Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Enrico Levis
Traduttore dell’ebreo ungherese Imre Kertész, il prof. Sciacovelli ne ha delineato la figura all’interno della società e della letteratura del suo paese, misconosciuto dal suo regime oppressivo, che – pur in altra forma apparente – non si discostava troppo dal lager di Auschwitz in cui il destino l’ha rinchiuso come campo di annientamento. Non mi sembra però che egli sia riuscito a trasmetterne la drammaticità estrema[1]. Essendo io nell’impossibilità di essere presente al secondo appuntamento, ho sentito la necessità di mettere sulla carta alcuni elementi che mi sembrano rispondere al senso più profondo dei nostri incontri.
Essere senza destino (Kertész,1975) è il racconto perturbante di un tale succedersi di istanti fatali, in cui sovrano era l’arbitrio più assoluto: realtà cui pare possibile accostarsi solo attraverso approssimazioni più o meno adeguate. Di fronte ad una tale serie di eventi, con un semplice cenno del capo si moriva o si scampava alla morte. E chi sopravviveva aveva comunque “perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi” (Levi, 1986,1196).
Già Primo Levi, in Se questo è un uomo (1947), ci aveva trasmesso l’esperienza stravolgente di un tale sistema dominato dalla violenza e dai soprusi, di fronte ai quali il prigioniero aveva – da subito – avvertito l’urgenza della testimonianza che registrasse i tanti sguardi attoniti e le tante domande senza risposta, nel bisogno di prendere appunti già nel campo, anche se con il rischio di un’immediata messa a morte.
L’occhio di naturalista di Levi ci appare nutrito dalla curiosità e dall’abito di scienziato, anche se alimentato dallo studio dei classici. Lo mostra bene il toccante episodio de Il canto di Ulisse, nel quale i versi dell’Inferno dantesco – pur malamente ricordati e tradotti in un francese approssimativo per Pikolo – permettono di aprire un incredibile momento di condivisione con il compagno di sventura. Ben diverso è lo sguardo ironico e scanzonato di un Kertész adolescente, con la sua capacità di meravigliarsi, e la sua voglia di vivere e comprendere le logiche dei singoli sconvolgenti accadimenti, in un mondo sempre più dominato dalla sopraffazione e dall’assurdità più totali. Mondo per il quale è costretto a partire non tanto per marinare – come poteva agli inizi fantasticare – il ginnasio, quanto per una impossibile “carriera” di internato, per la quale – a scuola – non vi era stata, ahimè, alcuna lezione preliminare.
Al di là di risposte precostituite, “con intelletto pratico” (Kertész,1998, 127), ogni evento – di per sé imprevedibile anche se con una propria logica aberrante – destava in Imre/Gyurka le domande e le fantasie di un bambino che doveva “adattarsi nel mondo del nulla, orientarsi e cavarserla, dato che il nulla per lui significava semplicemente la vita nella quale doveva sapersi orientare, il che non era più difficile di quanto non lo sia per i bambini imparare a parlare” (ib.,127). Per non essere avviato – come un semplice bambino – a un ‘immediata selezione, deve fare affidamento così – in un attimo – sulla propria prestanza fisica e sul proprio torace ben sviluppato. Solo attribuendosi un’età maggiore di due anni, può ritornare, con orgoglio, al gruppo di compagni che lo attendevano festanti.
Inizia così un viaggio tra i tormenti dell’assurdo, di cui è quanto mai difficile ricordare “ i singoli particolari, quanto piuttosto la loro atmosfera” (Kertész, 1975,101), in una serie infinita di attimi di disorientamento e di caos in cui la persona veniva di continuo sbatacchiata di qua e di là dal caso: un’esistenza la cui cifra raccapricciante complessiva poteva essere forse rappresentata dalla musica della banda del campo – come ricorda (Levi,1947,32) risvegliato nel giaciglio dell’infermeria del lager dal ritmo distante dell’orchestrina. O, forse, dall’odore atroce della carne umana bruciata nei forni crematori – come fa Jorge Semprún (1994, 268), altro reduce dai campi (che fu poi anche tradotto da Kertész).
Levi scrive di getto Se questo è un uomo, a breve distanza dal suo ritorno a casa. Kertész deve invece affidarsi alla propria “memoria creativa” (coltivata nel corso di un decennio come traduttore e autore di pièces teatrali) per riuscire a “ricreare l’attimo” (Kertész, 1998, 83) delle proprie esperienze sconvolgenti, di momento in momento. Grazie a lui, siamo anche noi oggi in grado di compiere quella discesa agli inferi progressiva ed inesorabile, i cui “riti di passaggio” vengono descritti sempre da Kertész con estrema delicatezza.
Come quando il ragazzo viene rapato e depilato da un barbiere/detenuto (che non parlava la sua lingua): “poi si sedette davanti a me sullo sgabello. Mi afferrò il membro senza alcuna esitazione, la parte più delicata. E anche qui scorticò via tutta la chioma, tutto quanto quel po’ di orgoglio maschile che mi era spuntato da non molto tempo. Può sembrare incomprensibile, ma quella perdita mi ferì ancora di più di quella dei capelli. Ero sorpreso e anche un po’ seccato – poi mi resi conto che era ridicolo, in fondo, soffermarsi su un’inezia del genere. Oltretutto vidi che lo stesso succedeva a tutti gli altri, anche ai ragazzi che non mancarono di canzonare subito il Mistoseta: come farai adesso con le ragazze?” (Kertész, 1975, 83).
Da Auschwitz, Imre viene trasferito a Buchenwald, quindi a Zeitz, “un campo piccolo, misero, isolato, per così dire un campo di concentramento di provincia” (ib., 1975, 111)- con un sistema di terrore diverso, anche se con “usanze” (ib.,1975, 99) altrettanto incomprensibili – per sprofondare sempre più nel deperimento più totale. Ha la fortuna di legarsi ad un altro detenuto già esperto nella vita dei campi (proveniente come lui da Budapest), che gli aveva dato una mano (presentandosi con il proprio nome) per risollevarsi da terra dove “una persona di riguardo” l’aveva sbattuto, sanguinante. Ma Imre/Gyurka precipita sempre più nell’orrore, in una lotta disperata – nella sua stessa carne – con pulci e pidocchi (cfr. ib., 154). Una spossatezza estrema lo avvicina sempre più ai musulmani, “punti interrogativi viventi” (ib.,118) per i quali “basta guardarli che ti passa la voglia di vivere”: “al termine di quella giornata, sentii che dentro di me qualcosa si era irrimediabilmente rotto, da quel momento in poi ogni mattina pensavo che fosse l’ultima in cui ancora mi sarei alzato in piedi, e a ogni passo pensavo che il prossimo non sarei riuscito a farlo, e a ogni movimento, che non avrei più avuto la forza di farne un altro; invece, per il momento ci riuscivo ancora” ( ib., 144).
Anche dopo la liberazione dai campi, un’angoscia ritorna “ad ora incerta” (Levi, 1984, 675) – per riprendere il titolo della raccolta di poesie di Primo Levi – nei tempi lunghi (10 anni!) richiesti dalla stesura di Essere senza destino. In un contesto nuovo, ma non così distante dal precedente (per il terrore dapprima di essere nuovamente deportati, quindi per il grigiore di una realtà asfittica ed oppressiva in cui nessuno può realizzarsi), si vengono a stagliare “una serie di elementi e di tracce che ne erano prima al margine” , soppiantando quell’ordine della vita umana che sembrava il centro inesorabile di essa.
Così le esperienze originarie – con le loro memorie sensoriali – vengono ad avere il sopravvento: alla ricerca dei propri punti di riferimento, non più dettati dagli altri. La volontà di scriverne si palesa “come un progetto di vita incontrastabile” facendo finalmente dello scrittore l’artefice della propria sorte.
È quanto Mariagrazia Capitanio – in Ricorrenze di umanità – ha colto, accennando alla pesantezza della scrittura di Fiasco (1988), il secondo romanzo di Kertész che parte dall’ossessiva descrizione di una stanza e degli oggetti che circondano lo scrittore come imprigionato all’interno di un minuscolo appartamento, nel quale sembra quasi impossibile orizzontarsi, come è avvenuto negli anni all’autore ungherese.
È quanto noi abbiamo la possibilità, nel nostro lavoro, di creare e mantenere negli anni, assieme ai nostri pazienti, quel nuovo contesto nel quale – sia pure a tentoni – possiamo cercare di riavvicinare le memorie sensoriali originarie, recuperando assieme a loro (dalle celle in cui sono imprigionati!) i momenti vitali delle loro esistenze tanto travagliate.
Bibliografia
Gargani A.G. (1986) Lo stupore e il caso, Roma-Bari, Laterza.
Gargani A.G. (1988). Sguardo e destino. Roma-Bari, Laterza.
Kertész I.(1975). Essere senza destino. Milano, Feltrinelli, 2023.
Kertész I. (1988). Fiasco. Milano, Feltrinelli, 2011.
Kertész I. (1998). Il secolo infelice. Milano, Bompiani, 2007/2016.
Levi P. (1947). Se questo è un uomo OC1. Torino, Einaudi, 2016.
Levi P. (1984). Ad ora incerta, OC 2. Torino, Einaudi, 2016.
Levi P. (1986). I sommersi e i salvati. OC2, Torino, Einaudi, 2016.
Semprún J. (1994). La scrittura o la vita. Milano, Guanda, 1996.
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[1] [Come organizzatrice dell’incontro specifico che avevo chiesto al prof. Sciacovelli di parlarci in termini generali di I. Kertész, della sua opera nonché dello scenario storico, politico, sociale e letterario in cui è vissuto].
E’ possibile scaricare questo articolo assieme agli altri contributi della serata anche in versione PDF
*Per citare questo articolo:
Capitanio M. (2025). “Ricorrenze di Umanità 2025: Imre Kertész: leggerlo insieme”. Centro Veneto di Psicoanalisi, Sito wwww.centrovenetodipsicoanlisi.it, sezione “Report e Materiali”, 1-32.
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