mariagrazia Capitanio, Venezia

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